LA FARMACIA DEI SANI – SPECIAL EDITION RIFORMA FISCALE – La decisione semplificata nella riforma fiscale – parte seconda – Pasticci vecchi e nuovi in tema di processo telematico: la digitalizzazione e il cartaceo di ritorno
Di Alberto Marcheselli
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Abstract
L’intervento espone alcune riflessioni critiche sulla nuova decisione semplificata nel processo tributario e sulle innovazioni del processo telematico, con particolare riguardo ai nuovi oneri attestazione di conformità per i difensori.
Some critical notes on the tax reform about the so called “simplified decision” and the duty for lawyers to certify the conformity of digital acts to paper original documents.
Sommario: 1. Decisione semplificata e opposizione delle parti. – 2. La decisione semplificata è ammissibile solo nel procedimento cautelare? – 3. La decisione semplificata è ammissibile in sede di impugnazione e appello? – 4. L’impugnazione della sentenza semplificata. – 5. L’assurdità delle udienze cautelari obbligatoriamente in presenza. – 6. Contrordine compagni! La digitalizzazione del processo comporta la creazione di archivi cartacei prima non previsti?
1. Gli interrogativi pratici che tale nuova disciplina porta con sé sono ugualmente cospicui.
Il primo è se le parti possano in qualche modo opporsi a tale modalità decisoria. La norma prescrive che esse siano sentite e ciò fa ritenere che esse in tale contesto possano non solo cercare di portare il giudice a una decisione favorevole ma anche, subordinatamente, opporre che la decisione, magari sfavorevole, non è affatto semplice (che si ha magari torto, ma non evidentemente torto). Gli argomenti in proposito saranno valutati ma non paralizzano ovviamente la possibile decisione semplificata.
Né la paralizza, ma solo allontana, la possibilità di formulare motivi aggiunti o regolamento di giurisdizione. Si tratta di eventualità decisamente rare (a meno che per motivi aggiunti non si intenda la possibilità di portare nuovi argomenti, anche al di fuori dei ristretti confini dei motivi aggiunti del rito ordinario) e che comunque procrastinano solo la decisione nel merito.
2. Il secondo interrogativo pratico è se tale decisione semplificata sia possibile solo nel contesto del procedimento cautelare, e solo in primo grado.
Che la decisione semplificata sia possibile solo se è attivato il procedimento cautelare in effetti pare sostenibile, per il fatto che la relativa disposizione è collocata in una norma rubricata “definizione in esito alla domanda di sospensione” e che essa nei lavori preparatori originari invece costituiva una norma automoma (art. 34 bis d. Lgs. 546/1992): nella versione originaria essa era una forma di definizione generalizzata e lo spostamento aiuta a ritenere che essa sia diventata solo una forma di esito del giudizio cautelare.
Certo, che essa non sia applicabile fuori dal giudizio cautelare potrebbe parere non semplice da giustificare sistematicamente: se la decisione è evidente e semplice, perché non adottarla anche nel contesto della decisione ordinaria, quando tra l’altro, fisiologicamente, l’istruttoria dovrebbe essere completa e il contraddittorio perfetto e esclusa la possibilità di avanzare motivi aggiunti? Né pare convincente sul piano razionale ipotizzare che la giustificazione sia che la decisione semplificata serve a fare evitare l’udienza pubblica (visto che nel procedimento si decide in camera di consiglio)[1]: il più grosso vantaggio in effetti è nella riduzione al minimo della motivazione.
3. Altro interrogativo è se la decisione semplificata possa essere assunta in sede di impugnazione.
La disciplina la esclude in sede di reclamo. L’uso del vocabolo tecnico comporta la sua esclusione nella decisione sulla impugnazione del provvedimento cautelare del giudice monocratico, che è un reclamo, e nei reclami contro i provvedimenti presidenziali di cui all’art. 28. Anche qui, la regola non è sempre di evidente giustificazione. Più comprensibile per i reclami su sospensione, interruzione, ecc. (perché passare dalla ipotesi di sospensione del processo alla sua definizione appare un salto notevole), assai meno nel caso di reclamo cautelare. Dubbia la giustificazione anche nel caso di decreto di inammissibilità, ma probabilmente essa consiste nel fatto che, se si deve confermare la inammissibilità, la motivazione della sentenza è comunque semplice, mentre per decidere il merito normalmente la causa non sarebbe ancora matura.
La disciplina, escludendo il reclamo, non esclude espressamente la ipotesi della impugnazione in appello del provvedimento cautelare, che non avviene tecnicamente su un reclamo. Ciò parrebbe consentire in teoria la definizione semplificata direttamente in appello. Tale conclusione pare fortemente controindicata perché la semplificazione in tale ipotesi avrebbe una portata elevata al quadrato (la perdita di un grado di giudizio: invece che due gradi di merito con sentenza piena se ne avrebbe uno solo con sentenza semplificata, dopo un primo solo cautelare).
