Sul ridimensionamento dell’efficacia del giudicato penale assolutorio nel processo tributario, fra nomofilachia e sconfinamento nella sfera riservata al potere legislativo (Parte seconda)
Di Giorgia Tombesi
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Abstract (*)
L’orientamento che interpreta restrittivamente il nuovo art. 21-bis D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, solleva taluni profili di criticità, a partire dall’assenza di elementi testuali che confortino tale soluzione ermeneutica – tanto nella disposizione in commento, quanto nei principi dettati dalla legge delega 9 agosto 2023, n. 111 – e dalla sovrapposizione dei distinti piani del ne bis in idem sanzionatorio e della razionalizzazione dei due processi. La ricostruzione propugnata dalla Corte, che postula, quale unico effetto, la disapplicazione delle sanzioni, non parrebbe applicabile in presenza di formule assolutorie che riconoscono l’emersione di materia imponibile, sia pure irrilevante ai fini penali, o di condotte comunque sanzionate sul piano amministrativo. Inoltre, per come è strutturato l’accertamento sulle sanzioni collegate al tributo, fondato sui medesimi fatti costitutivi della ripresa a tassazione, non sembra ipotizzabile l’attribuzione di valenza differenziata al giudizio di fatto espletato dal giudice penale. Permangono, nondimeno, rilevanti dubbi interpretativi legati all’assenza di coordinamento con le presunzioni legali e al rischio di violazione del principio di “parità delle armi”.
On the downsizing of the effects of criminal acquittal in tax proceedings, between nomofilachia and encroachment upon the sphere reserved for legislative power (Part Two) – The restrictive interpretation of the new Article 21-bis of Legislative Decree n. 74 of 10 March 2000 raises several critical issues, starting with the lack of textual elements supporting such an interpretative approach – both in the provision itself and in the principles set out by Delegated Law n. 111 of 9 August 2023 – and the overlapping of two distinct levels, the ne bis in idem principle in sanctioning matter and the rationalisation of the dual-track proceedings. The reconstruction advanced by the Court, which assumes the sole effect of disapplying administrative sanctions, proves inapplicable in cases of acquittal formulas that acknowledge the existence of taxable matter, though irrelevant for criminal purposes, or of conduct still subject to administrative penalties. Moreover, given the structure of the assessment of tax-related sanctions, which is based on the same factual elements underlying the tax recovery, it doesn’t seem conceivable to assign a differentiated value to the findings made by the criminal judge. Nevertheless, significant doubts remain, primarily due to the lack of coordination with legal presumptions and the potential infringement of the principle of “equality of arms”.
Sommario: (Segue)3. Alcune criticità dell’indirizzo restrittivo. 4. Brevi conclusioni.
3. Pur a fronte di una disamina condotta con elevato rigore sistematico, i suggestivi argomenti su cui si incardina l’orientamento restrittivo non sono però scevri da taluni profili di incoerenza e dubbi di compatibilità con i principi regolatori della materia tributaria.
In particolare, la solidità dell’argomento topografico-sistematico da cui prende le mosse il percorso argomentativo seguito dalla Corte – per cui assumerebbe rilievo, anzitutto, il fatto che la disposizione sia venuta alla luce nell’alveo della revisione della disciplina sanzionatoria tributaria – viene infirmata allorché la trasposizione nel Testo Unico dedicato alla giustizia tributaria diviene, all’opposto, un dato irrilevante (Cass. civ., sez. trib., 14 febbraio 2025, n. 3800, punto 17).
Occorre considerare infatti che, pur trattandosi di un intervento a carattere compilativo, la predisposizione di Testi Unici deve essere, nondimeno, improntata all’organizzazione per settori omogenei ed ispirarsi al miglioramento della «coerenza giuridica, logica e sistematica» della normativa vigente (ai sensi dell’art. 21, comma 1, lett. b), L. 9 agosto 2023, n. 111). Sicché non appare azzardato presumere che il travaso della disposizione nel Testo Unico sulla giustizia tributaria risponda ad una precisa ragione di ordine sistematico, in virtù della reale portata della norma, che aspira a regolare, oltre i limiti del trattamento sanzionatorio, i rapporti tra processo tributario e processo penale (cfr. Lovisolo A., Processo tributario ed efficacia delle sentenze penali di assoluzione: alcune considerazioni critiche, in Dir. prat. trib., 2025, 2, 644)
Un altro aspetto che merita puntuale considerazione è l’assunto finalistico da cui muove la Suprema Corte, che disvela la sovrapposizione di due piani tenuti distinti nell’ambito della legge delega: la compiuta attuazione del ne bis in idem sanzionatorio e la razionalizzazione dei rapporti tra i due processi.
Nella cornice normativa in cui si inscrive la disposizione de qua, la previsione idealmente deputata ad evitare una duplicazione della sanzione comminata per punire una medesima condotta sembra invero rinvenibile nel disposto dell’art. 21-ter, che impone al giudice o all’Autorità amministrativa intervenuti in seconda battuta di tener conto, nella determinazione delle sanzioni di propria competenza e al fine di ridurne la relativa misura, di quelle già irrogate con sentenza o provvedimento assunti in via definitiva.
A tutto voler concedere, si potrebbe coerentemente ritenere – come si precisa anche in seno alla Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 87/2024 (la quale, ad ogni modo, non ha efficacia cogente né va considerata essa stessa fonte del diritto, potendo costituire, tutt’al più, un valido ausilio per la corretta interpretazione di una norma o di un combinato disposto normativo, quando risulti del tutto conforme all’enunciato normativo; in tal senso, Cass. civ., sez. I, 2 ottobre 2018, n. 23950 – che gli artt. 21-bis e 21-ter, D.Lgs. n. 74/2000 siano destinati ad operare sinergicamente.
Il secondo sarebbe diretto a modulare la proporzionalità della risposta sanzionatoria, in aderenza alle elaborazioni provenienti dalla giurisprudenza europea (Corte Giustizia UE, Grande Sez., 20 marzo 2018, Menci, C-524/15) e dalla Corte EDU (cfr. Corte EDU, sez. IV, 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia; Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia; Corte EDU, sez. I, 18 maggio 2017, Jóhannesson e a. c. Islanda; Corte EDU, sez. II, 16 aprile 2019, Bjarni Ármannsson c. Islanda), mentre il primo interverrebbe in quella gamma di ipotesi in cui l’inesistenza dei fatti materiali che integrano l’illecito penale contestato, collimanti con quelli su cui si fonda la pretesa sanzionatoria amministrativa, privi quest’ultima dei presupposti giuridico-fattuali, imponendone la disapplicazione in sede contenziosa. Difatti, ritiene una parte della dottrina (Ardizzone G., Il D.Lgs. n. 87/2024 e la riforma del doppio binario tributario, in Dir. pen. proc., 2024, 12, 1590 ss., spec. 1594-1596) che la pur ampia formulazione dell’art. 21-ter in parola – stante l’utilizzo dell’espressione «al fine di ridurne la relativa misura» – non sembrerebbe consentire la disapplicazione delle sanzioni in misura integrale, diversamente da quanto ha invece sostenuto la giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. V, 31 ottobre 2018, n. 49869), con riferimento all’analogo meccanismo compensativo introdotto in materia di sanzioni per abusi di mercato, all’art. 187-terdecies TUF. Per quest’ultima disposizione, è stata infatti ammessa – ogniqualvolta la prima sanzione risulti, da sola, proporzionata e idonea ad assorbire il complessivo disvalore del fatto – tanto la disapplicazione in mitius, nel minimo edittale, quanto la disapplicazione in toto della norma relativa alla sanzione non ancora divenuta irrevocabile.
Ancorché non si dubiti che l’attuazione di un singolo principio direttivo possa snodarsi attraverso una pluralità di disposizioni, ciò che appare, tuttavia, problematico è immaginare che un altro principio direttivo (i.e. la razionalizzazione tra i due processi) – di pari rilievo sistematico ed enunciato apertis verbis nella legge delega – risulti depotenziato a tal punto, e ciò proprio per effetto di un’interpretazione della disposizione che doveva costituirne concreta attuazione distonica rispetto all’effettiva finalità perseguita dal legislatore delegante (sul rapporto tra legge delegante e legge delegata, v. Paladin L., voce Decreto legislativo, in Noviss. Dig. It., Torino, 1975, 293-299).
