Aiuti di Stato e Terzo Settore: la Comfort Letter della Commissione

Di Daniele Canè -

Abstract (*)

All’esito della pre-notifica, la Commissione ha escluso il carattere selettivo di alcune norme fiscali relative al Terzo Settore e, con esso, l’applicabilità del divieto di aiuti di Stato. Lo statuto di questi enti non sarebbe, secondo la Commissione, comparabile a quello degli enti lucrativi, alla luce dello scopo della disciplina tributaria. Si ricostruisce il selectivity test applicato dalla Commissione, se ne esaminano i passaggi critici e se ne considerano alcune implicazioni, anche in vista dei prossimi interventi di riforma.

State Aid and Third Sector: the Commission’s Comfort Letter – Following the pre-filing, the Commission ruled out the selectivity of certain tax rules for the Third Sector, thus disengaging the state aid ban. These entities are in a legal and factual situation that is not comparable to that of for-profit entities, considering the object and purpose of the income tax. The selectivity test applied by the Commission is critically examined and its possible implications are considered, also in view of upcoming reforms.

Sommario: 1. La pre-notifica e le misure interessate. – 2. Loro non selettività secondo la Commissione. – 3. Il selectivity test e il contesto normativo di riferimento. – 4. Natura ordinaria, non agevolativa, della disciplina di ETS e imprese sociali. – 5. Dal giudizio di selettività a quello di uguaglianza. – 6. Libertà sociali, solidarietà e sussidiarietà v. Mercato unico: incompatibilità di fondo?

1. È noto come l’applicabilità delle principali norme fiscali, contenute nel Codice del Terzo Settore, fosse condizionata all’autorizzazione della Commissione, ai sensi dalla normativa sugli aiuti di Stato, e come i contatti istituzionali fossero in corso da tempo. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali aveva in effetti già dal 2017 sottoposto alla Commissione le norme contenute negli artt. 79, comma 2-bis, 80 e 86, D.Lgs. n. 117/2017, e nell’art. 18 D.Lgs. n. 112/20171.

Il 7 marzo, la Commissione ha comunicato di aver escluso il carattere selettivo di quelle misure e, con esso, l’apertura di una procedura di valutazione.

Non essendo pervenuta l’autorizzazione prevista dalla prima formulazione dell’art. 104, comma 2, D.Lgs. n. 117/2017, l’art. 8 D.L. n. 84/2025, ha successivamente eliminato quel riferimento, facendo decorrere l’applicabilità delle misure in questione dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2025.

Per la sua rilevanza, la vicenda stimola considerazioni su più piani – a partire dall’osservazione che all’autorizzazione inizialmente prevista è subentrata una valutazione “informale” e non preclusiva di ulteriori indagini, su cui il Governo ha comunque fatto affidamento (sulla precarietà della pre-notifica, v. Comunicazione della Commissione C/2025/2810).

Ve ne è uno che merita però sviluppare, in vista dell’attuazione della delega fiscale, perché tocca le ragioni di un confronto istituzionale che mette in gioco la stessa riforma del Terzo Settore. Vediamo.

2. Stando al testo della lettera – non si rinvengono altri documenti, data la riservatezza che circonda la pre-notifica – la Commissione avrebbe preso atto del peculiare regime giuridico degli enti del Terzo Settore, che li distingue dagli enti lucrativi: come noto, i primi devono svolgere, in via esclusiva o prevalente, una delle attività di interesse generale individuate dalla legge, e non possono distribuire utili, né avanzi di gestione (artt. 5 e 8 D.Lgs. n. 117/2017). Non sarebbero peraltro “liberi di realizzare utili”, se non marginalmente, nei limiti posti dal comma 2-bis dell’art. 79. Solo se si qualificano come enti non commerciali, secondo le disposizioni dell’art. 79, accedono alla determinazione forfettaria dei redditi da attività d’impresa secondarie, ex artt. 80 e 86.

La Commissione rileva poi come proprio la destinazione vincolata degli utili alle attività di interesse generale, o ad incremento del patrimonio, giustificherebbe l’esenzione riconosciuta alle imprese sociali – pur con le eccezioni dell’art. 18 D.Lgs. n. 112/2017.

