Contrasto alla pianificazione fiscale aggressiva: il punto sul Progetto BEPS a oltre 10 anni dall’Action Plan
Di Maria Campagnoli
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Abstract (*)
L’impegno dei leader del G20 a risolvere le questioni aperte sul sistema dell’imposta minima globale, rinnovato nel corso dell’incontro di Washington, D.C. del 15-16 ottobre 2025, riaccende il dibattito sullo status e sulle possibili evoluzioni delle iniziative OCSE/G20 volte al contrasto alla pianificazione fiscale aggressiva, a seguito del fallimento dell’approccio a due pilastri del Progetto BEPS e dell’accordo sul sistema side-by-side della global minimum tax.
Countering aggressive tax planning: an update on the status of the BEPS Project over a decade since the adoption of the Action Plan – The commitment of G20 leaders to resolve outstanding issues in the global minimum tax framework, confirmed during the Washington, D.C. meeting on 15–16 October 2025, re-opens the debate on the status and potential developments of OECD/G20 initiatives aimed at countering aggressive tax planning, following the failure of the two-pillar approach under the BEPS Project and the agreement on the side-by-side system of the global minimum tax.
Sommario: 1. La pianificazione fiscale aggressiva nell’era BEPS e i limiti delle reazioni unilaterali di contrasto al fenomeno. – 2. Il progetto di una governance condivisa, l’ambizione del Progetto BEPS e la fase fondata sui due pilastri. – 3. L’evoluzione del Progetto BEPS 2.0: le tensioni negoziali e la polarizzazione USA-UE. – 4. La politica fiscale statunitense e i connessi impatti sullo scenario internazionale. – 5. Recenti sviluppi politici. – 6. Conseguenze sistemiche delle scelte politiche e considerazioni conclusive.
1. L’impegno del G20, rinnovato nell’incontro di Washington, D.C. del 15-16 ottobre scorso, a superare le criticità ancora aperte sul sistema della global minimum tax offre lo spunto per tracciare l’andamento ed esaminare lo status delle iniziative BEPS tredici anni dopo il mandato politico attribuito all’OCSE per la risoluzione delle problematiche connesse ai fenomeni di pianificazione fiscale aggressiva (G20 Leaders, Los Cabos Declaration, giugno 2012).
Scopo del contributo è ripercorrere gli eventi connessi allo sviluppo di un progetto di governance globale nel periodo temporale delineato, considerando uno dei fattori cruciali per la riuscita del progetto: il complesso equilibrio tra sovranità impositiva nazionale e necessità di un coordinamento globale, volto preservare l’equità e la competitività del sistema tributario internazionale.
Dall’analisi emerge che la prioritaria tutela degli interessi nazionali, fonte di contrapposizione tra giurisdizioni di residenza delle grandi multinazionali (gli Stati Uniti) e giurisdizioni di mercato (tra le altre, l’Unione Europea), condiziona e ridisegna il perimetro delle iniziative sovranazionali, con esiti differenti dagli obiettivi iniziali. La polarizzazione tra Stati Uniti ed Europa, acuita dall’approccio side-by-side alla global minimum tax, ha contribuito alla creazione di uno scenario internazionale ancora più complesso e frammentato. Le stesse forze che hanno favorito la nascita del Progetto BEPS, ne hanno condizionato lo sviluppo sino a determinarne la crisi.
Oggi, l’Unione Europea è chiamata a trasformare il fallimento di un piano globale e l’attuazione isolata del secondo pilastro in un’opportunità di rilancio del proprio sistema sovranazionale, utilizzando gli spunti offerti dal Progetto BEPS per delineare una nuova politica fiscale comune e competitiva, in un sistema globale segnato da profonde asimmetrie.
D’altronde, l’asimmetria è una caratteristica dello stesso sistema europeo, come dimostrato sin dai primi articoli delle principali testate a tiratura internazionale che denunciano le strategie di pianificazione fiscale aggressiva attuate dalle multinazionali dell’era digitale. Il New York Times descrive accuratamente la nota strategia del Double Irish with a Dutch Sandwich (Duhigg C. – Kocieniewski D., How Apple sidesteps Billions in Taxes, in New York Times, 28 aprile 2012), fondata sulla combinazione dell’applicazione ai prezzi di trasferimento del TNMM, con allocazione dei profitti ai detentori degli intangibles localizzati in regimi a fiscalità privilegiata, e sullo sfruttamento dello scarso coordinamento europeo sulla tassazione delle royalty in uscita.Il territorio privilegiato per l’attuazione di alcuni passaggi chiave è quello europeo.