È opinione ampiamente condivisa che «i principi posti dal legislatore delegante costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma strumenti per l’interpretazione della loro portata» (così, ex multis, T.A.R. Lazio, sez. III quater, 13 gennaio 2025, n. 536). Le disposizioni attuative «vanno, quindi, lette, fintanto che sia possibile, nel significato compatibile con detti principi, i quali, a loro volta, vanno interpretati avendo riguardo alla ratio della legge delega ed al complessivo quadro di riferimento in cui si inscrivono» (ibidem).
Ora, anche a voler condividere la ricostruzione secondo cui l’art. 21-bis costituirebbe il complementare sistematico dell’art. 21-ter – come pare suggerire il loro richiamo congiunto nella locuzione da ultimo introdotta al secondo comma dell’art. 21 del medesimo decreto (ad ulteriore conferma della sussistenza di tale rapporto di complementarietà, si veda Cass. civ., sez. trib., 8 aprile 2025, n. 9192) – non si può tralasciare che, all’interno della legge delega, non si rinvengono indicazioni da cui trapeli l’intenzione del legislatore delegante di “lasciar fuori” dall’efficacia vincolante della pronuncia penale l’accertamento dell’imposta. Il relativo principio direttivo, difatti, stabilisce in parte qua che le sentenze dibattimentali di assoluzione invocate «facciano stato nel processo tributario quanto all’accertamento dei fatti medesimi» senza limitazioni di sorta. L’unico limite che emerge direttamente da detto enunciato normativo è quello rappresentato dalla «coerenza con i principi generali dell’ordinamento» (su cui v. infra).
Invero, anche lo stesso tenore letterale dell’art. 21-bis, quantomeno prima facie, non presenta elementi testuali che si prestino ad escludere dal proprio perimetro l’accertamento relativo al rapporto impositivo, sicché occorrerà vagliare nel prosieguo se l’esclusione in parola possa ricondursi agli altri rilievi avanzati dalla prospettata tesi restrittiva.
Sotto un altro profilo, va evidenziato come la Suprema Corte correttamente rimarchi la doverosità di un esame preliminare volto a stabilire la corrispondenza tra i fatti naturalistici oggetto di accertamento nei due giudizi (Cass., sez. trib., 14 febbraio 2025, n. 3800, cit., punto 20), salvo poi ipotizzare, negli effetti, un duplice automatismo che collide con la reale portata della norma.
Essa, più nel dettaglio, da un lato, paventa che una interpretazione troppo lasca della norma rischierebbe di compromettere la garanzia della “giusta imposizione” («[…] che viene realizzat[a] con gli strumenti previsti dall’ordinamento tributario e secondo i criteri di riparto della prova tra il contribuente e il fisco», Cass., sez. trib. 14 febbraio 2025, n. 3800, cit., punto 22.3), sottacendo la sicura (e indebita) utilità fiscale che il contribuente sarebbe destinato a ritrarre dalla spendibilità nel giudizio tributario della sentenza assolutoria (profilo non solo sottaciuto ma chiaramente esplicitato in Corte di Giustizia tributaria I grado di Roma, sez. n. XIII, ord. 16 giugno 2025, n. 1838, punto 5.3, nella parte in cui la corte di merito afferma che, quantunque le Sezioni Unite dovessero propendere per l’orientamento restrittivo, non verrebbe comunque meno «il profilo di intrinseca irragionevolezza ed irrazionalità che connota l’automatismo processuale introdotto dalla norma indubbiata, strutturalmente inidonea ad assicurare il confronto dialettico tra le parti, siccome operante ad esclusivo vantaggio del contribuente assolto in sede penalesenza garantire alcuna possibilità di “resistenza” all’Amministrazione finanziaria, ed al contempo limitativa della potestas iudicandi del giudice tributario, deprivato di qualsivoglia possibilità valutativa in ordine ai (residuali) profili (esclusivamente) tributari emergenti, come possibile fonte di prova, dalla sentenza penale», enfasi aggiunta).
Dall’altro, inferisce che la res iudicata penale di assoluzione si converta sempre nella automatica disapplicazione delle sanzioni amministrative (v. Cass., sez. trib., 14 febbraio 2025, n. 3800, punto 22.4, secondo cui il giudice tributario dinanzi al quale sia invocata la pronuncia dibattimentale di assoluzione «sarà tenuto ad operare una duplice operazione a) quanto alla ripresa impositiva dovrà apprezzare, con valutazione autonoma, la suddetta decisione come elemento di prova unitamente agli altri elementi introdotti nel giudizio ai sensi degli artt. 654 cod. proc. pen. e 20 d.lgs. n. 74 del 2000, con un giudizio di sintesi che non è condizionato dal passaggio in giudicato della decisione penale; b) quanto alla sanzione tributaria, ove accerti la medesimezza dei fatti, dovrà applicare il 21-bis, annullando la sanzione irrogata», enfasi aggiunta).
Da questo punto di vista, un riferimento utile ai nostri fini può trarsi dalle fattispecie di reato caratterizzate dalla presenza di soglie di punibilità.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, il raggiungimento della prova positiva dell’esistenza di un certo ammontare di imposta evasa che, tuttavia, non supera la soglia di valore richiesta per il perfezionamento del reato, dà luogo ad un giudizio di assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste” (come affermato in Cass. pen., sez. III, 16 gennaio 2020, n. 9963; Cass. pen., sez. III, 25 gennaio 2016, n. 3098; Cass. pen., sez. III, 16 marzo 2016, n. 10964), non essendo integrato uno degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice (per la qualificazione delle soglie di punibilità come elementi costitutivi, v. Cass. pen., sez. II, 18 febbraio 2021, n. 11986; Cass. pen., sez. III, sent., 29 settembre 2020, n. 27007; Cass. pen., sez. III, 16 gennaio 2020, n. 9963, cit.).
Ebbene, tale sentenza di assoluzione, ove munita degli ulteriori requisiti previsti dal più volte citato art. 21-bis, risulta potenzialmente spendibile nel giudizio tributario vertente sui medesimi fatti materiali, senza, tuttavia, che ciò possa determinare un vincolo decisorio in capo al giudice tributario dinanzi al quale sia invocato il giudicato, che conserva piena autonomia nella qualificazione giuridica di quegli elementi fattuali e nella loro sussunzione nella normativa tributaria applicabile (cfr., nella specie, Cass. pen., sez. III, 25 gennaio 2016, n. 3098, cit., secondo cui, ove l’insussistenza del fatto di reato sia dichiarata per la mancata integrazione della soglia di punibilità «è esclusivamente rispetto a tale fatto che, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento ha efficacia di giudicato, restando impregiudicato […] l’eventuale mancato versamento dell’IVA in misura inferiore alla soglia di punibilità (che integra un fatto diverso, penalmente irrilevante e sanzionabile in via amministrativa) e potendo l’amministrazione finanziaria quindi procedere in via amministrativaall’accertamento della violazione e all’irrogazione delle relative sanzioni in relazione all’imposta dovuta e non versata, purché sotto soglia»; si noti che il termine “violazione” va qui riferito, in senso ampio, alla condotta evasiva, che dà luogo sia al recupero dell’imposta indebitamente omessa, ma penalmente irrilevante, sia all’applicazione della relativa sanzione amministrativa. In senso conforme, v. Cass. pen., sez. III, 29 settembre 2020, n. 27007, che ribadisce come, in simili casi, «l’oggetto dell’eventuale giudizio da svolgersi in altra sede si caratterizzerebbe nel caso di specie per valori soglia diversi ed inferiori e come tali in alcun modo “scudati” dall’intervenuto giudicato penale», e, da ultimo, Cass. pen., sez. III, 12 aprile 2024, n. 15118).
