Art. 25-bis comma 5 bis D. Lgs. 546/1992: con la riforma fiscale nasce davvero un onere del difensore di attestare la conformità di tutti i documenti?

Di Alberto Michelis - con postilla di Alberto Marcheselli -

Abstract

Il nuovo comma 5-bis dell’art. 25-bis del D.Lgs. n. 546/1992 è una delle nuove disposizioni normative inserite nella riforma del processo tributario. Si propongono alcune riflessioni critiche e taluni dubbi interpretativi.

Art. 25-bis paragraph 5 bis D.Lgs. 546/1992: does the tax reform really place a burden on the defender to certify the conformity of all documents? – The new paragraph 5 bis of the art. 25-bis of Legislative Decree 546/1992 is one of the new regulatory provisions included in the reform of the tax process. Some critical reflections and some interpretative doubts are proposed.

 

 

Sommario: 1. Premessa. Inquadramento del problema. – 2. Il regime previgente. – 3. Onere di attestazione di conformità di tutti i documenti? – 4. La riforma del 2024 ha la finalità di semplificare e non di complicare. – 5. Un argomento sulla collocazione della nuova norma. – 6. Una via di uscita: onere di attestazione e (residui) processi cartacei. – 7. Postilla (Alberto Marcheselli).

1. L’art. 25-bis D.Lgs. n. 546/1992 è una delle disposizioni normative interessate dalla riforma del processo tributario, che interviene sul previgente dettato testuale con l’aggiunta di un comma 5-bis[1], di incerto significato e di dubbia portata interpretativa. Esso è già stato oggetto di commento su questa Rivista e questo articolo costituisce una proposta di rilettura alternativa. L’incertezza semantica non riguarda tanto il primo periodo, il cui contenuto è del tutto piano, e codifica un principio assodato anche a seguito della sentenza delle Sezioni Unite n. 4835/2023 dello scorso 16 febbraio 2023, quanto il secondo che, nell’imporre un’attestazione di conformità alla copia per immagine degli originali cartacei, in difetto della quale «il giudice non tiene conto» degli atti e dei documenti, ha gettato scompiglio fra gli operatori del contenzioso tributario.

Vi è chi ha intravisto, in questo ultimo periodo, nascosto sulla fine dell’art. 25-bis, la volontà di imporre una certificazione di conformità di tutti i depositi di atti e documenti all’interno del processo tributario telematico, che, invero, va addirittura al di là delle disposizioni contenute del D.Lgs. n. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione digitale, d’ora in avanti “CAD”) e delle stesse previsioni dei precedenti commi del medesimo articolo.

Tale preoccupazione è dettata essenzialmente dalla sanzione processuale dell’inutilizzabilità dei documenti che difettano di copia informatica attestata, ai fini della decisione.

Dalla lettura della relazione al decreto – poco più che riproduttiva del testo normativo – non si desumono argomenti decisivi in ordine alla corretta interpretazione di tale disposizione.

Si afferma infatti che «In attuazione del criterio direttivo di cui all’articolo 19, comma 1, lettera b), relativo al potenziamento dell’informatizzazione della giustizia tributaria e, più in particolare, alla luce del superamento della distinzione tra fascicolo di parte e fascicolo d’ufficio conseguente all’informatizzazione del processo, da ultimo ribadito anche dalle S.U. della Cassazione, viene inserito all’interno dell’articolo 25 il comma 5-bis che prevede che gli atti e i documenti contenuti nel fascicolo telematico non devono essere nuovamente depositati nelle fasi successive del giudizio o nei suoi ulteriori gradi. Viene tuttavia previsto che il giudice non tenga conto degli atti e documenti cartacei dei quali le parti non abbiano provveduto al deposito in copia informatica con attestazione di conformità all’originale ai sensi dell’articolo 22 CAD».

La novella si presenta come puramente additiva della citata disposizione; non modifica i restanti commi dell’articolo e in particolare non modifica il primo comma, a mente del quale «Al fine del deposito e della notifica con modalità telematiche della copia informatica, anche per immagine, di un atto processuale di parte, di un provvedimento del giudice o di un documento formato su supporto analogico e detenuto in originale o in copia conforme, il difensore e il dipendente di cui si avvalgono l’ente impositore, l’agente della riscossione ed i soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, attestano la conformità della copia al predetto atto secondo le modalità di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82».