Se ne desume che, tanto per gli enti soggetti al D.Lgs. n. 117/2017, quanto per le imprese sociali, i benefici riguarderebbero i soli redditi vincolati alle attività di interesse generale e come tali non posseduti, ai sensi della norma che definisce il presupposto dell’IRES (art. 72 D.P.R. n. 917/1986).

Letto alla luce della giurisprudenza Paint-Graphos, che aveva appunto valorizzato vincoli analoghi per le cooperative, e dei più recenti arresti Fiat, Engie ed Apple, questa normativa porrebbe ETS e imprese sociali in una situazione giuridica e fattuale diversa da quella degli enti a scopo di lucro – che possono fra l’altro liberamente disporre del reddito prodotto – e, come tale, non paragonabile, in relazione allo scopo dell’imposizione reddituale.

Le misure esaminate non sarebbero perciò selettive e non costituirebbero aiuto di Stato, secondo la nozione ricavabile dall’art. 107 TFUE («aiuti, concessi dagli Stati o mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsano o minacciano di falsare la concorrenza, nella misura in cui incidono sugli scambi tra gli Stati membri»).

3. L’analisi della Commissione segue uno schema convalidato dalla pressoché costante giurisprudenza della Corte di Giustizia (almeno dalla sent. Commissione c. Italia, causa 173/73, e, tra le altre, da: Commissione c. Portogallo, sent. 6 settembre 2006, causa C-88/03, punto 56; Corte Giustizia CE, sent. 8 novembre 2001, causa C-143/99, Adria-Wien Pipeline, punto 41; Id., sent. 8 settembre 2011, cause riunite C-78/08 e C-80/08, Paint Graphos; Id., sent. 21 dicembre 2016, cause riunite C-20/15 P e C-21/15 P, World Duty Free).

Individuato l’aiuto, ossia un vantaggio economico che può ben consistere in una riduzione impositiva, e l’impresa che ne beneficia, se ne verifica la selettività in base a un test strutturato in tre fasi: a) la definizione del quadro normativo di riferimento, che dovrebbe individuare il regime ordinario; b) la verifica del carattere derogatorio della norma esaminata, ossia se essa introduca differenziazioni tra imprese che si trovano, rispetto all’obiettivo delle norme di riferimento, in una situazione fattuale e giuridica analoga; c) la giustificazione della deroga, ossia la sua coerenza con la “natura o la struttura generale” del sistema di cui è parte – la cui mancanza conferma appunto la selettività dell’aiuto.

Il selectivity test costituisce il vero “argine” rispetto a un’applicazione assai ampia del divieto, favorita da un’interpretazione estensiva delle nozioni di impresa e aiuto2. L’interpretazione prevalente sembra infatti presupporre che i sistemi impositivi rispondano a un modello teorico (e per lo più ideale), che richiederebbe la tassazione indifferenziata di tutte le fattispecie riconducibili al presupposto – rispetto alla quale qualsiasi riduzione offre naturalmente un vantaggio, quale che ne sia la forma e la natura della norma che l’istituisce3.

Si tratta di una impostazione nient’affatto neutrale rispetto a ordinamenti, come quelli tributari, che non riproducono modelli ideali e che, per la loro mutevolezza, si prestano sempre meno ad essere ricostruiti secondo un criterio normativo unitario. Un metodo come quello seguito dalla Commissione può quindi condurre a un quadro di riferimento che o non riflette il diritto vigente, o risulta talmente ampio da servire a poco – potendo ogni riduzione impositiva presentarsi, potenzialmente, come derogatoria, rispetto a una norma di generale e uniforme imposizione. Per questo, si è talora “integrato” l’ordinamento esaminato con fonti ad esso estranee – operazione tuttavia respinta nelle sentenze Fiat, Engie ed Apple (Corte Giustizia UE, sent. 8 novembre 2022, cause riunite C-885/19 P e C-898/19 P, Fiat, punto 69; Id., 5 dicembre 2023, cause riunite C-451/ 21 P e C-454/21 P, Engie, punto 112; Id., sent. 10 settembre 2024, C-465/20 P, Apple, punti 75-81) – o, in altri casi, si è apprezzato l’effetto concreto della norma esaminata, come selettività di fatto (Corte Giustizia UE, sent. 15 novembre 2011, cause riunite C-106/ 09 P e C-107/09 P, Gibilterra4).