Google attua il Double Irish in maniera tradizionale, collocando una propria struttura in un vero e proprio paradiso fiscale; Apple, invece, beneficia di un ruling concluso sin dagli anni Novanta con le Autorità fiscali irlandesi, fondato sull’allocazione di profitti a società considerate apolidi. Il terreno europeo si presenta come fertile per le multinazionali non solo a causa dello scarso disallineamento tra normative interne, ma anche per i benefici concessi ad personam dalle Amministrazioni fiscali nazionali.
In questo scenario, gli studiosi e le Autorità nazionali si muovono in una duplice direzione: lo sforzo di definire i tratti caratteristici della pianificazione fiscale aggressiva e la ricerca di soluzioni di contrasto. In realtà, le due iniziative sono connesse: il tentativo di definizione del fenomeno, anche ai fini di valutare se inquadrabile in una categoria giuridica esistente, è correlato alla verifica della preesistenza, negli ordinamenti nazionali, di norme di contrasto applicabili estensivamente al caso specifico.
Negli anni successivi, in concomitanza allo sviluppo del Progetto BEPS, si registrano le prime reazioni di risposta al fenomeno della pianificazione fiscale aggressiva.
La Commissione europea interviene sui ruling fiscali conclusi tra Amministrazioni finanziarie europee e multinazionali, qualificando la prassi come aiuto di Stato incompatibile con il Mercato europeo.
La decisione della Commissione sul caso Apple, dapprima oggetto di impugnazione dinnanzi al Tribunale dell’Unione Europea, recentemente confermata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (cfr., da ultimo, Corte di Giustizia UE, 10 settembre 2024, causa C-465/20) è stata confermata solo oltre trent’anni dopo la conclusione del primo ruling fiscale (del 1991).
La risposta europea di contrasto al fenomeno è stata quindi isolata, tardiva e non sistematica.
2. Le caratteristiche della sovranità tributaria e della potestà impositiva nazionale evidenziano il limite delle politiche unilaterali degli Stati, le quali sono insoddisfacenti perché non tengono conto degli assestamenti che ne derivano a livello internazionale e delle nuove asimmetrie fra ordinamenti: la globalizzazione aumenta l’interdipendenza dei sistemi poiché di fronte ad un disallineamento, il processo di convergenza non fa altro che sottolinearlo e renderlo fruibile. Gli stessi accordi bilaterali possono essere strumentalizzati, nell’ambito di schemi di pianificazione fiscale coinvolgenti più di due giurisdizioni, per generare effetti indesiderati di doppia non imposizione.
Sussiste una contrapposizione tra il ruolo degli Stati nazionali, unici detentori della sovranità tributaria nel proprio ordinamento, e la necessità di un coordinamento internazionale in materia tributaria (Carpentieri L., La deriva dei territori e le nuove vie per il coordinamento della tassazione societaria, in Riv. trim. dir. trib., 2022, 1, 7 ss.), per contrastare fenomeni su cui gli Stati non hanno visione omnicomprensiva né efficaci strumenti di repressione.
Solo la promozione di standard comuni di convergenza verso un sistema globale percepito come equo, attraverso l’attività svolta dalle organizzazioni internazionali e la successiva collaborazione degli Stati per attuare tali standard nei propri ordinamenti, tramite strumenti cogenti, possono garantire la sopravvivenza del sistema tributario internazionale (Pistone P., La pianificazione fiscale aggressiva e le categorie concettuali del diritto tributario globale, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 2, 395 ss.).
Il mandato politico del G20 all’OCSE e gli interventi di soft law della BEPS era sono stati considerati, negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione dell’Action Plan, un primo passo verso questa necessaria convergenza. Per questo motivo, è stata accolta con favore, quantomeno sulla carta, la seconda fase del Progetto BEPS, che delinea un approccio a due pilastri per affrontare le sfidederivanti dalla tassazione dell’economia digitale (OECD, Statement by the OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS on the Two-Pillar Approach to Address the Tax Challenges Arising from the Digitalization of the Economy, 2020).