L’esempio appena illustrato è funzionale a render conto del modo di operare dell’obbligo stabilito dall’art. 21-bis, che si traduce in una preclusione e in un obbligo di conformarsi all’accertamento dei fatti emergenti dalla sentenza, sui quali poggia il giudizio di assoluzione, non anche alla valutazione degli stessi compiuta dal giudicante penale secondo le specifiche regole probatorie e di giudizio ivi applicabili.
Il che implica che nel processo tributario dovrebbe considerarsi suscettibile di fare stato, a titolo esemplificativo, tanto il riscontro della genuinità dell’operazione finanziaria documentata che si asseriva oggettivamente inesistente, quanto l’accertamento dell’inferiorità dei componenti attivi di reddito sottratti a tassazione alla soglia di punibilità stabilita dalla legge.
Se entrambi i descritti accertamenti sono egualmente idonei a far venir meno la rilevanza penale dell’illecito ascritto, non è altrettanto vero che la vis expansiva dei rispettivi giudicati incida allo stesso modo sull’esito del processo tributario. È, anzi, evidente che al mero riscontro del mancato raggiungimento della soglia non possa corrispondere l’irrilevanza dell’omissione contestata ai fini impositivi (e sanzionatori) e l’automatica caducazione del provvedimento impugnato (effetto che viene, invece, prefigurato in Corte di Giustizia tributaria II grado del Piemonte, ord. 10 marzo 2025, n. 64, nella parte della motivazione in cui si afferma che «l’applicazione del richiamato disposto normativo [art. 21-bis – n.d.r.] determinerebbe l’automatica caducazione degli avvisi di accertamento relativi alle medesime annualità, incidendo, quindi, in modo vincolante nel presente giudizio»; ancora più nitidamente, si esprime Corte Giustizia tributaria I grado di Roma, sez. n. XIII, ord. 16 giugno 2025, n. 1838, secondo la quale «[p]er effetto dell’art. 21-bis d.lgs. n. 74/2000 si profila una situazione di disuguaglianza tributaria tra il contribuente assolto in sede penale il quale ottiene l’automatico annullamento giudiziale dell’avviso di accertamento o l’atto impo-esattivo quand’anche egli manifesti una propria capacità contributiva, mentre eguale sorte non è assicurata al contribuente che non sia mai stato attinto da procedimento penale, nonostante abbia commesso violazioni tributarie, giustappunto, meno gravi»).
Un ulteriore esempio in tal senso proviene dalla fattispecie di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 D.Lgs. n. 74/2000: la violazione contestata potrebbe fuoriuscire dall’area dell’illecito penale qualora, al termine del dibattimento, l’ammontare di imposta evasa si attesti al di sotto della soglia di punibilità, residuando, inoltre, l’accertamento del fatto storico – spendibile nel giudizio tributario ed avente autonoma rilevanza sanzionatoria amministrativa – dell’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi o IVA.
Si pensi, ancora, qualora si proceda per il reato di infedele dichiarazione ex art. 4 del citato decreto, al caso in cui i componenti negativi di reddito che l’imputato abbia indebitamente portato in deduzione, generando un minor debito d’imposta, vengano accertati come esistenti (e, dunque, non oggettivamente fittizi) ma risultino privi del requisito dell’inerenza.
Il vincolo risiede, in buona sostanza, nell’impossibilità per il giudice tributario di ripetere l’accertamento che ha affermato l’esistenza o meno di quegli stessi fatti coperti da giudicato e di sovrapporvi la propria ricostruzione. Tuttavia, il medesimo, pur spogliato, per espressa previsione, del potere di rivalutare il fatto nella sua dimensione storica, resta tenuto (e non potrebbe essere altrimenti) a valorizzare l’emersione di materia imponibile, sussumendo quel medesimo fatto, così come cristallizzato nella pronuncia penale, nella fattispecie impositiva di riferimento, e, conseguentemente, ad irrogare la corrispondente sanzione amministrativa (sottolinea Lovisolo A., op. cit., 642 ss. che, anche nel caso di sentenza pronunciata ex art. 530, comma 2, c.p.p., il giudice tributario, pur non potendo addivenire ad una diversa configurazione circa l’esistenza di quei fatti storici emergenti nella sentenza penale, conserva comunque il dominio sull’apprezzamento degli stessi ai fini tributari).
La prima conseguenza alla quale conducono le anzidette considerazioni è che la statuizione penale “favorevole” al contribuente-imputato non necessariamente si risolve in un elemento che quest’ultimo abbia interesse a produrre nel giudizio tributario, potendo finanche determinare l’integrale riconoscimento delle ragioni erariali.
La seconda è che, anche supponendo la correttezza dell’orientamento restrittivo, la pronuncia assolutoria con formula piena non si traduce, sempre e comunque, in forza dell’art. 21-bis, nell’automatica disapplicazione delle sanzioni. Opinare in tal senso dà luogo ad incongruenze sul piano logico, ancor prima che giuridico, oltre ad urtare con la ratio che ispira l’art. 21 D.Lgs. n. 74/2000 (con riferimento al quale, Mastrogiacomo E., Sub art. 21, in Aa.Vv., Diritto e procedura penale e tributaria [Commentario al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74], Padova, 2001, 517 ss., chiarisce infatti che l’espressione «formula che esclude la rilevanza penale del fatto» contenuta nell’art. 21 – che caratterizza la sentenza di assoluzione o di proscioglimento il cui intervento condiziona l’eseguibilità della sanzione amministrativa precedentemente irrogata per violazione oggetto di notizia di reato – deve ritenersi comprensiva dell’assoluzione “perché il fatto non sussiste”, restando, in tal modo, assicurata all’Amministrazione finanziaria la ripresa dell’esecuzione della sanzione di propria competenza anche nell’ipotesi in cui l’insussistenza del fatto discenda dal mancato superamento delle soglie di punibilità; in termini non dissimili, v. Nicótina L., Le interferenze tra processo tributario e processo penale: pregiudizialità, autonomia o coordinazione critica, in Riv. dir. trib., 2011, 10, 455 ss., spec. 477 e 482).
In altri termini, il giudice tributario non sarà autorizzato a discostarsi dall’accertamento in fatto su cui si innesta la statuizione penale da recepire, ferme restando le qualificazioni giuridiche di quegli stessi fatti ovvero le ulteriori eventuali risultanze istruttorie che potrebbero comunque rilevare la sussistenza di un residuo debito d’imposta.
Un simile effetto non sembra, tuttavia, astrattamente in conflitto con i principi informatori, anche di rango costituzionale, che governano la materia fiscale, o tale da comprometterne la «coerenza con i principi generali dell’ordinamento» (art. 20, comma 1, n. 3), L. n. 111/2023).
L’ordinamento tributario conosce, invero, altre forme di limitazione al potere ricostruttivo del giudice tributario derivanti dagli effetti extra-penali di una pronuncia penale assolutoria (o sostanzialmente tale). Si pensi, a tal riguardo, a quanto previsto in materia di deducibilità dei costi da reato dall’art. 14, comma 4-bis, secondo periodo, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, in forza del quale, qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ex art. 530 c.p.p., una sentenza definitiva di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ex art. 529 c.p.p., «compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi» (sul tema, si rinvia più ampiamente a Carinci A., La nuova disciplina dei costi da reato: dal superamento del doppio binario alla dipendenza rovesciata [con diversi dubbi e numerose incongruenze], in Rass. trib., 2012, 6, 1459 ss.; Salvini L., Rapporti tra sistema penale e sistema tributario per la repressione degli illeciti, in Salvini L. – Cagnola F., a cura di, Manuale professionale di diritto penale tributario, Torino, 2022, 166 ss.).