2. Tale disposizione, introdotta dal D.L. n. 119/2018 come convertito dalla L. n. 136/2018, prevedeva già l’attestazione della conformità della copia di un atto depositato al suo originale analogico secondo le modalità previste dal CAD, ma tale previsione, stabiliva un potere di certificazione, non certo un obbligo, men che meno un obbligo sanzionato[2].

Peraltro, con la circ. 4 luglio 2019, n. 1 – Dipartimento delle Finanze – Direzione della Giustizia tributaria recante «Processo tributario telematico – Nuove disposizioni in materia di giustizia tributaria digitale – articolo 16 del decreto legge 23 ottobre 2018, n. 119, convertito dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136», lo stesso MEF si premurava di chiarire che:

a) la disposizione dell’art. 25-bisLgs. n. 546/92 nulla aggiunge e nulla sottrae alle regole del CAD, la cui disciplina è presa come riferimento anche per il processo tributario telematico;

b) gli atti pubblici, le scritture private e i documenti in genere, compresi gli atti e documenti amministrativi formati in origine su supporto analogico, ed acquisiti mediante copia per immagine hanno piena efficacia, ai sensi degli artt. 2714 e 2715 c.c., se ad essi è apposta o associata, da parte di colui che li spedisce o rilascia, una firma digitale o altra firma elettronica qualificata (= art. 22, comma 1, CAD);

c) le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico (quindi, tutti i documenti originariamente cartacei) hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono estratte, se la loro conformità è attestata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato (= art. 22, comma 2, CAD). In questo senso, l’art. 25-bis precisa solo che “pubblico ufficiale a ciò autorizzato” sono anche «il difensore e il dipendente di cui si avvalgono l’ente impositore, l’agente della riscossione ed i soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446» (l’enfasi è nostra);

d) in ogni caso le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico, nel rispetto delle Linee guida emanate dall’AGID a dicembre 2015, hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta (art. 22, comma 3, CAD);

e) i difensori pubblici e privati al momento del deposito degli atti possono attestare la conformità delle copie degli atti digitali a quelli analogici detenuti in originale o in copia conforme, allegando a dette copie una apposita dichiarazione secondo le modalità previste dal D.Lgs. n. 82/2005.

 

3. In definitiva, nell’originaria stesura, l’art. 25-bis, anche nella lettura datane dal MEF, prevedeva sì la possibilità per il difensore del ricorrente di attestare la conformità degli atti processuali, dei provvedimenti e dei «documenti detenuti in originale o in copia conforme», ma non gli imponeva affatto di attestare la conformità all’originale cartaceo di qualsiasi documento depositato in giudizio.

Laddove si parla di «documenti detenuti in originale o in copia conforme» dal difensore, occorre peraltro considerare che, perché lo stesso possa attestarne la conformità ad un originale cartaceo, si deve pur sempre trattare di documenti di cui il difensore possegga l’originale o una copia conforme, e in relazione ai quali abbia compiuto un’attività materiale giuridicamente rilevante: si pensi, ad esempio, all’originale cartaceo di una notifica eseguita ad altre parti prive di posta certificata (i.e. un intervento iussu iudicis), alla stessa procura alle liti, o ancora a documenti di altri procedimenti giudiziari di cui il difensore attesti la conformità agli originali da cui sono stati estratti.

Tale disposizione non deve pertanto essere letta – e sino ad oggi, invero non è mai stata letta – come un obbligo di attestare la conformità anche dei documenti forniti dal cliente per la propria difesa, sia perché – di regola – non detenuti dal difensore né in originale, né in copia conforme, sia perché talora neppure forniti al difensore in forma cartacea (come prescrive la disposizione), ma inviati magari via mail, già in copia per immagine in formato .pdf, .jpeg, .tiff, ecc.