La prima proposta (Pillar One), la più rivoluzionaria, ha il merito di riconoscere apertamente l’inidoneità dei criteri di collegamento esistenti (la stabile organizzazione legata al territorio del singolo Stato) a intercettare i redditi delle multinazionali digitali, prospettando, in termini del tutto innovativi, la tassazione e la conseguente ripartizione dell’imponibile mondiale dell’impresa. La proposta consiste in un meccanismo multilaterale di attribuzione della potestà impositiva alle c.d. market jurisdiction, le quali potrebbero tassare la porzione residuale degli utili delle imprese multinazionali, anche in mancanza di una presenza fisica di tali imprese nel proprio territorio.
Il secondo pilastro (Pillar Two) ha invece il pregevole obiettivo di ridurre l’incentivo per le imprese multinazionali a operare in giurisdizioni a bassa fiscalità, ponendo un limite alla concorrenza fiscale tra Stati: lo scopo dovrebbe essere raggiunto tramite l’introduzione di un’imposta minima globale del 15%, il cui adeguamento non è imposto tramite innalzamento dell’aliquota, ma tramite assegnazione del diritto di prelevare la quota di imposta mancante ad altri Stati.
In linea teorica, entrambe le soluzioni avrebbero evidenti conseguenze sulle strategie di pianificazione fiscale aggressiva, oltre a notevoli ricadute in termini di gettito recuperato (OECD, Taxation Working Papers No. 66, 2023, e OECD, Taxation Working Paper No. 68, 2024). L’adozione generalizzata del secondo pilastro dovrebbe impedire alle multinazionali di avvantaggiarsi dell’allocazione dei profitti nei regimi privilegiati (o nei Paesi europei che adottano politiche di vantaggio), perché l’eventuale differenza tra tassazione subita in loco e aliquota minima dovrebbe essere versata nel Paese di residenza della società; in tal modo, la scelta di localizzazione delle proprie controllate (rectius, dei propri profitti) risentirebbe meno della variabile fiscale. In questa prospettiva, anche se i Paesi ove sono localizzate le controllate decidessero di non tassare in modo significativo l’impresa multinazionale, il Paese della capogruppo rivendicherebbe comunque il diritto di tassare quegli stessi profitti con un’aliquota minima. La globalminimum tax avrebbe quindi il vantaggio indiretto di bloccare la competizione alla più bassa offerta fiscale e garantirebbe il gettito derivante dai profitti delle multinazionali, senza incidere sulla concorrenza.
3. In contemporanea alle nuove proposte OCSE, visto anche lo stallo delle iniziative europee (su cui si veda infra), gli Stati promuovono interventi unilaterali, introducendo imposte sui servizi digitali, come accaduto anche nell’esperienza italiana (Perrone A., Il percorso [incerto] della c.d. web tax italiana tra modelli internazionali ed eurounitari di tassazione della digital economy, in Riv. tel. dir. trib., 2019, 2, 571 ss.).
Tali interventi si inseriscono in un contesto di tensione negoziale sull’approccio a due pilastri, caratterizzata da contrapposizione tra gli interessi degli Stati in cui hanno sede legale le grandi multinazionali (tipicamente, gli Stati Uniti) e quelli delle giurisdizioni di sbocco (tra cui l’Unione Europea). I primi vorrebbero scongiurare l’estensione della potestà impositiva potenzialmente garantita alle seconde dalle misure del Pillar Two e favorire il rimpatrio degli utili su cui esercitare i propri diritti impositivi; le seconde vorrebbero fare fronte alle perdite di gettito derivanti dall’incapacità degli ordinari criteri di collegamento di intercettare i redditi delle multinazionali non residenti. In caso di fallimento dell’approccio multilaterale previsto dal Pillar One, le imposte sui servizi digitali rimangono la prima alternativa applicabile dalle giurisdizioni di mercato.
A cavallo tra il 2021 e il 2023 si assiste ad un tentativo di convergenza degli ordinamenti interni verso soluzioni similari a quelle promosse dall’OCSE.
In questo contesto, in sede di conclusione dell’accordo tra i Paesi dell’Inclusive Framework sul pacchetto di riforme del quadro fiscale internazionale fondato sui due pilastri, in una dichiarazione congiunta del 21 ottobre 2021, Austria, Francia, Italia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti annunciano i termini di un compromesso politico sulla transizione dalle imposte sui servizi digitali esistenti alla soluzione multilaterale del primo pilastro.