Nelle suddette ipotesi tipizzate, il contribuente che, in virtù dell’esercizio nei suoi confronti dell’azione penale per un delitto non colposo (condizione necessaria e sufficiente, che non vale però a convalidare il provvedimento impositivo, notificato in un momento anteriore all’avvio dell’azione penale, che abbia, illegittimamente, operato il disconoscimento dei costi; così, Carinci A., La nuova disciplina dei costi da reato: dal superamento del doppio binario alla dipendenza rovesciata [con diversi dubbi e numerose incongruenze],. cit., 1472), abbia subìto il disconoscimento della deduzione dei costi direttamente sostenuti per l’asserita commissione dello stesso, beneficia, in sostanza, dell’automatico abbattimento della base imponibile, connesso al sorgere del diritto al rimborso delle maggiori imposte versate a causa della provvisoria applicazione del regime di indeducibilità.
Il che, a ben vedere, costituisce diretta conseguenza del recepimento in sede tributaria della pronuncia penale che attesta il venir meno della causa di indeducibilità dei componenti negativi, risultando impedito al giudice tributario – in termini non dissimili dall’art. 21-bis – il compimento di qualsivoglia verifica che vada oltre il controllo della mera corrispondenza tra il fatto a rilevanza tributaria e la fattispecie delittuosa oggetto del procedimento penale (Cass. civ., sez. trib., 19 marzo 2024, n. 7275, dopo aver chiarito che la pronuncia penale che esclude la sussistenza dei fatti di reato costituisce il presupposto per la domanda di rimborso delle maggiori imposte versate o per l’intervento in autotutela, afferma che «[…] il giudice tributario non può accertare incidentalmente e autonomamente se la fattispecie penale esista o meno, ma deve limitarsi ad accertare se la condotta oggetto del giudizio penale sia riferibile a quella oggetto del giudizio tributario»; peraltro, secondo Carinci A., La nuova disciplina dei costi da reato: dal superamento del doppio binario alla dipendenza rovesciata [con diversi dubbi e numerose incongruenze], cit., 1473 ss., alla luce dell’art. 14, comma 4-bis, prima parte, L. n. 537/1993, già a monte si verifica «la privazione per il giudice tributario del potere di vagliare la sussistenza delle condizioni di applicazione del regime di indeducibilità»).
Ciò posto, come evidenzia attenta dottrina, la soluzione ermeneutica cui perviene tale filone giurisprudenziale poggia altresì su un equivoco concettuale, rappresentato dalla presunta sussistenza di un accertamento giudiziale distinto e autonomo per l’applicazione delle sanzioni, rispetto a quello compiuto sui fatti costitutivi del rapporto giuridico di imposta (qui il riferimento è da intendere esclusivamente alle sanzioni c.d. “collegate al tributo” a cui si riferiscono, per le quali l’irrogazione è immediata e contestuale all’avviso di accertamento, non anche a quelle c.d. “non collegate al tributo”, che vengono irrogate con atto di contestazione separato ai sensi dell’art. 16 D.Lgs. n. 472/1997, entrambe definite in Cass. civ., sez. trib., 2 febbraio 2023, n. 3238).
Benché siano contenute in due atti contestuali ma giuridicamente autonomi e divergano sotto l’aspetto funzionale – non presentando la ripresa fiscale una finalità «deterrente e […] punitiva» (Coppa D. – Sammartino S., [voce] Sanzioni tributarie, in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, 436 ss.) ma di concorso alle pubbliche spese – la pretesa impositiva e quella sanzionatoria, quantomeno nell’an, sono il frutto di un accertamento unitario, in quanto imperniato sui medesimi fatti materiali che compongono la fattispecie impositiva (così, Carinci A., “Quer pasticciaccio brutto” dell’art. 21-bis del D.lgs. n. 74 del 2000, in il fisco, 2025, 6, 1421 ss., spec. 1423, il quale rileva che, per come è costruita la disciplina sanzionatoria tributaria, in cui l’irrogazione delle sanzioni non è fondata sull’accertamento di fatti diversi e ulteriori, la soluzione interpretativa accolta dalla Corte non convince, in quanto pare «difficile immaginare che il giudice, chiamato ad accertare un unico fatto ai fini dell’imposta e delle sanzioni, debba accettare come giudicato l’accertamento penale del fatto solo per le sanzioni e non anche per l’imposta; ciò, nonostante che l’accertamento per le sanzioni sia subordinato concettualmente e praticamente a quello dell’imposta. Non solo i fatti sono medesimi, ma quelli rilevanti per le sanzioni dipendono in tutto da quelli rilevanti per l’imposta»; vieppiù, soggiunge Marcheselli A., Dal doppio binario al capolinea del giusto processo, in Riv. tel. dir. trib., 2025, 1 e pubblicato online il 1° marzo 2025, www.rivistadirittotributario, considerando che, l’innovato art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992, ha unificato lo standard probatorio valido per i tributi e per le sanzioni tributarie).
A conforto di tale configurazione milita l’impostazione, ormai divenuta dominante (v. Cass. civ., sez. trib., ord. 22 maggio 2024, n. 14259, con nota critica di Zagà S., Note in tema di motivazione dei provvedimenti di irrogazione immediata delle sanzioni, in Riv. Guard. Fin., 2024, 6, 1623 ss.; Cass., civ., sez. trib., 2 febbraio 2023, n. 3238, cit.; Cass. civ., sez. trib., 2 marzo 2022, n. 6944; Cass. civ., sez. trib., ord. 4 maggio 2021, n. 11610; Cass. civ., sez. trib., 5 agosto 2016, n. 16484), salvo talune voci dissenzienti da parte della dottrina (Zagà S., op. cit., 1623 ss.; Califano C., La motivazione dei singoli atti nella funzione impositiva, Torino, 2012, 345-346), secondo cui, per gli atti di irrogazione c.d. “immediata”, l’obbligo motivazionale sancito, a pena di nullità, dall’art. 17 D.Lgs. n. 472/1997, possa trovare soddisfazione anche per relationem, tramite la definizione della pretesa fiscale nei suoi elementi essenziali, contenuta nella motivazione dell’atto impositivo al quale accede.
Si pensi, ancora, all’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale relativo agli atti autonomamente impugnabili ex art. 6-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, la cui valida instaurazione si ritiene assicurata dalla notifica del solo schema d’atto relativo all’avviso di accertamento, qui nella sua veste di atto complesso nel quale si concentrano la ripresa a tassazione e l’atto di irrogazione delle sanzioni (Piantavigna P., L’atto di contestazione delle sanzioni deve essere preceduto dallo schema di atto?, in Quotidiano Ipsoa, 25 ottobre 2024).
Tale assetto, come premesso, rende difficile immaginare, in presenza di una sentenza penale avente ope legis «efficacia di giudicato», una regola “bipartita” di valutazione dell’accertamento, posto che quest’ultimo si riverbera sulla ricostruzione degli stessi fatti materiali (così, Menti F., Le violazioni degli obblighi tributari sostanziali e formali e l’irrogazione delle sanzioni, in Dir. prat. trib., 2019, 1, 415: «[…] Di qui la deduzione che i fatti materiali a cui fa riferimento la disposizione di legge per individuare la violazione dell’obbligo tributario e definire di conseguenza la sanzione da irrogare, sono i medesimi fatti che giustificano il recupero del tributo evaso»).
A parziale temperamento della prospettata lesione del diritto di difesa costituzionalmente garantito nei confronti dell’Amministrazione intervengono, invece, alcune previsioni recentemente introdotte dal D.Lgs. n. 87/2024.
Si allude, in particolare, all’obbligo di informativa da parte del pubblico ministero alla Direzione provinciale competente dell’Agenzia delle Entrate nel caso di esercizio dell’azione penale per reati tributari (art. 129, comma 3-quater, disp. att. c.p.p.) e all’obbligo – speculare – per l’Agenzia fiscale di rispondere senza ritardo a tali comunicazioni, trasmettendo, anche al competente Comando della Guardia di Finanza, l’attestazione relativa allo stato di definizione della violazione tributaria (artt. 32, ult. comma, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 51, ult. comma, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633).
Nonostante l’omessa previsione, nell’ambito della recente riforma fiscale, di strumenti di coordinamento tra i due processi, il legislatore delegato ha, dunque, provveduto a sistematizzare e a rendere obbligatoria la trasmissione da parte del pubblico ministero della notitia criminis che investa un reato tributario, al quale l’Amministrazione finanziaria è tenuta a dare riscontro e che può ripercuotersi in termini di responsabilità amministrativa o disciplinare nel caso di inosservanza del relativo obbligo.