Invero, l’impiego delle tecnologie informatiche in ambito aziendale comporta che in molti casi non esista neppure un originale cartaceo dal quale estrarre una copia mediante immagine: gli stessi registri e libri obbligatori non vengono più tenuti in forma cartacea, ma esclusivamente digitale e l’estrazione di un mastrino, di un sotto-conto o dello stesso registro IVA acquisti o vendite in genere si sostanzia nella generazione di un documento informatico riproduttivo dei dati contenuti nel software gestionale, non nella stampa cartacea.

In questo caso, non essendovi alcun originale analogico alcuna attestazione di conformità sarebbe neppure dovuta, ai sensi della disposizione in commento!

Le produzioni documentali, invero, sono sottratte all’applicazione dell’art. 22, comma 2, CAD, in quanto ricadono nella disciplina del comma 3 del medesimo articolo, in forza del quale «le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico nel rispetto delle Linee guida hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta».

Ricorrendo le condizioni del comma 3 dell’art. 22, pertanto (ove non disconosciute espressamente) le copie informatiche di documenti originariamente analogici non necessitano di alcuna attestazione di conformità, perché la loro conformità è già espressamente sancita ex lege: sul punto si è espressa, sostanzialmente negli stessi termini, anche Corte di Giustizia tributaria di secondo grado Lazio Roma, sez. XVII, sent., 4 aprile 2023, n. 1954 (data ud. 22 marzo 2023).

Tale ricostruzione pare del resto coerente anche con il mutato quadro normativo delle fonti secondarie che ha portato ad una piena conformazione delle specifiche tecniche del processo tributario alla regola sancita dall’art. 22, comma 3, CAD.

Con il D.M. 21 aprile 2023, infatti, il MEF è intervenuto a modificare l’art. 10 D.M. 4 agosto 2015 che disciplina gli standard dei documenti informatici allegati agli atti processuali rimuovendo l’obbligo di firma qualificata o digitale, e mantenendo la sottoscrizione digitale del documento prodotto solo quale mera facoltà del difensore.

Tale disposizione sarebbe oggettivamente inspiegabile (ed illegittima), se si volesse considerare l’esistenza di un obbligo generalizzato di attestazione di conformità all’interno della disposizione dell’art. 25, comma 1.

In questo senso mi pare di poter affermare che in relazione alle produzioni documentali, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 25-bis nell’originaria formulazione non sussisteva alcun obbligo di attestazione di conformità per il difensore del contribuente.

4. In questo contesto normativo non sembra che l’introduzione dell’art. 25, comma 5-bis alteri in modo significativo il suddetto quadro, o, peggio, introduca, in via generalizzata un obbligo di certificazione di conformità di documenti che, in ipotesi, il difensore potrebbe non aver mai neppure acquisito o visto in forma cartacea!

Le argomentazioni a sostegno di tale tesi sono molteplici.

In primo luogo, occorre considerare che l’imposizione di un tale obbligo in via generalizzata, costituirebbe un aggravamento degli obblighi a carico delle parti e l’introduzione di un regime di certificazione documentale più restrittivo di quello previsto dal CAD.

Tale intenzione non traspare dagli atti della riforma, ma, se fosse reale, desterebbe serie perplessità di tenuta costituzionale, per eccesso di delega, dal momento che obiettivo dichiarato della riforma è quello di semplificare il processo, non certo di complicarlo…

I criteri direttivi dell’art. 19 L. n. 111/2023, in tema di processo tributario e nello specifico ambito dell’informatizzazione della Giustizia tributaria (art. 19, comma 1, lett. b), richiamati espressamente anche nella relazione al decreto delegato sono infatti:

«1) la semplificazione della normativa processuale funzionale alla completa digitalizzazione del processo;

2) l’obbligo dell’utilizzo di modelli predefiniti per la redazione degli atti processuali, dei verbali e dei provvedimenti giurisdizionali;

3) la disciplina delle conseguenze processuali derivanti dalla violazione degli obblighi di utilizzo delle modalità telematiche;

4) la previsione che la discussione da remoto possa essere chiesta anche da una sola delle parti costituite nel processo, con istanza da notificare alle altre parti, fermo restando il diritto di queste ultime di partecipare in presenza».