La seconda fase del test si concentra sull’adeguatezza della ratio distinguendi, che la norma derogatoria deve possedere per non determinare ingiustificate discriminazioni (come nel giudizio trilatero di uguaglianza).

Ma il riferimento a un tertium tanto esteso, da riportare a quella regola di uniforme tassazione, di cui si diceva, amplia il novero delle fattispecie potenzialmente comparabili e derogatorie, e immette quasi automaticamente nell’ultima fase del test, ossia nel – diverso – giudizio sulla coerenza della norma rispetto al sistema di cui è parte, che riporta alle ragioni che la giustificano. E, tra le giustificazioni ammesse, non si comprendono quelle estranee alla struttura e alla dinamica del prelievo, come se la definizione delle fattispecie impositive e degli aspetti strutturali del tributo non fosse frutto di valutazioni che considerano anche altri obiettivi – ciò che non consente di ricostruire in termini unitari lo “scopo” di un sistema impositivo5. Emerge insomma una concezione “neutrale” dell’imposta, a tutela della concorrenza.

Ora, la scelta di metodo risulta in queste condizioni dirimente: aver definito il regime ordinario con riferimento a una certa interpretazione della norma sul presupposto impositivo, spiega come la Commissione abbia potuto limitarsi a rilevare la non comparabilità tra ETS e imprese lucrative (come nel caso Paint Graphos, citato là dove esclude la comparabilità tra cooperative e imprese lucrative). L’opzione per un’interpretazione che implichi la libera disponibilità del reddito ha consentito di valorizzare un elemento in effetti comune a ETS e imprese sociali, il vincolo legale di destinazione degli utili, che li distingue entrambi dalle imprese lucrative. Sarebbe invece stato problematico giustificare un’eventuale deroga in base alla considerazione che questi enti non possono conseguire profitti – indicata nella precedente Comunicazione sulla nozione di aiuti di Stato (98/C 384/03, punto 35) – proprio perché una delle norme scrutinate contempla questa possibilità.

Non rilevano princìpi invece “esterni” al sistema tributario, come quello di sussidiarietà, che pure fondano lo statuto giuridico degli ETS, ma che non sarebbero stati probabilmente accolti come giustificazioni, né, ancor prima, a livello di «principi informatori o basilari inerenti al sistema di riferimento».

4. La dottrina era già pervenuta ad esiti simili valorizzando proprio il vincolo di destinazione degli utili, sancito dalla normativa sulle imprese sociali.

Si era osservato come questo elemento, collegato alle attività di interesse generale, conferisse alla ricchezza prodotta dagli ETS una valenza sociale: si tratterebbe di una forza economica priva di quei connotati egoistici che ne legittimano la tassazione, perché sin dall’origine destinata alla collettività, tramite attività che incomberebbero altrimenti allo Stato. Vi farebbe riscontro un risparmio di spesa pubblica, che lascerebbe apprezzare l’attività di questi enti come contribuzione “dal basso”, esplicazione dei princìpi di sussidiarietà orizzontale e solidarietà, appunto (Giovannini A., Dovere contributivo e terzo settore: una nuova lettura per armonizzare il sistema, in Giur. cost., 2022, 2, 852, che enfatizza un passaggio in Corte cost., sent. n. 72/2022).

Anche la Commissione nega che gli ETS possiedano il reddito prodotto, ma accedendo a un’interpretazione quantomeno opinabile del presupposto d’imposta.