Non sembra, invece, meritevole di pregio la censura relativa alla divaricazione tra categorie di contribuenti, che vedrebbe irragionevolmente favorire, nella ripartizione dell’onere probatorio, i contribuenti “più evasori” a dispetto di quelli “sotto-soglia”.
In primis, si consideri che, secondo alcuni autori, al più rigoroso onere previsto per le violazioni tributarie oggetto di fattispecie incriminatrice va ascritto il valore di contraltare rispetto alla maggiore incisività del procedimento penale, che richiede di assegnare un significato particolarmente pregnante all’accertamento raggiunto per il giudizio assolutorio dibattimentale (Ingrassia A., Magic beyond words: insidie ed opportunità per le Sezioni Unite nella decisione sul peso del giudicato penale nell’accertamento tributario, in blastonline.it, 14 marzo 2025), fungendo, parallelamente, da argine all’utilizzo, talvolta eccessivamente disinvolto, dell’azione penale come strumento di riscossione (ibidem).
Come già ricordato, inoltre, le recenti riforme che hanno investito la materia processuale sono intervenute per appianare le profonde differenze di standard probatori che impedivano di ricondurre il giudizio tributario al paradigma costituzionale del “giusto processo” (cfr. Tinelli G., L’evoluzione del sistema della giustizia tributaria, in Dir. prat. trib., 2023, 3, 932, il quale osserva, peraltro, che, venuto meno il tradizionale divieto di prova testimoniale, il rinvio recettizio alle disposizioni del codice del rito civile di cui all’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, dovrebbe condurre a considerare il mezzo istruttorio astrattamente esperibile anche nella forma orale), introducendo, in tal senso, una lex specialis sull’onere della prova, secondo cui, ad eccezione delle liti di rimborso, incombe sull’Ufficio l’onere di provare in giudizio i presupposti costitutivi della pretesa impositiva. Onere che si innesta su un atto impositivo nel quale sono già formalizzati i presupposti, i mezzi di prova e le ragioni giuridiche a fondamento della ripresa a tassazione (ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente) e che, se non assolto (i.e. la prova manca, è contraddittoria o insufficiente), è suscettibile di determinare l’annullamento giudiziale dell’atto impositivo.
Ciò posto, nel silenzio della legge, sembra possibile affermare che, ogniqualvolta la normativa tributaria sostanziale stabilisca presunzioni legali che comportano l’inversione dell’onere della prova, queste siano destinate a prevalere sull’accertamento incontrovertibile formatosi in sede penale (si pensi al caso in cui uno stesso fatto – ricavi non dichiarati, in virtù di versamenti o prelevamenti sul conto corrente non contabilizzati – sia oggetto di valutazione, rispettivamente, nel processo penale e nel processo tributario. Stante la simmetrica differenza in ordine al regime probatorio che sorregge quel determinato fatto – nel processo penale, a carico del p.m.; nel processo tributario, a carico del contribuente/imputato – nell’un caso, il contegno processuale inerte del contribuente potrebbe giovare a sé stesso, ove il p.m. non raccolga elementi a supporto della sussistenza di quel fatto; nell’altro, tutto all’opposto, gioverebbe invece certamente alla controparte che può beneficiare della presunzione legale di cui all’art. 32 D.P.R. n. 600/1972, in forza della quale quel fatto si intende dimostrato se non viene puntualmente smentito). Rispetto a tali presunzioni legali, infatti, il legislatore tributario – consentendo un arretramento dell’onere dimostrativo facente capo all’Amministrazione, giustificato dall’esigenza di assicurare la realizzazione pratica del gettito, in nome del superiore interesse fiscale – ha, già a monte, compiuto una valutazione di conformità con il dettato costituzionale (sempreché la presunzione risponda a criteri di ragionevolezza e sia suscettibile di essere superata fornendo la prova contraria; cfr. Corte cost., 8 giugno 2005, n. 225).
Peraltro, una siffatta lettura si pone in continuità con il disposto del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, nel quale l’inciso «comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale» è eminentemente teso a salvaguardare le ipotesi in cui l’ordinario riparto subisca una deroga, in presenza di presunzioni legali (cfr., per tutte, Cass. civ., sez. trib., ord. 30 gennaio 2024, n. 2746).
Quanto, poi, all’argomento testuale fondato sull’utilizzo, al terzo comma, della congiunzione «anche» riferita alla persona fisica ovvero l’ente o la società nel cui interesse ha agito il trasgressore, a sommessa opinione di chi scrive, sembra piuttosto trattarsi di una disposizione che mira a superare le perplessità che aveva generato la perimetrazione soggettiva dell’art. 654 c.p.p. – il quale circoscrive l’efficacia della sentenza all’imputato, alla parte civile e al responsabile civile – rendendo applicabile l’efficacia del giudicato penale al contribuente in tutti quei casi in cui si verifichi una dissociazione tra l’autore della violazione (che subisce il procedimento penale) e la società, l’ente o la persona fisica nel cui interesse il primo ha agito (che, in quanto soggetto passivo dell’imposta, è il destinatario della ripresa impositiva oggetto di impugnazione in sede fiscale) (Cass., sez. trib., ord. 4 marzo 2025, n. 5714, punto 8.6.1.: «Per completezza, giova comunque, a tale proposito, rilevare che, secondo la ricostruzione operata dall’opposto orientamento [quello estensivo – n.d.r.], gli effetti della sentenza penale irrevocabile di assoluzione nei termini di cui all’art. 21-bis cit. si riverberano non solo sul rapporto impositivo, ma sul conseguente trattamento sanzionatorio, e quindi ben potrebbe giustificarsi, in tale ottica, il dato letterale evidenziato»).
A tal riguardo, si osserva che è, anzi, proprio in virtù di tale richiamo che a fortiori si dovrebbe desumere una configurazione del giudicato extra-penale estesa all’accertamento dell’imposta (v., in dottrina, Carinci A., “Quer pasticciaccio brutto” dell’art. 21-bis del D.lgs. n. 74 del 2000, cit., 1423, secondo cui «[n]on a caso, quando l’art. 21-bis, al comma 3, prevede che l’effetto di giudicato vale anche per il contribuente e non solo per chi lo rappresenta (che ha subìto il processo penale), è chiaro che intenda che far valere detto giudicato anche per le imposte, proprio perché il rappresentato è l’unico chiamato a pagarle»).
Inoltre, nel ventaglio di letture costituzionalmente orientate ricavabili dalla disposizione in parola, quest’ultima sembra certamente da respingere.
La norma risultante dalla disposizione di cui al terzo comma – di per sé non contrastante con la legge delega, nonostante non trovi in essa un espresso addentellato – non potrebbe sfuggire ad una censura di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 76 Cost., qualora le si potesse attribuire una tale portata limitatrice, non contemplata dal legislatore delegante. Laddove, infatti, fosse consentito attribuire all’alinea un significato che restringa a tal punto il raggio di applicazione dell’art. 21-bis, si incorrerebbe in un manifesto eccesso di delega, dal momento che una simile interpretazione sarebbe il risultato di un’operazione esegetica fondata su un enunciato non risultante dal disegno originario della legge delega.
In ultima analisi, quanto alla seconda questione controversa, offrono interessanti spunti teorici alcune riflessioni condotte dalla dottrina processual-penalistica, la quale si è, similmente, interrogata sulla valenza da attribuire, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., alla sentenza assolutoria per insufficienza di prove nel giudizio extra-penale non risarcitorio (cfr. Iafisco L., Osservazioni in tema di accertamento “dubbioso”, efficacia in altri giudizi ex artt. 654 c.p.p. e uso come prova della sentenza penale irrevocabile, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 2, 586 ss.; Garofalo G., La diversificazione degli standard di prova nel processo penale e nel rapporto fra giurisdizioni, in Cass. pen., 2020, 10, 3882 ss., spec. 3905; Fiorelli G., Il giudicato penale assolutorio per insufficienza di prove: quale efficacia negli «altri» giudizi civili?, in Lupària L. – Marafioti L. – Paolozzi G., a cura di, Processo penale e processo civile: interferenze e questioni irrisolte, Atti del Convegno del 2 dicembre 2019 presso Università degli Studi “Roma Tre”, Torino, 2020, 125 ss.).