Di fatto, però, mentre le trattative sul Pillar One subiscono una fase di stallo – si tratta, infatti, di un meccanismo multilaterale complesso, con riferimento al quale manca un accordo tra gli Stati aderenti su profili sostanziali e operativi, tra cui il meccanismo di calcolo e la percentuale di allocazione dei profitti tra i singoli ordinamenti – oltre 140 Stati recepiscono e implementano il secondo pilastro nella propria legislazione nazionale.
L’Unione Europea compie un notevole sforzo di coordinamento, approvando la Direttiva 2022/2523/UE sulla global minimum tax (il cui testo è sostanzialmente allineato a quello delle GloBE del Pillar Two, seppur con alcune differenziazioni dovute ai principi della normativa europea), recepita anche nell’ordinamento tributario italiano e in numerosi Stati membri e negli ordinamenti confinanti. Per citarne alcuni, l’Irlanda, che ha giocato un ruolo fondamentale nei noti schemi di pianificazione fiscale aggressiva oggetto di sindacato da parte della Commissione Europea, i Paesi Bassi, co-attori nel famigerato schema Double Irish, e il Regno Unito.
L’impegno dell’Unione Europea nell’attuazione del secondo pilastro è dimostrato anche dalla recentissima adozione della Direttiva 2025/872/UE (Di Tanno T., La Global Minimum Tax va avanti nella UE con la DAC 9, in il fisco, 2025, 29, 2620 ss.).
4. L’evoluzione della posizione degli Stati Uniti nei confronti dell’approccio a due pilastri è direttamente connessa alle politiche fiscali interne statunitensi, da sempre volte a preservare e tutelare la posizione delle proprie multinazionali. La segregazione dei profitti nei regimi a bassa fiscalità è stata raggiunta, in parte, anche grazie all’utilizzo di disposizioni storicamente vigenti nella legislazione statunitense (il depotenziamento della normativa CFC grazie all’opzione check-the-box, in vigore sin dal 1997).
Il 1° gennaio 2018 entra in vigore il Tax Cuts and Jobs Act (TCJA), riforma fiscale che segna la transazione da un sistema di imposizione del reddito mondiale a uno “ibrido”, fondato su un criterio di tassazione territoriale, parzialmente mitigato da disposizioni antielusive, volte ad attrarre a tassazione basi imponibili delocalizzate o a favorire il rimpatrio degli intangible presso società residenti negli USA. Tra queste, la tassazione del Global Intangible Low Tax Income (GILTI), disposizione che si affianca alla tradizionale disciplina CFC, prevedendo l’imputazione per trasparenza di un’ulteriore categoria di reddito, l’extraprofitto ritenuto espressivo del contributo recato all’attività della società estera dagli intangible di proprietà del socio USA e, quindi, di pertinenza di quest’ultimo (Gautrin C.P., US Tax Cuts and Jobs Act: Part 1 – Global Intangible Low-Taxed Income [GILTI], in Bullentin for International Taxation, 2019, vol. 73, n. 1, 36 ss.).
All’apparenza, la norma è volta a risolvere alla radice l’incertezza sulla corretta allocazione del GILTI, attribuendo il reddito in questione, calcolato come l’intero extraprofitto che eccede la remunerazione di attività routinarie svolte dalle altre società del gruppo, direttamente alla capogruppo statunitense. Nella sostanza, tuttavia, si tratta di una misura che trascende il principio di tassazione worldwide risolvendo unilateralmente e in spregio ai principi OCSE l’annosa questione della ripartizione della potestà impositiva sulla ricchezza generata dagli intangible; ciò, ovviamente, a svantaggio delle giurisdizioni di sbocco, tra cui quelle europee, le quali, sulla base delle disposizioni nazionali USA, dovrebbero essere destinatarie unicamente della (minima parte del) reddito generato da attività routinarie nei propri Paesi.