Tali obiettivi non sembrano consentire, neppure con una lettura fantasiosa, la creazione di “nuovi” regimi sulla conformità delle copie informatiche alle copie cartacee, diversi da quelli previsti dal CAD; quantomeno non nella misura in cui tali regimi siano più gravosi e penalizzanti per le difese, rispetto a quelli ordinari (pena il sacrificio della semplificazione).

5. In secondo luogo, ciò che non convince è, dal punto di vista sistematico, la collocazione della disposizione in esame.

La norma sull’obbligo del giudice di non tener conto di documenti originali cartacei di cui non sia stata depositata copia informatica attestata mediante certificazione di conformità, non infatti è contenuta in un apposito articolo, né in un apposito comma, come sarebbe lecito attendersi da una disposizione che si assume modificare profondamente il regime di documentazione processuale delle prove.

Al contrario, la disposizione costituisce il secondo periodo di un comma che, nella prima parte si limita ad escludere l’obbligo di un nuovo deposito in appello dei documenti prodotti in primo grado o comunque in un precedente grado di giudizio.

Pare dunque ragionevole ritenere che la sua corretta interpretazione debba ricercarsi proprio nel contesto delineato dalla prima parte del comma, ossia nell’ambito della disciplina della formazione del fascicolo telematico.

6. Tale osservazione si riallaccia ad un’ulteriore considerazione.

A seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 119/2018 come convertito dalla L. n. 136/2018, si è generalizzato l’obbligo di deposito telematico degli atti processuali, dei documenti e dei provvedimenti giurisdizionali a decorrere dal 1° luglio 2019. In precedenza, l’impiego dello strumento del processo tributario telematico era solo facoltativo e comportava comunque la possibile convivenza di atti depositati telematicamente e atti depositati in forma cartacea.

L’art. 12 D.M. 23 dicembre 2013, n. 163 stabiliva che «Gli atti e documenti depositati in formato cartaceo sono acquisiti dalla Segreteria della Commissione tributaria che provvede ad effettuarne copia informatica e ad inserirla nel fascicolo informatico, apponendo la firma elettronica qualificata o firma digitale ai sensi dell’articolo 22, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. […]».

Alla luce di tale disposizione, tutt’ora vigente, l’ultimo periodo del comma 5-bis potrebbe essere letto, non nel senso di attribuire al difensore un potere (o peggio un obbligo) di attestazione di conformità di documenti cartacei tout court, ma semplicemente di ribadire che il giudice potrà prendere in considerazione solo quegli atti che, anche se prodotti in forma cartacea, siano poi stati inseriti nel fascicolo telematico in copia per immagine, certificata conforme al documento originariamente prodotto.

Tale lettura potrebbe essere corroborata da un argomento squisitamente logico: in un sistema integralmente telematico, infatti, è evidente che il giudice non abbia a disposizione alcun documento cartaceo; ciò è vero in particolar modo nei ricorsi introdotti dopo il 1° luglio 2019.

In tale contesto dire che il giudice “non può tener conto degli atti e dei documenti su supporto cartaceo dei quali non è depositata nel fascicolo telematico la copia informatica, anche per immagine, munita di attestazione di conformità all’originale”, fa sorgere immediatamente la domanda: quali sono questi atti e documenti su supporto cartaceo?

Poiché dal luglio 2019 tutti gli atti sono depositati telematicamente, o come documenti informatici (muniti di firma digitale) o come copia per immagine, la disposizione deve fare necessariamente riferimento ad atti o documenti cartacei, prodotti in giudizio prima del luglio 2019, di cui non esista una corrispondente copia per immagine.

Ciò potrebbe accadere, ad esempio, in relazione a contenziosi iniziati prima del 2014 (ossia prima dell’avvio anche in via sperimentale del processo tributario telematico e dell’applicazione del D.M. 23 dicembre 2013, n. 163), non ancora definiti, magari a seguito di rinvio dalla Cassazione o di altri eventi che hanno determinato una particolare lentezza del processo.

In tali ipotesi potrebbe effettivamente verificarsi che, accanto a documenti digitalizzati, depositati dopo il luglio 2019, si rinvengano documenti depositati fra il 2014 e il 2019 in forma cartacea la cui copia per immagine è stata estratta ed attestata conforme dalla segreteria ai sensi dell’art. 12 D.M. n. 163/2013 e, addirittura documenti allegati ad un ricorso antecedente all’anno 2014 prodotti solo in forma cartacea, mai digitalizzati e privi di qualsivoglia attestazione di conformità (da chiunque rilasciata).