Nella specie, ponendo l’accento sulla vincolatività, disposta dal comando normativo, dei “fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale” e riportando la questione su un piano squisitamente probatorio (v. Garofalo G., La diversificazione degli standard di prova nel processo penale e nel rapporto fra giurisdizioni, cit., 3907), la richiamata dottrina sottolinea la circostanza per cui «l’insufficienza probatoria attinente al complessivo compendio sul quale il giudice penale è chiamato a pronunciarsi, ricollegato al rigoroso standard che presidia la prova della colpevolezza, non si rinfrang[e] automaticamente sull’intera gamma degli accadimenti storici» (Garofalo G., op. cit., 3908-3909). Al contrario, è ben possibile che «la valutazione atomistica del giudice penale abbia condotto ad accertamenti su singole circostanze fattuali, che, sebbene non sufficienti a supportare il verdetto di condanna, abbiano, comunque, raggiunto un congruo livello di conferma probatoria, rilevante in sedi giurisdizionali diverse […]» (ibidem).
Tale dottrina propugna, quindi, la spendibilità dei singoli enunciati fattuali contenuti nella pronuncia assolutoria “dubitativa”, operando una sorta di parcellizzazione degli accertamenti in fatto contenuti nella sentenza penale. Ciò consentirebbe di avere riguardo, caso per caso, alla sussistenza di elementi rilevanti per il giudizio tributario, senza arrestarsi al mero dato per cui, globalmente, l’istruttoria non ha consentito di pervenire ad una condanna dell’imputato.
4. L’intervento normativo che, ad appena un anno dalla sua entrata in vigore, si colloca al centro del contrasto interpretativo rilevato dall’ordinanza in commento, si inserisce in un sistema processuale ancora governato dal doppio binario, nel cui ambito immette una regola che – più che riferirsi al giudicato stricto sensu, afferente ai rapporti giuridici, qui non sovrapponibili – assume i tratti di un criterio di valutazione (vincolata) dei fatti storici rivolto al giudice tributario (allo stesso modo, Cordero F., Procedura penale, IX ed., Milano, 2012, 1231, inquadra l’effetto vincolante previsto dall’art. 654 c.p.p. «come prova legale più che res iudicata: infatti, risale alle premesse storiche, non rilevabili dal solo dispositivo»).
Dalla soluzione interpretativa restrittiva, probabilmente dettata, come rileva attenta dottrina, dalla necessità di impedire, nel caso di specie, l’estensione di una pronuncia penale dagli snodi opachi e poco argomentata (Ingrao G., con postilla di Lupi R.), Sui retroscena processuali della sentenza di Cassazione n. 3800/2025: una reazione ad una assoluzione penale sbrigativa e mal motivata?, in Riv. tel. dir. trib., 2025, 1 e pubblicato online il 29 marzo 2025, www.rivistadirittotributario), finanche non passata in giudicato, trapela il timore di un ritorno a quella sistematica giurisdizionale piegata ad una logica inquisitoria, che vedeva il processo penale come portatore di «quell’unica “verità di Stato” non suscettibile di essere smentita in altra sede giurisdizionale» (Guidi D., I rapporti tra processo penale e processo tributario ad oltre dieci anni di distanza dal d.lgs. n. 74 del 2000, in Dir. pen. proc., 2012, 11, 1384 ss., spec. 1386).
Nello sforzo di mantenere saldo in capo al giudice tributario il dominio sulla determinazione di quale debba essere la “giusta imposta”, perseguito tramite il tentativo di perimetrare l’efficacia del giudicato penale nel processo tributario limitatamente al trattamento sanzionatorio, l’indirizzo restrittivo finisce, però, per tramutarsi in una vera e propria eterogenesi dei fini. Si scivola, così, in un paradosso processuale – efficacemente denominato “doppio biario tribuario” (Migazzi M. – De Nicola M., Dalla Cassazione uno stop alla riforma fiscale: sentenze penali di assoluzione efficaci solo per le sanzioni, in Quotidiano Ipsoa, 7 marzo 2025) o, anche, “triplo binario” (Salvati A., Innocenti evasori: la Cassazione verso il triplo binario [e oltre]. Osservazioni a Cass., Sez. V, 14 febbraio 2025, n. 3800, in Riv. tel. dir. trib. Supp. online, 20 febbraio 2025) – nel quale il giudice tributario, ammesso a discostarsi dall’accertamento penale in relazione a fatti rilevanti ai fini impositivi, non potrebbe, invece, sottrarsi al vincolo derivante dalla pronuncia dibattimentale assolutoria nella disapplicazione delle sanzioni; disapplicazione, peraltro, che non emerge dal tenore letterale della disposizione e che non potrebbe configurarsi quantomeno nella casistica sopra esaminata.
A persuadere del fatto che la ratio ispiratrice della novella fosse quella di garantire, in generale, l’ingresso degli esiti accertativi già raggiunti del procedimento penale nel processo tributario avente ad oggetto la cognizione dei medesimi fatti materiali sono proprio le numerose cautele di cui il legislatore ha corredato l’art. 21-bis.
Se, infatti, la disposizione fosse stata concepita al solo fine di determinare la caducazione delle sanzioni amministrative, non si comprenderebbe, a questo punto, il mancato riconoscimento di pari efficacia ad altre tipologie di provvedimenti decisori, caratterizzate da un minor grado di attività ricostruttiva-istruttoria (rispetto all’istruzione dibattimentale), ma dotate di una portata dimostrativa persino più intensa quanto all’inesistenza di responsabilità penale del contribuente (come il provvedimento di archiviazione) (così, Salvati A., Riflessioni sulla mancata considerazione del ruolo dell’archiviazione nel decreto legislativo sulle sanzioni tributarie, in Riv. trim. dir. trib., 2024, 3, 546; si fa riferimento, beninteso, a tutte le richieste di archiviazione che implicano, direttamente o indirettamente, l’infondatezza oggettiva della notizia di reato, anche solo per insufficienza di elementi idonei a formulare una ragionevole previsione di condanna, fatte, invece, salve le ipotesi fondate su motivi procedurali o formali ovvero quelle che comunque esulano da una valutazione sul merito, come, ad esempio, le ipotesi di cui all’art. 411 c.p.p.). Diversamente, limitando l’efficacia di giudicato ai soli accertamenti in fatto che costituiscono la premessa di una pronuncia assolutoria con formula piena, emessa all’esito del giudizio dibattimentale e sui quali si sia formato il giudicato, il legislatore della riforma si è premurato di assegnare vincolatività esterna ai soli riscontri fattuali dotati di un alto grado di attendibilità.
Le pur suggestive argomentazioni sostenute dall’orientamento restrittivo, nelle conclusioni a cui pervengono, sembrano spingersi oltre il dato normativo, non risultando pienamente idonee ad erodere il significato che il legislatore della riforma ha inteso imprimere all’enunciato.
Ciononostante, le riserve manifestate dai sostenitori dell’impostazione restrittiva non revocano in dubbio l’accordo circa l’infelice costruzione della disposizione in esame.
L’ambiguità della formulazione della disposizione circa il suo ambito applicativo, unita alle evidenziate criticità – rappresentate dall’omesso richiamo alla sentenza di condanna, in violazione del canone processuale della “parità delle armi”, e dall’attribuzione di forza vincolante a fatti materiali alla cui formazione della relativa prova l’Amministrazione potrebbe non aver concorso – rendono plausibile l’adozione, da parte della Corte costituzionale, di una sentenza “additiva” di accoglimento (tramite le quali la Consulta dichiara l’incostituzionalità della disposizione oggetto di rimessione nella parte in cui non prevede un elemento indispensabile a renderla conforme al dettato costituzionale, che il legislatore ha trascurato di prevedere e che non sia ricavabile in via ermeneutica dall’enunciato normativo) o, con ogni probabilità, “monitoria” (qualora non possa intervenire con una pronuncia additiva o sostitutiva senza rischiare di invadere la sfera di discrezionalità legislativa, il Giudice delle leggi può adottare tale tipologia di pronuncia, per mezzo della quale, allo scopo di evitare una declaratoria di incostituzionalità, rigetta la questione, formulando, al contempo, un monito nei confronti del legislatore affinché intervenga senza indugio con le modifiche normative necessarie a ricondurre la disposizione ai valori costituzionali).