Invero, non è poi neppure chiaro se la decisione semplificata sia, tout court adottabile in appello. Nel caso di istanza cautelare in appello o, se si ritenesse praticabile la decisione semplificata anche fuori dal cautelare, direttamente nel giudizio di merito di appello.
In senso favorevole sembrano condurre sia il fatto che la norma dell’art. 47 ter, che prevede la decisione semplificata, segue il 47, che contempla anche la Corte di Giustizia di secondo grado e, soprattutto, il fatto che l’art. 61 prevede la applicazione in appello delle norme sul primo grado, esclusa la ipotesi di incompatibilità. Tale incompatibilità non sembra esservi. L’unica via per escludere la decisione semplificata in appello appare ritenere che, poiché essa non sarebbe prevista dall’art. 52, che è la norma sulla sospensiva in appello, essa non è consentita.[2]
4. Una sentenza semplificata è impugnabile con in mezzi ordinari.
Il problema è se e come ci si possa dolere della scelta del rito semplificato.
Un ulteriore punto da approfondire, infatti, è quali iniziative processuali possa assumere la parte soccombente in una motivazione semplificata. Non vi è ovviamente uno strumento speciale di impugnazione: l’interrogativo è se ci si possa dolere non solo della soccombenza ma anche della utilizzazione della procedura semplificata.
Può essere, in effetti, che essa sia adottata non rispettando le regole di procedimento sopra viste (esempio, l’istruttoria non era conclusa, il contraddittorio non era integro, le parti costituite non sono state sentite, non è stato rinviato il procedimento per consentire motivi aggiunti o regolamento di giurisdizione, non erano decorsi i 20 giorni dalla notifica del ricorso).
In questi casi, in effetti, pare sussistere una violazione processuale idonea a determinare una nullità della sentenza e pare sostenibile che si tratti di una questione che, assorbita in appello (salvo il difetto del contraddittorio, che dovrebbe far tornare il processo in primo grado, soluzione che una interpretazione ragionevole dell’art. 59 potrebbe applicare anche all’ipotesi in cui le parti non siano state sentite sul punto), potrebbe certamente essere censurata in cassazione con un motivo ex art. 360 n. 4 c.p.c. (se si ammette la decisione semplificata in appello, si veda sopra).
Più sottile il caso in cui si contesti, non che siano state violate regole sul rito, ma che la decisione è stata motivata in modo semplificato quando la questione non era semplice (cioè la domanda non era manifestamente fondata, infondata, ecc.).
Certamente sussiste la violazione di una regola e la lesione di un interesse, ma può non risultare immediato quale sia il rimedio. Non tanto rispetto a una decisione in primo grado, quanto per la sentenza di appello (se si ammette la decisione semplificata in appello).
In vista del ricorso per cassazione si può certamente pensare di denunciare la violazione della regola processuale, ma attraverso quale via? L’effetto della violazione è una motivazione più concisa di quella ordinaria, che non avrebbe potuto adottarsi in quel processo e rispetto a quella questione. Non si tratta, tuttavia, di una motivazione inesistente, omessa o apparente, ma della falsa applicazione di una regola processuale sullo standard semplificato della motivazione, ipotesi piuttosto nuova. La regola sulla motivazione semplificata viene applicata a un caso da esso non contemplato.
Delle due l’una allora: o tale vizio è deducibile per la via del motivo ex art. 360 n. 4 c.p.c.,[3] costituendo motivo di nullità della sentenza, o la parte soccombente non avrebbe facilmente rimedio, aprendosi un vulnus cospicuo sul controllo di legalità delle sentenze. Non potrebbe invece essere un rimedio efficiente la deduzione di un omesso esame di un fatto decisivo, nel quadro di un articolo 360, n.5, quantomeno non tutte le volte che i fatti siano stati valutati, ma ritenuti erroneamente semplici.[4]
5. Ulteriori interventi della riforma riguardano le forme telematiche del processo.
Esse sembrano tradire un approccio un po’ frettoloso e scontano una formulazione, ripetutamente, alquando discutibile.
Una novità di difficile comprensione, è la apparente esclusione della forma da remoto per l’udienza cautelare.
Poiché la previsione espressa della udienza da remoto nel d. lgs. 546/1992 comporta la abrogazione del comma 4 dell’articolo 16 del decreto-legge 23 ottobre 2018, 119, si crea il problema della possibilità della partecipazione da remoto alle udienze cautelari. In effetti, tale possibilità non è prevista né nella disciplina del rito cautelare (art. 47) né in quella della udienza da remoto (art. 34 bis), che prevede solo le udienze di merito di cui agli articoli 33 e 34. Che tali ultime norme regolino anche l’udienza cautelare pare non facilmente sostenibile: quella cautelare non è né una udienza pubblica (art. 34) né una camera di consiglio di cui all’art. 33, perché sono presenti le parti. Unica strada, da verificare, è nella applicazione analogica della disciplina, anche perché l’esclusione della trattazione da remoto della fase cautelare, quando lo si è ammette per il merito, appare del tutto assurda.[5]
6. Una ulteriore disciplina, prendendo atto del fatto che i giudici accedono al fascicolo telematico, che contiene anche gli atti dei gradi precedenti (articolo 25-bis, comma 5-bis) stabilisce che gli atti e i documenti del fascicolo telematico non devono essere nuovamente depositati nelle fasi successive del giudizio o nei suoi ulteriori gradi.