La preferenza per una nozione di possesso, che implichi l’assenza di vincoli legali in ordine al suo impiego, non trova in effetti riscontro nell’ordinamento positivo, a partire dalla mancanza di una norma che escluda l’imponibilità delle somme destinate a riserva legale, pacificamente soggette all’imposta (sicché, in dottrina sono state elaborate diverse soluzioni interpretative, che implicano anche significative riformulazioni, mentre l’opinione prevalente fa come noto riferimento alla titolarità della fonte produttiva). L’eccezione prevista dall’art. 12 L. n. 904/1977, per le riserve indivisibili delle società cooperative, ha assunto una dimensione strutturale ulteriore, fondata su altri princìpi costituzionali (art. 45 Cost.), e non ha mutato la regola, tuttora nell’art. 143, comma 1, TUIR, per cui al reddito complessivo degli enti non commerciali concorrono tutti i redditi prodotti, a prescindere dal loro impiego. E lo stesso potrebbe dirsi per l’esenzione già prevista dall’art. 11 D.P.R. n. 601/1973, per i redditi delle cooperative di produzione e lavoro, che corrispondano ai propri soci retribuzioni non inferiori al 50% di tutti gli altri costi6.

Le non poche norme settoriali, che hanno arricchito questo quadro, hanno solo eccezionalmente escluso l’imponibilità dei redditi non distribuiti: è il caso dell’art. 8, comma 4, L. n. 266/1991, sul volontariato, recante l’esclusione dei proventi da attività commerciali marginali, se impiegati a fini istituzionali. Per lo più, il legislatore è intervenuto sull’elemento oggettivo del presupposto, escludendo la natura commerciale dell’attività-fonte del reddito e, di conseguenza, la sua imponibilità (la c.d. decommercializzazione accolta, ad esempio, per le attività istituzionali delle Onlus, ma ancor prima, e tra l’altro, dall’art. 29, comma 4, L. n. 49/1987, sulle ONG). La stessa riduzione impositiva, riconosciuta dal D.P.R. n. 601/1973, art. 6, che faceva premio sullo scopo dell’ente, è stata nell’applicazione giurisprudenziale circoscritta in ragione del carattere oggettivamente non commerciale dell’attività-fonte7.

Da un quadro così frammentario riesce quindi difficile trarre conclusioni univoche in ordine ad aspetti strutturali del tributo, che coinvolgono peraltro la stessa giustificazione dell’IRES. La posizione della Commissione presuppone infatti che gli ETS manifestino una propria capacità contributiva, diversa da quella degli individui, il che giustifica la previsione di un’imposta autonoma. Ma misure come appunto la non imponibilità dei redditi non distribuibili sono state spiegate anche, e proprio, negando quella capacità contributiva, e considerando l’imposta societaria un anticipo di quella personale – non potendosi applicare la quale, essa perderebbe la propria ragion d’essere.

Si può invece constatare che si è conservato fino ad oggi un sistema imperniato sulla rilevabilità oggettiva del reddito, nel complesso funzionale alla tassazione di tutto il reddito prodotto, a prescindere dal suo impiego (sulle ragioni di uguaglianza della tassazione di tutto il reddito prodotto, Griziotti B., Sulla imponibilità degli utili mandati a riserva, in Scritti in memoria di Angelo Majorana, Catania, 1914, 56, anche in Studi di scienza delle finanze e diritto finanziario, vol. I, Milano, 1956, 47; per le associazioni, vi sono anche ragioni di cautela fiscale: Fedele A., Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, 331-332).

La distinzione tra enti commerciali e non, secondo le modalità di gestione dell’attività, risponde a questo disegno, ed è stata impiegata per valorizzare elementi non immediatamente rilevanti sul piano della qualificazione dell’attività, ridefinendo di volta in volta l’area della commercialità (talora forzando la razionalità del quadro normativo, come accaduto con la decommercializzazione dell’attività istituzionale delle Onlus, che prescindeva dalle modalità di svolgimento: Fedele A., Introduzione, in Il regime fiscale delle associazioni, Padova, 1998).

Neanche la riforma del Terzo Settore sembra aver (per ora) messo in discussione questo assetto, poiché le misure valutate dalla Commissione restano riservate ai soli ETS non commerciali, secondo la nuova definizione dell’art. 79: ossia, proprio, e solo, a quegli enti non “liberi di conseguire un profitto” – vincolo che la comfort letter riferisce invece a tutti gli ETS. L’impossibilità di realizzare utili, in altre parole, connota solo una specie degli ETS, che per il resto in effetti condividono gli altri requisiti indicati nella lettera – su tutti, il divieto di distribuzione degli utili.