Prendendo in esame analoghe disposizioni (come gli artt. 651, 651-bis, 652 e 654 c.p.p.), si osserva invero che, affinché gli accertamenti del giudice penale possano esplicare effetti extra-penali, è richiesto che il soggetto su cui ricade l’accertamento in fatto ivi compiuto abbia partecipato (o, comunque, sia stato posto in condizione di partecipare) al relativo giudizio. In caso contrario, il giudice civile o amministrativo procederà autonomamente alla ricostruzione del fatto materiale alla cui prova dell’esistenza o inesistenza la parte non abbia potuto fornire alcun apporto conoscitivo.
Va da sé che, nelle residuali ipotesi in cui l’ente impositore – reso ope legis edotto dell’avvio del procedimento penale, giusta le sopra citate disposizioni – abbia i requisiti per costituirsi parte civile, essendo in grado di dimostrare di aver patito un ulteriore danno da “perdita del credito erariale” (il quale non può coincidere con l’ammontare del tributo evaso e si sostanzia nel “maggior danno” ex art. 1224, comma 2, c.c., sopportato dall’Amministrazione finanziaria in conseguenza della perdita della possibilità di ottenere il recupero del tributo evaso ricorrendo agli ordinari strumenti di azione esecutiva nei confronti del contribuente, che con la propria condotta abbia impedito la riscossione del credito erariale, per il maturare dei termini di decadenza o di prescrizione o per altra causa, o che abbia un patrimonio incapiente: cfr. Cass. civ., Sez. Un., 12 ottobre 2022, n. 29862), in conseguenza di un’evasione che integri gli estremi del reato contestato, verrà, allora, soddisfatta l’esigenza di garantire la pienezza del contraddittorio, non profilandosi alcun sacrificio dell’effettività del diritto di difesa.
Le maggiori difficoltà emergono in difetto di tale maggior pregiudizio, che avrebbe l’effetto di precludere l’intervento dell’Agenzia fiscale nel processo penale, non apparendo, a tal fine, soddisfacente la mera partecipazione dell’Amministrazione nel giudizio fiscale (servendoci delle parole di A. Castagnola A., L’accertamento dei fatti fuori dal giudizio, Atti del XXXII Convegno nazionale della Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile su Lo statuto del giudice e l’accertamento dei fatti di Messina del 27-28 settembre 2019, in Riv. dir. proc., 2020, 3, 981 ss., spec. 997, tale forma di interlocuzione costituirebbe «una sorta di “recupero postumo”: altro è infatti la possibilità di contribuire alla formazione della prova, altro è quella di limitarsi a contraddire sulla valutazione della prova ormai formata. A tutto voler concedere, la possibilità data alla parte in questo caso – soprattutto se la prova rifluisce nel giudizio ricevente mediante una sentenza – pare assimilabile più ad una attività svolta in sede di impugnazione, che ad una attività di partecipazione concreta ed effettiva»).
Per tentare di riequilibrare le prerogative dei legittimi contraddittori del giudizio tributario, si potrebbe ipotizzare il riconoscimento alla parte pubblica del processo tributario della possibilità di fornire una “prova di resistenza” (elaborata in via pretoria, con riferimento ad altri istituti, nelle more dell’intervento del legislatore), dimostrando che, qualora la medesima fosse stata posta in condizione di partecipare al giudizio penale, avrebbe potuto determinare, attraverso le proprie allegazioni, una diversa ricostruzione delle risultanze fattuali penali su cui si basa l’esito assolutorio, così da impedirne l’ingresso.
Ferma restando la lettura proposta nelle precedenti pagine, non pare, inoltre, possibile prescindere da un necessario correttivo in ordine alla sopravvivenza delle presunzioni legali, posto che, rispetto ad esse, permane un disallineamento nel raffronto tra i sistemi probatori vigenti nei due plessi giurisdizionali (Marcheselli A., op. cit.).
La regolamentazione della valenza del giudicato penale nel processo tributario, a causa delle notevoli ricadute pratiche di cui è capace, avrebbe imposto, in definitiva, una soluzione normativa connotata da maggiore cautela, abbinata ad una compiuta ridefinizione dei rapporti tra i due processi e senza trascurare di chiarire il rapporto con le presunzioni legali, così da prevenire ambiguità interpretative e ricostruzioni che ripropongono sistemi sbilanciati dall’una o dall’altra parte.
(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
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– fornire il servizio e/o prodotto richiesto dall’utente, per rispondere ad una richiesta dell’utente, e per assicurare e gestire la partecipazione a manifestazioni e/o promozioni a cui l’utente ha scelto di aderire (richiesta e acquisto abbonamento periodici; richiesta e acquisto libri; servizio di fatturazione; invio periodici in abbonamento postale, invio newsletter rivolte a studiosi e professionisti).
– inviare newsletter promozionale di pubblicazioni a chi ne ha fatto richiesta; ferma restando la possibilità per l’utente di opporsi all’invio di tali invii in qualsiasi momento.
– inviare all’utente informazioni promozionali riguardanti servizi e/o prodotti della Società di specifico interesse professionale ed a mandare inviti ad eventi della Società e/o di terzi; resta ferma la possibilità per l’utente di opporsi all’invio di tali comunicazioni in qualsiasi momento.
– gestire dati indispensabili per espletare l’attività della società: clienti, fornitori, dipendenti, autori. Pacini Editore srl tratta i dati personali dell’utente per adempiere a obblighi derivanti da legge, regolamenti e/o normativa comunitaria.
– gestire i siti web e le segreterie scientifiche per le pubblicazioni periodiche in ambito medico-giuridico rivolte a studiosi e professionisti;
Conservazione dei dati
Tutti i dati di cui al successivo punto 2 verranno conservati per il tempo necessario al fine di fornire servizi e comunque per il raggiungimento delle finalità per le quali i dati sono stati raccolti, e in ottemperanza a obblighi di legge. L’eventuale trattamento di dati sensibili da parte del Titolare si fonda sui presupposti di cui all’art. 9.2 lett. a) del GDPR.
Il consenso dell’utente potrà essere revocato in ogni momento senza pregiudicare la liceità dei trattamenti effettuati prima della revoca.
Tipologie di dati personali trattati
La Società può raccogliere i seguenti dati personali forniti volontariamente dall’utente:
nome e cognome dell’utente,
il suo indirizzo di domicilio o residenza,
il suo indirizzo email, il numero di telefono,
la sua data di nascita,
i dettagli dei servizi e/o prodotti acquistati.
La raccolta può avvenire quando l’utente acquista un nostro prodotto o servizio, quando l’utente contatta la Società per informazioni su servizi e/o prodotti, crea un account, partecipa ad un sondaggio/indagine. Qualora l’utente fornisse dati personali di terzi, l’utente dovrà fare quanto necessario perchè la comunicazione dei dati a Pacini Editore srl e il successivo trattamento per le finalità specificate nella presente Privacy Policy avvengano nel rispetto della normativa applicabile, (l’utente prima di dare i dati personali deve informare i terzi e deve ottenere il consenso al trattamento).
La Società può utilizzare i dati di navigazione, ovvero i dati raccolti automaticamente tramite i Siti della Società. Pacini editore srl può registrare l’indirizzo IP (indirizzo che identifica il dispositivo dell’utente su internet), che viene automaticamente riconosciuto dal nostro server, pe tali dati di navigazione sono utilizzati al solo fine di ottenere informazioni statistiche anonime sull’utilizzo del Sito .