Viene, altresì, previsto che, per i documenti in forma cartacea, il giudice non tenga conto se non è depositata nel fascicolo telematico la copia informatica, anche per immagine, munita di attestazione di conformità all’originale.
Innanzitutto, si deve stigmatizzare l’utilizzo della espressione, piuttosto colloquiale e poco tecnica, “tiene conto”.
In secondo luogo, la disposizione esclude l’onere di ridepositare atti già nel fascicolo, per ogni grado di giudizio. Sorge il dubbio se tale disposizione comporti il superamento della previsione di cui all’art. 369, n. 2 c.p.c. per il processo in cassazione, che impone il deposito di copia autentica della sentenza impugnata. Sul piano sistematico, visto che anche la Corte di Cassazione accede ora al fascicolo di merito, tale onere appare anacronistico, e d’altro canto, quello in cassazione è comunque un grado di giudizio. Per contro, la norma del 369 c.p.c. è specifica e l’art. 25 bis si trova in una disciplina relativa al processo tributario (mentre per costante giurisprudenza il rito in cassazione è quello civile, anche in materia tributaria). Ne consegue che il deposito parrebbe a senso non più necessario, ma cautelativamente opportuno, per evitare gli effetti di improvvide interpretazioni formalistiche.
In terzo luogo, colpisce l’onere di attestare la conformità della copia informatica al documento cartaceo, estesa a tutti i documenti da depositare. Innanzitutto, ciò comporta che il difensore che intenda procedere alla dichiarazione di conformità acquisisca sempre il cartaceo, in originale o copia autentica cartacea, non ancora depositato nel fascicolo telematico, in modo tale da poterne autenticare la conformità. Ciò comporta anche verosimilmente che, non foss’altro che per ragioni di prudenza, il cartaceo originale o copia autentica debba pure conservarsi. Si tratta di una complicazione non da poco e di una inversione a U rispetto alla propagandata digitalizzazione. Il difensore non può accontentarsi di ricevere direttamente copie informatiche (se non già attestate conformi) e neppure fotocopie dei documenti, non dichiarate conformi.
Sul piano pratico non è poi chiaro se tale attestazione debba essere apposta su ogni copia o non possa essere fatta in modo unitario con riferimento a tutte le copie informatiche depositate (ovviamente indicandole in modo specifico e non generico). La seconda soluzione, meno formalistica, appare preferibile. Anche di questa disposizione è dubbia, per le ragioni espresse appena sopra, la applicazione ai documenti da eventualmente depositare in cassazione (es. la documentazione di pagamenti e definizioni agevolate intervenute nel frattempo), atteso che è dettata per il processo tributario (che di norma si intende quello di merito).
[1] O la discussione tra le parti, se si assumesse la tesi che la decisione semplificata avviene in camera di consiglio ex art. 33.
[2] Argomento non decisivo, atteso che la sospensiva in appello è comunque disciplinata anche dall’art. 47, che concerne il primo grado.
[3] Con la necessaria allegazione delle ragioni di fatto per cui la motivazione semplificata non era adeguata. Ciò comporta la deduzione di profili di fatto davanti alla Suprema Corte, ma non perché essa li apprezzi per decidere il merito, ma per verificare se il giudice di appello abbia correttamente applicato le norme sulla motivazione semplificata. Fenomeno non nuovo: si verifica già, quantomeno, nei motivi di omesso esame di fatto decisivo.
[4] Ciò per tacere della ipotesi della doppia conforme con motivazione semplificata: in cui tale motivo non sarebbe neppure astrattamente ipotizzabile.
[5] Non sembra invece sostenibile una ulteriore possibile linea argomentativa, cioè che la camera di consiglio di cui all’art. 47 sia una camera di consiglio di cui all’art. 33 (e quindi soggetta al possibile regime da remoto), assumendo che l’esclusione delle “parti” in questa ultima norma concerna solo le parti sostanziali e non i difensori. Ciò perché, a quanto risulta, mai è stata consentita la partecipazione del difensore all’udienza delle camere di consiglio art. 33. Né è una conferma di tale ipotesi il fatto che nella disciplina della udienza a distanza si preveda l’istanza… essa vale ovviamente per la discussione delle udienze dove c’è discussione (e cioè quelle pubbliche). Ciò per tacere che, se “parti” significasse il cliente e non il difensore, la pubblica udienza non potrebbe richiederla il difensore, nella camera di consiglio cautelare dovrebbero comparire i clienti, e via enumerando un crescendo di conseguenze paradossali.
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