La collocazione della disposizione immediatamente a seguito della disposizione che disciplina l’unicità del fascicolo processuale per tutti i gradi di giudizio, e il conseguente esonero, per il difensore della parte, di ridepositare in appello tutti i documenti prodotti in primo grado, potrebbe spiegare allora la necessità di una copia informatica per immagine di quegli atti e documenti esistenti solo in formato cartaceo.

Se così fosse, il riferimento della disposizione dovrebbe però riguardare solo le produzioni ante 2014, ossia le uniche ad essere prive di certificazione di conformità.

Letta in questa prospettiva la previsione dell’attestazione di conformità da parte del difensore, assumerebbe una propria coerenza ed una portata molto definita: non si tratterebbe di attestare la conformità della copia per immagine a chissà quale documento cartaceo di incerta paternità e completezza fornito dal cliente, ma al contrario, si dovrebbe attestare la conformità della copia per immagine al documento cartaceo depositato presso la Cancelleria in una determinata e ben individuata fase processuale.

In tal modo verrebbe salvato il tenore letterale della novella, senza determinare implicite alterazioni al significato degli altri commi dell’art. 25-bis e, soprattutto, senza creare regimi speciali di attestazione di conformità, diversi e più gravosi di quelli disciplinati dal CAD.

La difficile esegesi della disposizione in commento appare figlia di una tecnica legislativa che, a dispetto dei buoni e condivisi propositi della delega, ha disatteso molte aspettative soprattutto in termini di chiarezza delle norme destinate a governare il nuovo processo tributario telematico.

A fronte di una dichiarata volontà di semplificazione, l’introduzione di disposizioni come quella del comma 5-bis dell’art. 25 sembrano suscitare più interrogativi di quelli che risolvono, aprendo la strada a pericolose derive su un tema delicato come quello delle produzioni documentali difensive.

In un contesto normativo processuale che in tutti gli ambiti (civile, penale e amministrativo) vede una progressiva semplificazione degli adempimenti, non sembra obiettivamente credibile che il legislatore processuale tributario vada in una direzione diametralmente opposta, creando obblighi in capo ai difensori che trascendono le concrete esigenze processuali e tradiscono gli obiettivi della riforma.

Al fine di fugare ogni dubbio, un intervento chiarificatore si presenta del tutto opportuno, se non necessario, ahimè già prima della pubblicazione del decreto attuativo…

7. Postilla (Alberto Marcheselli).

L’intervento che precede, secondo me, è estremamente pregevole: molto puntuale nella argomentazione e orientato in modo da perseguire un obiettivo del tutto ragionevole: limitare la portata di una disposizione suscettibile di una interpretazione assurda, i cui difetti e soprattutto conseguenze abnormi sono ben descritti.

Sul piano pratico la condivido, e la trovo argomentata e utile.

Quello che, però non si può sottacere, è che, a mio avviso, essa è sul piano logico altrettanto assurda – anzi, forse anche più assurda di quella che – giustamente – combatte.

La disposizione, in un quadro i cui non è dovuta la attestazione di conformità dei documenti versati nel processo telematico originariamente cartacei, prevederebbe l’onere del difensore di attestare la conformità dei documenti cartacei già depositati in cartaceo presso il giudice di grado precedente, nei c.d. processi ibridi.

Orbene, esaminando le obiezioni in crescendo di abnormità, innanzitutto si tratta di documenti che nelle more avrebbero dovuto essere progressivamente scannerizzati dalle segreterie. In secondo luogo, la norma imporrebbe al difensore di attestare la conformità di documenti che sono già in possesso del giudice (sia pure inferiore) e l’imposizione di un onere al difensore appare sproporzionata per diversi motivi. Innanzitutto, perché generalizzata, indipendentemente dalla contestazione della conformità (che invece dovrebbe essere il presupposto, evitandosi un aggravio inutile e assurdo quando la conformità è pacifica). Poi, perché impone tale onere al difensore (potendosi anche ipotizzare, molto più semplicemente, di verificare nel fascicolo). E, poi, perché viene da domandarsi come si dovrebbe procedere quando nella segreteria sia stato depositato l’originale. Il difensore dovrebbe andare a recuperare il fascicolo in segreteria per poi scannerizzarlo e depositarlo in telematico? Cioè uscire dalla finestra e poi rientrare dalla porta. Ancora, se è difficile o impossibile recuperarlo per la segreteria (visto che si ritiene di poterla onerare), come può proporzionatamente onerarsi il difensore?