La società utilizza i dati resi pubblici (ad esempio albi professionali) solo ed esclusivamente per informare e promuovere attività e prodotti/servizi strettamente inerenti ed attinenti alla professione degli utenti, garantendo sempre una forte affinità tra il messaggio e l’interesse dell’utente.
Trattamento dei dati
A fini di trasparenza e nel rispetto dei principi enucleati dall’art. 12 del GDPR, si ricorda che per “trattamento di dati personali” si intende qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione. Il trattamento dei dati personali potrà effettuarsi con o senza l’ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati e comprenderà, nel rispetto dei limiti e delle condizioni posti dal GDPR, anche la comunicazione nei confronti dei soggetti di cui al successivo punto 7.
Modalità del trattamento dei dati: I dati personali oggetto di trattamento sono:
trattati in modo lecito e secondo correttezza da soggetti autorizzati all’assolvimento di tali compiti, soggetti identificati e resi edotti dei vincoli imposti dal GDPR;
raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, e utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi;
esatti e, se necessario, aggiornati;
pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o successivamente trattati;
conservati in una forma che consenta l’identificazione dell’interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati;
trattati con il supporto di mezzi cartacei, informatici o telematici e con l’impiego di misure di sicurezza atte a garantire la riservatezza del soggetto interessato cui i dati si riferiscono e ad evitare l’indebito accesso a soggetti terzi o a personale non autorizzato.
Natura del conferimento
Il conferimento di alcuni dati personali è necessario. In caso di mancato conferimento dei dati personali richiesti o in caso di opposizione al trattamento dei dati personali conferiti, potrebbe non essere possibile dar corso alla richiesta e/o alla gestione del servizio richiesto e/o alla la gestione del relativo contratto.
Comunicazione dei dati
I dati personali raccolti sono trattati dal personale incaricato che abbia necessità di averne conoscenza nell’espletamento delle proprie attività. I dati non verranno diffusi.
Diritti dell’interessato.
Ai sensi degli articoli 15-20 del GDPR l’utente potrà esercitare specifici diritti, tra cui quello di ottenere l’accesso ai dati personali in forma intelligibile, la rettifica, l’aggiornamento o la cancellazione degli stessi. L’utente avrà inoltre diritto ad ottenere dalla Società la limitazione del trattamento, potrà inoltre opporsi per motivi legittimi al trattamento dei dati. Nel caso in cui ritenga che i trattamenti che Lo riguardano violino le norme del GDPR, ha diritto a proporre reclamo all’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali ai sensi dell’art. 77 del GDPR.
Titolare e Responsabile per la protezione dei dati personali (DPO)
Titolare del trattamento dei dati, ai sensi dell’art. 4.1.7 del GDPR è Pacini Editore Srl., con sede legale in 56121 Pisa, Via A Gherardesca n. 1.
Per esercitare i diritti ai sensi del GDPR di cui al punto 6 della presente informativa l’utente potrà contattare il Titolare e potrà effettuare ogni richiesta di informazione in merito all’individuazione dei Responsabili del trattamento, Incaricati del trattamento agenti per conto del Titolare al seguente indirizzo di posta elettronica: privacy@pacinieditore.it. L’elenco completo dei Responsabili e le categorie di incaricati del trattamento sono disponibili su richiesta.
Ai sensi dell’art. 13 Decreto Legislativo 196/03 (di seguito D.Lgs.), si informano gli utenti del nostro sito in materia di trattamento dei dati personali.
Quanto sotto non è valido per altri siti web eventualmente consultabili attraverso i link presenti sul nostro sito.
Il Titolare del trattamento
Il Titolare del trattamento dei dati personali, relativi a persone identificate o identificabili trattati a seguito della consultazione del nostro sito, è Pacini Editore Srl, che ha sede legale in via Gherardesca 1, 56121 Pisa.
Luogo e finalità di trattamento dei dati
I trattamenti connessi ai servizi web di questo sito hanno luogo prevalentemente presso la predetta sede della Società e sono curati solo da dipendenti e collaboratori di Pacini Editore Srl nominati incaricati del trattamento al fine di espletare i servizi richiesti (fornitura di volumi, riviste, abbonamenti, ebook, ecc.).
I dati personali forniti dagli utenti che inoltrano richieste di servizi sono utilizzati al solo fine di eseguire il servizio o la prestazione richiesta.
L’inserimento dei dati personali dell’utente all’interno di eventuali maling list, al fine di invio di messaggi promozionali occasionali o periodici, avviene soltanto dietro esplicita accettazione e autorizzazione dell’utente stesso.
Comunicazione dei dati
I dati forniti dagli utenti non saranno comunicati a soggetti terzi salvo che la comunicazione sia imposta da obblighi di legge o sia strettamente necessario per l’adempimento delle richieste e di eventuali obblighi contrattuali.
Gli incaricati del trattamento che si occupano della gestione delle richieste, potranno venire a conoscenza dei suoi dati personali esclusivamente per le finalità sopra menzionate.
Nessun dato raccolto sul sito è oggetto di diffusione.
Tipi di dati trattati
Dati forniti volontariamente dagli utenti
L’invio facoltativo, esplicito e volontario di posta elettronica agli indirizzi indicati su questo sito comporta la successiva acquisizione dell’indirizzo del mittente, necessario per rispondere alle richieste, nonché degli eventuali altri dati personali inseriti nella missiva.
Facoltatività del conferimento dei dati
Salvo quanto specificato per i dati di navigazione, l’utente è libero di fornire i dati personali per richiedere i servizi offerti dalla società. Il loro mancato conferimento può comportare l’impossibilità di ottenere il servizio richiesto.
Modalità di trattamento dei dati
I dati personali sono trattati con strumenti manuali e automatizzati, per il tempo necessario a conseguire lo scopo per il quale sono stati raccolti e, comunque per il periodo imposto da eventuali obblighi contrattuali o di legge.
I dati personali oggetto di trattamento saranno custoditi in modo da ridurre al minimo, mediante l’adozione di idonee e preventive misure di sicurezza, i rischi di distruzione o perdita, anche accidentale, dei dati stessi, di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta.
Diritti degli interessati
Ai soggetti cui si riferiscono i dati spettano i diritti previsti dall’art. 7 del D.Lgs. 196/2003 che riportiamo di seguito:
1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile.
2. L’interessato ha diritto di ottenere informazioni:
a) sull’origine dei dati personali;
b) sulle finalità e modalità del trattamento;
c) sulla logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici;
d) sugli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2;
e) sui soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati.
3. L’interessato ha diritto di ottenere:
a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati;
b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati;
c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato.
4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:
a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta;
b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.
Dati degli abbonati
I dati relativi agli abbonati sono trattati nel rispetto delle disposizioni contenute nel D.Lgs. del 30 giugno 2003 n. 196 e adeguamenti al Regolamento UE GDPR 2016 (General Data Protection Regulation) a mezzo di elaboratori elettronici ad opera di soggetti appositamente incaricati. I dati sono utilizzati dall’editore per la spedizione della presente pubblicazione. Ai sensi dell’articolo 7 del D.Lgs. 196/2003, in qualsiasi momento è possibile consultare, modificare o cancellare i dati o opporsi al loro utilizzo scrivendo al Titolare del Trattamento: Pacini Editore Srl – Via A. Gherardesca 1 – 56121 Pisa. Per ulteriori approfondimenti fare riferimento al sito web http://www.pacinieditore.it/privacy/
Subscriber data
Subscriber data are treated according to Italian law in DLgs, 30 June 2003, n. 196 as updated with the UE General Data Protection Regulation 2016 – by means of computers operated by specifically responsible personnel. These data are used by the Publisher to mail this publication. In accordance with Art. 7 of the above mentioned DLgs, 30 June 2003, n. 196, subscribers can, at any time, view, change or delete their personal data or withdraw their use by writing to Pacini Editore S.r.L. – Via A. Gherardesca 1, 56121 Ospedaletto (Pisa), Italy. For further information refer to the website: http://www.pacinieditore.it/privacy/
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