IL PUNTASPILLI: segnalazioni dalla redazione

Di Gianluca Stancati -

Qualificazione reddituale ope legis dei carried interest: un caso di insuccesso (*)

A margine della abrogazione della disciplina di favore rivolta ai piani di azionariato “ristretti” (art. 51, comma 2 lett. g-bis), TUIR) da più parti era stata evidenziata l’esigenza di chiarire non solo la differenziazione tra diversi componenti all’interno della medesima categoria reddituale (il finanziamento; la sottoscrizione dello strumento partecipativo), ma soprattutto il discrimen tra la posizione di lavoratore e lo status di co-investitore. Ciò avendo riguardo alla prassi invalsa in determinati contesti di strutturare i piani incentivanti con la previsione di diritti patrimoniali rafforzati (“extra-rendimenti”), oltre che attraverso una regolamentazione piuttosto articolata anche rispetto agli obblighi ed ai diritti connessi alla cessazione del rapporto (leavership).

L’esperienza legislativa di una norma definita comunemente come “presunzione relativa” (art. 60 D.L. n. 50/2017, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 96/ 2017) – a ben vedere riconducibile più correttamente ad una fattispecie qualificatoria convivente con i presupposti e concetti generali dei redditi “di lavoro e di quelli finanziari” – mostra i segni tipici dell’inefficacia “dell’interventismo specialistico”.

La vastità delle interpretazioni dell’Amministrazione Finanziaria (ad oggi, oltre 40) ci presenta un bilancio decisamente problematico, sia rispetto alla esegesi della disposizione, che in ordine alle casistiche prive, in tutto o in parte, dei requisiti dalla stessa delineate. 

Sotto il primo profilo, pur nel riscontrare le esigenze di un contesto di riferimento (Private Equity), le condizioni ex lege (misura minima dell’investimento, presupposti di maturazione del rendimento, vincolo quinquennale di incedibilità), risultano declinate con un livello di dettaglio potenzialmente discriminatorio. Si pensi ai casi di co-investimenti di poco inferiori alla soglia prevista (ad esempio, 0,9% in luogo dell’1%), ovvero con limite di ri-cessione ancorato ad un termine leggermente ridotto (4 anni invece di 5) o superabile in virtù del trasferimento complessivo di partecipazioni di collegamento e non anche di controllo (come previsto dalla lett. c) del citato art. 60). In tali evenienze, non operando la presunzione ope legis, si rende necessaria una disamina generale del piano. 

Proprio a tale riguardo, l’Agenzia delle Entrate ha offerto una serie di elementi che sembrano quanto meno inconferenti. L’esistenza di un adeguato livello retributivo “in denaro” non è idonea a valutare l’effettività del rischio sotteso alla partecipazione. Al più potrebbe rappresentare un parametro cui ancorare eventuali future previsioni agevolative. Lo stesso può dirsi per il “volume” dell’investimento, in quanto il manager potrebbe essere protetto in ordine alla sottoscrizione di un numero esiguo di strumenti partecipativi, mentre un reale profilo aleatorio potrebbe sussistere rispetto a valori estremamente rilevanti di cointeressenze. 

La disciplina della cessazione del rapporto (leavership) non appare sintomatica della riferibilità dei carried interest al rapporto di lavoro, prova ne sia che la stessa che non risulta oggetto di nessuno degli elementi contemplati dall’art. 60 D.L. n. 50/2017 medesimo. 

Ed ancora, i più recenti riferimenti all’utilizzo di risorse finanziate (Risposte ad interpello nn. 252-254-256/2025) come presunto sintomo dell’assenza di un effettivo investimento non colgono nel segno. Ciò in quanto il debito afferente il mutuo, quand’anche compensabile con i crediti per i dividendi maturati, è al più valutabile quale eventuale ulteriore benefit relativamente alla misura degli interessi dedotti in contratto (v. circ. n. 25/E/2017), ma evidentemente non può smentire l’effettiva titolarità in capo al lavoratore del titolo partecipativo.

Né la questione può in generale essere apprezzata come “deroga al principio di omnicomprensività” ex art. 51 TUIR (Risposte ad interpello nn. 95-252-256/2025), poiché l’art. 60 D.L. n. 50/2017 non è certamente una disposizione di carattere eccezionale e/o agevolativo. Peraltro, nello spirito dell’ultima riforma fiscale si è inteso deflazionare il ricorso all’interpello, per privilegiare le interpretazioni generali (atto di indirizzo, circolare) o quasi (consulenza giuridica). Coerentemente dovrebbe quindi valutarsi, più che la completa rivisitazione della norma per emendarne tecnicismi/particolarismi, una sua abrogazione a beneficio di un intervento di prassi condiviso con le espressioni dell’imprenditoria e delle professioni, focalizzato sull’unico fattore che consente di distinguere la dimensione del lavoratore da quella dell’investitore/del titolare di redditi finanziari: la condivisione del rischio.

(*) La rubrica ospita gli spunti di riflessione emersi nelle riunioni del Comitato di redazione, che non confluiranno nel fascicolo della Rivista telematica di diritto tributario né nella rivista digitale.

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