Ma non basta: se non mi inganno, se si prevede la attestazione di conformità per le copie informatiche è perché non ci si fida, assumendo che sia più facile falsificare i documenti informatici che le fotocopie cartacee. Ma, allora, tutte le copie informatiche sarebbero sospette, mica solo quelle dei processi nati cartacei. Anzi, l’attestazione di conformità sarebbe più necessaria per i processi nativi digitali, visto che la carta non è mai stata consegnata al giudice. Non ti fidi di quello che vedi e ti fidi di quello che non vedi? Mi pare senza senso.

In sintesi, la condivisibile interpretazione di Alberto Michelis, che nel contingente è abilissima e utilissima, ricorda, se allarghiamo un po’ la inquadratura a considerazioni di sistema, la strategia della riduzione del danno nei confronti dei tossicodipendenti (somministriamo loro sostanze stupefacenti, ma controllate) o il sacrificio di Tommy Lee Jones in Space Cowboys (che, per evitare una catastrofe, si sacrifica andando a schiantarsi sulla Luna).

Un gesto nobile ma disperato, insomma, ma è sfortunato il Paese che ha bisogno di Eroi.

Non sarebbe ora di farla finita con norme scritte così male e di supplenze acrobatiche degli interpreti? La legge, se si scende questa china, rischia di diventare lo slang di un duello tra rappers, in cui l’importante è che si capisca il messaggio, espresso da parole oscure, pronunciate peggio, ma accompagnate da gesti triviali e inequivoci. Il diritto non è una cosa che basta che si capisca, più o meno, cosa vuole dire, lo deve dire. Altrimenti, peggiorerà sempre (e con essa la vita: chi parla male pensa male e vive male, figuriamoci se così parla lo Stato).

Per tacere del rischio che, scritta così, sia interpretata nel senso, pernicioso, di rendere inutilizzabili tutti i documenti (anche quelli dell’Agenzia delle Entrate!), tutte le volte che salti in mente di intenderla così-.

Qualcuno deve rimboccarsi le maniche, e stavolta mi sembra che sia il legislatore, non i medici ortopedici della giurisprudenza, o difensori crocerossine, o circolari à la carte.

Ne va della qualità del diritto, cioè della civiltà: senno poi cosa penserà di noi l’intelligenza artificiale?

[1] «5-bis. Gli atti e i documenti del fascicolo telematico non devono essere nuovamente depositati nelle fasi successive del giudizio o nei suoi ulteriori gradi. Il giudice non tiene conto degli atti e dei documenti su supporto cartaceo dei quali non è depositata nel fascicolo telematico la copia informatica, anche per immagine, munita di attestazione di conformità all’originale».

[2] Secondo alcuni, addirittura, ad una lettura letterale sembrava conferire tale potere al solo difensore e dipendente incaricato dagli Uffici, non anche al difensore del contribuente. In un’intervista pubblicata su Il Sole 24 Ore dell’11 dicembre 2018, l’allora direttore del Dipartimento della Giustizia Tributaria del MEF, Fiorenzo Sirianni, ha immediatamente cercato di chiarire la portata, affermando: «occorre sgombrare subito ogni dubbio sulla corretta lettura dell’art. 25-bis del D.Lgs. 546/1992, per cui il potere di attestazione di conformità di atti e documenti in possesso del difensore e di quelli estratti dal fascicolo processuale telematico […] è attribuito sia ai difensori di tutte le parti processuali, sia ai dipendenti degli Ufficio impositori e dei soggetti della riscossione».

Scarica il commento in formato pdf

Tag:, , , , , , ,