In ambito europeo, infatti, le proposte pubblicate immediatamente dopo (e in risposta a) l’introduzione del GILTI, ancorché successivamente accantonate (si veda, in particolare, Proposta di Direttiva del Consiglio COM (2018) 148 final, relativa a un sistema comune d’imposta sui servizi digitali), si collocano su un polo diametralmente opposto, affrontando la questione della ripartizione dei diritti impositivi in considerazione dell’apporto creato da fattori esterni alla catena del valore: centrale è, infatti, il ruolo degli utenti del web (gli “utilizzatori”). In quest’ottica, non è la proprietà degli intangibili (o meglio, il canone degli attivi materiali utilizzati) a determinare il criterio di ripartizione del reddito tra le entità del gruppo multinazionale. È, invece, il contributo delle consociate in ragione delle effettive funzioni di valorizzazione progressiva della proprietà intellettuale a fungere da criterio di allocazione del reddito tra le diverse giurisdizioni coinvolte (Assonime, circolare n. 19/2018, in cui sono descritte le opposte linee di intervento di USA ed Europa sulla tassazione dell’economia digitale e la contrapposizione tra la centralità attribuita al metodo TNMM nell’ambito della riforma statunitense, rispetto al Profit Split Method che ha ispirato le iniziative della Commissione europea).
A seguito dell’elezione di Biden e del successivo insediamento nel gennaio 2021, gli Stati Uniti annunciano un cambio di rotta nella propria politica fiscale (Succio R., Note minime di sintesi su alcuni aspetti tributari dell’American Jobs Plan, in Riv. tel. dir. trib., 2021, 2, 1114 ss.) e nei mesi successivi, anche grazie all’appoggio degli Stati Uniti, il G20 presta il proprio consenso all’introduzione della global minimum tax. Il nuovo corso della politica internazionale statunitense è determinato anche dalla tutela di interessi politici nazionali, come dimostrato dalla circostanza che l’approvazione, da parte del G20, della misura di matrice OCSE è subordinata a due condizioni: la prima consiste nell’abolizione delle web tax nazionali sulle imprese non residenti e la seconda, determinante nelle successive evoluzioni politico-fiscali internazionali, postula il coordinamento tra la global minimum tax e il GILTI. L’appoggio statunitense è garantito solo a patto che le soluzioni proposte a livello internazionale non trascurino gli interessi nazionali e comportino il minor sforzo di adattamento possibile al nuovo assetto proposto dall’OCSE. Per queste ragioni, il governo statunitense presta particolare sostegno al progetto del secondo pilastro, misura ritenuta “sufficiente” a contrastare le pratiche di pianificazione fiscale aggressiva poste in essere dalle multinazionali.
In questo contesto si collocano le trattative del governo USA per la neutralizzazione del Pillar One, soluzione che, per le ragioni già descritte, favorirebbe le giurisdizioni di sbocco. Ad ottobre 2021 gli Stati Uniti riescono nell’intento, ottenendo un rimodellamento dell’ambito soggettivo del Pillar One, ora destinato a tutti i gruppi multinazionali con oltre 20 miliardi di euro di ricavi globali (OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS, Statement on a Two-Pillar Solution to Address the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy, ottobre 2021); ciò con l’effetto di ridurre la portata applicativa della misura.
La modifica dell’ambito di applicazione del primo pilastro, indice dell’opposizione sostanziale degli Stati Uniti, accompagnata dalle difficoltà di implementazione della misura, affidata ad una Convenzione multilaterale, causa la situazione di stallo descritta nel precedente paragrafo. La mancata sottoscrizione della Convenzione da parte degli USA genera incertezza anche sugli Stati che, ancorché pronti ad aderire alla Convenzione multilaterale, vorrebbero non essere vincolati a una misura non operativa ed essere invece liberi di reintrodurre le proprie web tax domestiche in caso di fallimento del progetto sul Pillar One (Baker P., The Need for Plan B, in Intertax, 2023, vol. 51, n. 8-9, 542 ss. e Starkov V., Letter to the Editor: The Need for Plan B: Comments, in Intertax, 2024, vol. 52, n. 10, 588 ss.).
I due pilastri, originariamente concepiti come misure collegate tecnicamente, oltre che diplomaticamente, iniziano a viaggiare a velocità diverse: il primo si interrompe; il secondo, complice l’endorsement della superpotenza USA, viaggia rapidamente fino al recepimento e alla completa operatività in molte giurisdizioni di sbocco.