Questo vincolo è dunque uno degli elementi che concorre a definire la disciplina degli ETS, ma non il solo decisivo per il regime fiscale. L’aspetto che distingue gli ETS che accedono alle norme di favore si rinviene, invece, nell’elemento oggettivo della fattispecie, la non commercialità di un’attività principale programmata per non generare utili, e la cui definizione rappresenta la vera novità della riforma (finora, la si ricavava per esclusione dalla definizione di attività commerciale, nell’art. 55 TUIR).

Vengono al proposito in rilievo le norme che qualificano come non commerciali, dunque non produttive di redditi imponibili, le attività svolte a titolo gratuito, o a fronte di corrispettivi che non eccedano i costi, o che li superino ma entro un margine ragionevole (6%) e per non più di tre periodi consecutivi; e quella che lega la qualifica di ETS non commerciale alla prevalenza delle entrate da attività non commerciali8. Per l’effetto, la gestione programmata per pareggiare i costi non genera reddito d’impresa, nemmeno in isolati periodi di redditività; mentre il criterio di prevalenza delle fonti contributive o liberali, individuato dal comma 5 dell’art. 79, non esclude la percezione di corrispettivi specifici, e consente all’ente non commerciale di svolgere anche attività strutturalmente preordinate al profitto (ss. con ricavi superiori ai costi), purché restino quantitativamente, nel loro insieme, inferiori a quella (o quelle) di interesse generale – dunque, puramente funzionali al suo finanziamento.

Distinguendo in base alla composizione delle fonti di finanziamento dell’ente – e non alla previsione di corrispettivi specifici (art. 143, comma 1, ult. per.) – si è estesa rispetto al TUIR l’area della non commercialità – ossia, della irrilevanza fiscale – e la si è adattata a enti che perseguono sì fini ideali, ma secondo una logica di auto-finanziamento, che implica il reimpiego della ricchezza auto-prodotta. L’irrilevanza degli utili marginali assume in quest’ottica ratio strutturale, perché riguarda enti che si pongono fuori dalla logica dello scambio già per le caratteristiche dell’attività.

Le norme del CTS esprimono insomma una ratio unitaria, e definiscono un quadro normativo più specifico di quello ricavabile, in via generale, dalla norma sul presupposto impositivo, oltre che autonomo rispetto al TUIR, perché utilizza categorie proprie (la non commercialità, in primis). E ben se ne possono desumere relazioni articolabili secondo i tipi della deroga e della specialità, assumendo a norma generale proprio quella che definisce l’attività (e l’ente) non commerciale.

Queste norme intendono sottrarre all’imposizione particolari attività di interesse generale, che il legislatore ha ritenuto meritevoli di una disciplina apposita, perché rispondente a princìpi di solidarietà e sussidiarietà. Al di là della tecnica impiegata, riducibile a un’esclusione, esse sembrano esprimere una valutazione diversa da quella che ha ispirato la disciplina degli enti non commerciali, e risultano effettivamente derogate dalla sola previsione che decommercializza alcune attività in ragione delle finalità dell’ente che le svolge (art. 79, comma 3).

L’irrilevanza degli utili “marginali”, disposta dal comma 2-bis dell’art. 79, non deroga propriamente a questo assetto, bensì lo completa, evitando un’applicazione rigida del criterio quantitativo di cui al comma 59. Mentre la norma sulla determinazione forfettaria del reddito da attività commerciali non necessariamente comporta un vantaggio per l’ente che la applichi – il che potrebbe già chiudere il discorso: come tutte le predeterminazioni della base imponibile, il risparmio è eventuale ed emerge solo al termine del periodo d’imposta, da un raffronto con i componenti effettivi. Soprattutto, è riservata ad attività comunque “secondarie e strumentali”, rispetto a quelle che connotano nel complesso l’ente come non commerciale, le quali valgono a sottoporlo a una disciplina – e a una condizione giuridica e fattuale – diversa, come detto, da quelle degli enti non soggetti al CTS.

5. Se si considerano le norme del CTS come quadro di riferimento autonomo, retto da princìpi propri e perciò non derogatorio, si disattiva il test di selettività.