5. La rielezione di Trump ha un impatto significativo sul consenso politico statunitense alle iniziative di matrice OCSE. A fine gennaio 2025, il governo Trump emette e notifica all’OCSE un ordine esecutivo che libera gli Stati Uniti da qualsiasi impegno assunto dall’Amministrazione Biden in relazione all’attuazione degli obiettivi dell’approccio a due pilastri. Secondo il Global Tax Deal Memorandum l’accordo sui due pilastri comporterebbe l’applicazione di diritti impositivi extraterritoriali sui profitti delle multinazionali statunitensi, limitando la facoltà degli Stati Uniti di adottare politiche fiscali nell’interesse delle (proprie) imprese (The White House, The Organization for Economic Cooperation and Development, OECD, Global Tax Deal [Global Tax Deal], 20 gennaio 2025).
A febbraio, il governo emana un nuovo memorandum sulla difesa delle società americane e, nello specifico le Big Tech; nell’ambito di questo documento, si sottolinea la “necessità di un ambiente non discriminatorio in termini di tassazione dei servizi digitali” (The White House, Defending American Companies and Innovators from Overseas Extortion and Unfair Fines and Penalties, 21 febbraio 2025).
Il culmine della tensione tra Stati Uniti ed Europa è raggiunto a maggio, quando la Camera dei Rappresentanti approva il testo del One Big Beautiful Bill Act (OBBBA), la nuova riforma fiscale USA, che prevede anche l’introduzione di misure di ritorsione in capo agli investitori esteri titolari di redditi di fonte statunitense e residenti in Paesi che applicano prelievi ritenuti discriminatori nei confronti dei soggetti residenti negli Stati Uniti (Section 899 dell’Internal Revenue Code). Tra questi prelievi rientra espressamente anche la global minimum tax, prelevata mediante la regola dell’UTPR, e le digital service tax, con l’effetto che gli Stati membri dell’Unione Europea corrono il rischio di essere qualificati quali “Paesi ostili”. Quella prevista dalla Section 899 è, evidentemente, un’imposta ritorsiva, impiegata come strumento negoziale e poi prontamente ritirata durante la discussione in Senato, in concomitanza con il raggiungimento dell’accordo con gli altri Paesi membri del G7 di fine giugno.
La tregua tra i Paesi membri del G7 raggiunta a fine giugno prevede due condizioni per la sopravvivenza del Pillar Two: la rimozione della Section 899 dell’Internal Revenue Code dalla proposta di legge dell’OBBBA, da parte degli Stati Uniti, e l’impegno, da parte di tutti gli Stati membri del G7, a collaborare alla realizzazione di un sistema parallelo che esenti i gruppi con casa madre statunitense dall’applicazione della global minimum tax. Ciò sull’assunto che gli Stati Uniti applicherebbero già una misura equivalente, il GILTI/NCTI (Net CFC Tested Income,ossia il GILTI oggetto di modifica ad opera dall’OBBBA e in vigore a partire dal 1° gennaio 2026).
Al là delle differenze ontologiche e applicative tra il regime GILTI/NCTI e la global minimum tax, l’approccio dual track contrasta con l’obiettivo che ha ispirato la logica dell’imposta minima globale, indebolendone gravemente la coerenza interna e la sostenibilità a lungo termine.
La global minimum tax è un efficace strumento di contrasto alla pianificazione fiscale aggressiva solo se applicata uniformemente dagli Stati che aderiscono all’iniziativa. Diversamente, rimane un meccanismo estremamente complesso nella sua attuazione, foriero di incertezza e di costi di compliance per le imprese che ne sono colpite, le quali sono disincentivate a investire nei Paesi che la prevedono.
Se non implementata uniformemente, la global minimum tax torna ad essere una semplice imposta aggiuntiva, che le imprese percepiscono come una barriera da aggirare.
Allo stato attuale, a risentire del mancato coordinamento nell’applicazione dell’imposta globale minima sono sicuramente gli Stati membri dell’Unione Europea, i quali, vincolati alla Direttiva 2022/2523/UE che la prevede, subirebbero un evidente danno concorrenziale. È naturale, quindi, che la pressione politica all’interno della stessa Unione Europea cresca e che alcuni Stati europei premano per la sospensione dell’applicazione della global minimum tax, temendo ricadute in termini di svantaggio competitivo.
Altra conseguenza immediata del mancato coordinamento e della frammentazione legislativa è l’innesco di una nuova competizione fiscale tra Stati, fondata sull’introduzione di crediti fiscali o agevolazioni che possano compensare l’effetto dell’imposta “globale” (il processo è oggetto di monitoraggio da parte dell’OCSE, cfr. OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS, Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy – Administrative Guidance on the Global Anti-Base Erosion Model Rules [Pillar Two], Central Record of Legislation with Transitional Qualified Status, report di gennaio 2025, regolarmente aggiornato).
6. La politica fiscale internazionale degli ultimi quindici anni è caratterizzata da una tendenziale polarizzazione, espressione di istanze che rispondono ad interessi opposti.
Quella più tangibile è la contrapposizione tra giurisdizioni di residenza delle grandi multinazionali (gli Stati Uniti) e giurisdizioni di mercato (tra le altre, l’Unione Europea), su cui le multinazionali operano senza connessione fisica con il relativo territorio. Ai due poli corrispondono differenti interessi economici a tutela del gettito erariale: le giurisdizioni di residenza fondano la propria politica fiscale sull’obiettivo del rimpatrio (esentasse) degli utili su cui esercitare i propri diritti impositivi. Le giurisdizioni di mercato, che contribuiscono alla creazione del valore delle imprese non residenti, prime tra tutte quelle digitali, lottano per il riconoscimento di nuovi criteri impositivi per raccogliere (o meglio, per evitare di perdere) gettito atto a finanziare il proprio sistema e le proprie infrastrutture. Le prime sono tutelate dall’applicazione degli ordinari criteri di collegamento, ancorati al concetto di residenza fiscale e di stabile organizzazione e connessi alla presenza fisica sul territorio e, proprio per questa ragione, facilmente aggirabili; le seconde reclamano l’applicazione di criteri di collegamento territoriali, fondati sul valore generato dalle imprese in ogni mercato di sbocco.
Le due misure dei Pillar, seppur concepite come un’unica potenziale riforma, rispondono a queste contrapposte istanze.
Il primo pilastro, pur rimanendo un meccanismo caotico, è indubbiamente la misura più innovativa; ha il merito di rispondere alle istanze delle giurisdizioni di mercato, introducendo un contemperamento al criterio di collegamento della residenza.
Il secondo pilastro è una misura di “lotta alla pianificazione fiscale aggressiva” che, tuttavia, rimane ancorata ai criteri di collegamento del secolo scorso: di fatto, è una soluzione non dirompente, che si innesta nel sistema esistente senza stravolgerlo.
Posta questa differenza ontologica, anche l’operatività della due misure è differente: il Pillar One postula l’adesione a una Convenzione multilaterale da parte degli Stati aderenti; il Pillar Two può essere implementato unilateralmente tramite norma interna.
Il meccanismo impositivo alla base del Pillar Two, fondato sulla centralità del criterio di tassazione della residenza, e l’attuazione tramite intervento unilaterale hanno contribuito alla percezione della misura come più semplice e forse più rassicurante sotto il profilo della conservazione della potestà impositiva nazionale. Questi aspetti hanno inciso sulla raccolta del consenso attorno all’iniziativa del secondo pilastro, attribuendole preminenza; il favore del più grande decisore politico occidentale ha pesato in questo bilanciamento.
La ricerca del consenso è stato quindi il driver che ha delineato e condizionato i profili operativi della riforma ideata dall’OCSE, modificandone (o meglio, riducendone) l’ambito; ciò in spregio alle reali esigenze di riforma del sistema della fiscalità internazionale, che postulavano l’attuazione simultanea e coordinata del progetto dei due pilastri.
Come dimostrato dall’esperienza statunitense, il consenso politico non è di per sé né stabile né garantito, dipendendo, in sostanza, dagli interessi che i singoli governi perseguono, dalla politica fiscale che adottano e dalle modalità con cui decidono di finanziare la spesa pubblica.
Il (mancato) consenso ha determinato l’insuccesso di un progetto globale che era già stato condizionato e reso parziale proprio in virtù del consenso raccolto.