Resta comunque possibile condurre il raffronto sia all’interno degli ETS, dove sono in effetti enucleabili due classi – enti commerciali e non – la seconda delle quali non gode gli stessi benefici della prima10, sia all’esterno – secondo i canoni del giudizio di eguaglianza (che, quando riguarda istituti riconducibili a princìpi costituzionali, riconosce un grado di discrezionalità maggiore al legislatore: Corte cost., sent. n. 120/2020, punto 4.1).

Sul secondo versante, il confronto corre tra ETS non commerciali e imprese sociali, per le quali si prevede la non imponibilità delle sole somme non distribuite, nonostante rispettino i requisiti comuni a tutti gli ETS: divieto di distribuzione degli utili e attività di interesse generale svolta in via principale (art. 2 D.Lgs. n. 112/2017).

Se si ravvisa in questi elementi il fondamento comune delle norme di favore per tutti gli ETS e le imprese sociali, dovrebbe in effetti prospettarsi una discriminazione poco giustificabile, soprattutto tra ETS: per tutti, infatti, e non solo per quelli non commerciali, difetterebbe il possesso del reddito, e a tutti dovrebbero perciò essere accessibili le stesse misure di favore (v. Giovannini A., Terzo settore: il profitto sociale come nuovo genere di ricchezza, in Riv. dir. trib., 2022, 1, I, 37, che considera la disciplina delle imprese sociali come generale e quella degli ETS come speciale, rispetto ad elementi comuni a entrambi – attività di interesse generale e divieto di distribuzione degli utili – e che definirebbero una diversa manifestazione di capacità contributiva).

L’osservazione del profilo unitario dell’impresa sociale, e delle caratteristiche dei vari enti che possono accedervi, può però risolvere la differenziazione rispetto agli ETS su un piano di tecnica tributaria.

La decommercializzazione appariva (a ragion veduta) sconsigliabile rispetto ad attività oggettivamente commerciali, come quelle degli enti societari del Libro V, perché avrebbe disattivato quell’apparato di regole che consente una rilevazione oggettiva dei redditi prodotti dalle organizzazioni societarie. La non imponibilità delle sole somme non distribuite consentiva viceversa di sceverare la ricchezza indisponibile ai soci, perché vincolata, da quella disponibile e pienamente imponibile11.

Nella stessa prospettiva, la riproposizione della dicotomia enti commerciali e non sembra tesa ad escludere dall’imposizione enti strutturalmente preordinati a non produrre utili, se non episodicamente (e che, tipicamente, non svolgono attività d’impresa, a differenza delle imprese sociali). Le norme dei primi due commi dell’art. 79 esprimerebbero, in questo senso, una disciplina ordinaria, completata dall’opzione per il regime forfettario, che vorrebbe evitare a enti come questi i più onerosi adempimenti connessi al riconoscimento di un’attività d’impresa comunque secondaria. Esigenza che non si pone per enti che operano con logiche imprenditoriali, e che proprio perciò risultava più difficile sottrarre al divieto di aiuti di Stato.

Non imponibilità degli utili e de-commercializzazione dell’attività sarebbero insomma espressione di una stessa disciplina, tesa ad assicurare la non imposizione di redditi che, quando vi sono, non esprimono capacità contributiva: l’attività di imprese sociali ed ETS si pone infatti oltre il concorso doveroso alle spese pubbliche, perché comporta, come riconosce la sentenza n. 72/2022 della Corte costituzionale, compartecipazione alla cura di interessi pubblici (v. Canè D., Note critiche su agevolazioni tributarie e terzo settore, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2023, 3, I, 447, dove si discute l’idea che l’assunzione di attività di interesse generale realizzi un concorso alle spese pubbliche, poiché presuppone un’identificazione fra tre termini — prestazione, spesa pubblica e attività — logicamente, oltre che giuridicamente, distinti: il concorso alle spese pubbliche si pone prima – e permette la realizzazione – delle attività di interesse generale, e si attua con regole sue proprie, fra cui la doverosità, qui assente e non facilmente rinunciabile).