L’Europa si trova ora ad aver adottato in solitaria (considerando le attuali posizioni di Cina, India e, soprattutto, degli Stati Uniti) una misura che potrebbe isolare l’economia europea e sfavorirla, senza aver colto l’occasione di essere portavoce delle istanze più rivoluzionarie connesse al riequilibrio dei diritti impositivi postulato con il Pillar One. La mancata implementazione del primo pilastro non è una tematica che incide solo sul futuro dell’Unione Europea come mercato di sbocco, in ottica di riscrittura dei canoni della fiscalità internazionale, ma genera anche problemi di reperimento di risorse nell’immediato (già nel 2020 gli Stati membri avevano concordato che le riforme e gli investimenti effettuati dall’inizio della pandemia e fino al 31 dicembre 2026 sarebbero stati finanziati anche grazie al gettito generato dall’adozione del Pillar One, cfr. Commissione Europea, The Commission proposes the next generation of EU own resources, comunicato stampa, 22 dicembre 2021).
Con lo stesso impegno e la stessa rapidità con cui gli Stati membri hanno recepito una misura originariamente pensata come globale, successivamente rivelatasi fonte di ulteriore frammentazione tra gli ordinamenti nazionali, l’Unione Europea dovrebbe cogliere l’occasione del fallimento del progetto per ripensare la propria fiscalità unionale. Ciò non si significa, necessariamente, abbandonare il Progetto BEPS 2.0, ma piuttosto utilizzare gli spunti offerti e la struttura ipotizzata nel contesto OCSE per fare fronte alle due problematiche principali a cui anche i due pilastri avrebbero dovuto rispondere: una nuova ripartizione dei diritti impositivi che consideri la posizione dell’Europa come mercato di destinazione e l’introduzione di uno scudo europeo contro la concorrenza fiscale dannosa. Quanto a questo secondo profilo, sono state formulate alcune interessati proposte che si innestano sulla struttura della global minimum tax, senza rigettarla (Assonime, Proposals for a European position in the field of international taxation after the G7 statement on global minimum taxes of June 28th, 2025, Position Paper n. 6/2025): un sistema di tutela degli incentivi agli investimenti in settori strategici e una semplificazione del calcolo dell’effective tax rate, basato su un computo della soglia su base consolidata, similmente al sistema previsto dalle regole GILTI/NCTI. Ciò che è certo è che la misura non può trasformarsi in un onere aggiuntivo per le imprese che operano sul mercato interno e in un disincentivo per quelle che intendono operarvi. Anzi, dovrebbe essere ancorata a norme di contrappunto, volte al rilancio di un sistema europeo che garantisca una competitività fiscale sostenibile. La nuova competizione si dovrebbe fondare sulla creazione di ambienti normativi stabili, trasparenti e capaci di attrarre investimenti grazie alla disponibilità di risorse qualificate, infrastrutture avanzate e un sistema fiscale prevedibile. Per attrarre investimenti esteri, l’Europa dovrebbe puntare su incentivi legati alla ricerca e sviluppo, all’adozione di tecnologie sostenibili e alla capacità di offrire certezza normativa. La combinazione di un meccanismo di determinazione della base imponibile in modo uniforme in tutti gli Stati membri con incentivi specifici per la sostenibilità, l’innovazione tecnologica e lo sviluppo infrastrutturale potrebbe essere la chiave per il rilancio del sistema fiscale europeo.
Quanto al primo profilo, anche se la soluzione più semplice potrebbe consistere nel rispolverare la proposta sulla web tax europea, questa misura potrebbe essere sostituita medio tempore con un intervento strutturale fondato su meccanismo autonomo di riattribuzione dei profitti residui ispirato alla logica dell’Amount A del Pillar One, confinato al mercato interno, e fondato su chiavi di allocazione oggettive quali il fatturato realizzato nel mercato europeo, corretto con indicatori specifici connessi al mercato di sbocco (utenza attiva, valore delle transazioni, utilizzo delle infrastrutture europee). Questa iniziativa non dovrebbe prescindere da un coordinamento efficace con il Pillar Two (o con ciò che ne sarà a seguito del nuovo sistema side-by-side) e con la disciplina convenzionale esistente. Tuttavia, in un contesto di stallo internazionale, dotarsi di questo nuovo strumento non rappresenterebbe un atto isolazionista per l’Europa, bensì un esercizio di sovranità fiscale responsabile e coerente con la struttura politico-economica che gli Stati membri dovrebbero perseguire.
(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Assonime, Proposals for a European position in the field of international taxation after the G7 statement on global minimum taxes of June 28th, 2025, Position Paper n. 6/2025
Baker P., The Need for Plan B, in Intertax, 2023, vol. 51, n. 8-9, 542 ss.
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