Se, quindi, si riconducono le norme riservate a ETS e imprese sociali a una stessa disciplina, viene meno l’ipotizzata discriminazione, mentre resta possibile sindacare la ragionevolezza di un criterio, quello della non commercialità, che introduce una differenziazione tra ETS tutti identicamente votati ad attività di interesse generale e sottoposti ai medesimi controlli pubblici, di cui agli artt. 90-97 (aspetto sottolineato anche da Corte cost., sent. n. 72/2022; più diffusamente, Costi R., Le linee portanti dell’ordinamento del terzo settore, in An. giur. econ., 2018, 1, 11).

E, a una prima osservazione, proprio la previsione di penetranti poteri di controllo potrebbe forse supplire alla carenza di un apparato documentale analogo a quello proprio dell’impresa, e permettere di rilevare con sufficiente affidabilità i redditi prodotti da tutti gli ETS, commerciali o meno.

6. Un cenno finale ad alcune implicazioni della posizione della Commissione, che conferma la difficoltà di recepire le ragioni dell’extra-fiscalità nel selectivity test.

Un giudizio così strutturato non intercetta infatti le complesse valutazioni sottese alle scelte legislative che compongono e bilanciano princìpi fiscali ed extrafiscali, e che concorrono a definire aspetti non marginali della disciplina dell’imposta sul reddito.

Lo si riscontra nell’adozione di una nozione ampia di aiuto e di impresa, la seconda delle quali prescinde dalle finalità dell’ente e guarda alle caratteristiche dell’attività e alla sua presenza sul mercato; nella individuazione di un quadro di riferimento ampio, spesso l’intero sistema impositivo, e in una definizione altrettanto estesa del suo obiettivo (l’indifferenziata tassazione di tutte le fattispecie riconducibili al presupposto d’imposta); soprattutto, nella distinzione tra ragioni interne ed esterne al sistema impositivo, solo le prime giustificando differenziazioni, non le seconde – che sarebbero tra l’altro espressione proprio di quei prìncipi di solidarietà e sussidiarietà, che fondano la disciplina del Terzo Settore, e che si rinvengono anche nei Trattati istitutivi (v. preambolo e artt. 1 e 2, D.Lgs. n. 117/2017, oltre agli artt. 2 e 3, TUE12).

Ne risulta uno schema alquanto rigido, che non riesce a dar rilievo ai princìpi di solidarietà e sussidiarietà orizzontale, cui si collega l’esercizio di quelle libertà sociali che la Costituzione riconosce quali diritti originari della persona, e di cui gli ETS sono la più piena realizzazione (princìpi invece valorizzati nel sindacato di uguaglianza e ragionevolezza, che rifiuta la regola per cui tutte le fattispecie riconducibili al presupposto d’imposta dovrebbero subire la stessa imposizione). Riesce in altri termini difficile apprezzare una disciplina che è ispirata a princìpi, e tutela beni giuridici, diversi dal divieto di aiuti di Stato – il quale, con i temperamenti pur concessi dall’art. 107, privilegia pur sempre il mercato, quale bene collettivo.

Invece, il principio di sussidiarietà preserva quelle libertà sociali (di azione e iniziativa) che pertengono alla persona, e che le sono riconosciute non in quanto individuo, atomisticamente considerato, ma come fondamento e parte di una società organizzata su basi solidaristiche – e dunque al fine, espresso dall’art. 1 D.Lgs. n. 117/2017, di «perseguire il bene comune, [ad] elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona […]». Vi corrisponde un nuovo spazio per gli ETS, tra il mercato, fondato sullo scambio corrispettivo di beni e servizi, e il settore pubblico (cfr. Corte cost., sent. n. 185/2018, e sent. n. 131/2020, punto 2.1).

Il fatto che la solidarietà (tra popoli) sia menzionata dai Trattati, fra l’altro, tra i valori dell’Unione, e che lo stesso mercato sia dopo Lisbona reso funzionale al progresso sociale, suggerisce, però, che queste difficoltà nascono da scelte interne all’assetto europeo, forse più che da una incompatibilità di fondo, assiologica, con quello nazionale. È in effetti la norma sul divieto di aiuti che seleziona le finalità che identificano le fattispecie di deroga – per perseguire le quali quello fiscale è uno strumento come altri – e presuppone un bilanciamento tra princìpi già dato e non modificabile in sede applicativa (per una diversa prospettiva, che considera l’ordinamento europeo incompleto, con riguardo alla previsione del principio di sussidiarietà orizzontale, Gotti G., La sussidiarietà orizzontale nello spazio costituzionale europeo, in Riv. AIC, 2025, 2, 310, anche per riferimenti).

Le tensioni interne alla disciplina del Terzo Settore sono frutto di scelte, in particolare la distinzione tra enti commerciali e non, che rispondono a questi vincoli, e aspettarsi che sia la Commissione ad allentarli è forse troppo (anche perché potrebbe depotenziare molto l’effettività del divieto).

Nelle condizioni date, questo risultato va allora accolto con favore – mentre sono probabilmente altre le vie per le quali si possono riconciliare le ragioni del mercato e quelle della sussidiarietà.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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1 L’art. 79, comma 2-bis, definisce non commerciali le attività di interesse generale che producano ricavi non eccedenti, per oltre il 6%, i relativi costi, per ciascun periodo d’imposta e per non oltre tre periodi consecutivi; gli artt. 80 e 86 prevedono l’opzione per il regime forfettario ai fini della determinazione dei redditi delle attività commerciali svolte da, rispettivamente, ETS non commerciali e APS e organizzazioni di volontariato; l’art. 18, comma 1, dichiara non imponibili le somme non distribuite, e destinate ad apposita riserva, dalle imprese sociali.

2 La nozione di aiuto prescinde dalla sua forma giuridica e ne valorizza l’effetto, includendo tanto i trasferimenti di denaro, quanto «gli interventi che alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa e che, di conseguenza, senza essere sovvenzioni in senso stretto, hanno la stessa natura e producono identici effetti» (Corte Giustizia UE, sent. Paint Graphos, punto 45).

3 La Corte ripete che «la determinazione del contesto di riferimento assume un’importanza maggiore nel caso delle misure fiscali, dal momento che l’esistenza stessa di un vantaggio può essere accertata solo rispetto a un livello di tassazione definito “normale”». Se, però, si presuppone un modello ideale di tassazione, ogni norma che se ne distacchi risulta potenzialmente selettiva.

4 Nemmeno questo diverso approccio sembra però poter fare a meno di una norma generale, secondo lo schema trilatero del giudizio di uguaglianza – di cui quello sugli aiuti di Stato ricalca vari passaggi.

5 La selettività è esclusa se una misura «è giustificata dalla natura o dalla struttura generale del sistema […] discende direttamente dai principi informatori o basilari inerenti al sistema di riferimento» (tra molte, Corte Giustizia UE, Ministerio de Defensa e Navantia SA, causa C-522/13, punto 43). Tra le giustificazioni ammesse, vi sono la prevenzione dell’abuso e dell’evasione, la semplificazione del prelievo e l’eliminazione della doppia imposizione – nessuna intercetta la dimensione dell’extra-fiscalità (Corte Giustizia UE, sent. 19 dicembre 2018, causa C-374/17, A-Brauerei, punti 51 s.; adde Comunicazione sulla nozione di aiuti di Stato [2016/C 262/01], punto 139).

6 Ma un’esenzione connessa alla destinazione del reddito potrebbe giustificarsi anche perché conforme alla struttura del sistema impositivo, per quelle cooperative che ripartiscano gli utili tra i soci, perché l’imposta sarebbe prelevata direttamente presso costoro (così, Corte Giustizia CE, sent. Paint Graphos, punto 71).

7 Benché la disposizione non specificasse alcunché, la giurisprudenza l’ha limitata ai redditi da attività commerciali «in rapporto di strumentalità diretta e immediata» con il fine ideale dell’ente, sull’assunto che un’attività di quel genere non fosse compatibile con i fini tutelati dalla disposizione.

8 Per il comma 5-bis, sono entrate non commerciali, oltre a quelle dell’attività non commerciale, i contributi, le raccolte fondi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative, ma anche i corrispettivi che le organizzazioni di volontariato e le associazioni percepiscono a fronte della cessione di beni, acquisiti a titolo gratuito o prodotti dai volontari (artt. 84 e 85 D.Lgs. n. 117/2017) — tutte previsioni in parte già contenute nel TUIR, ma opportunamente riversate in un diverso statuto normativo. Va pure segnalata la considerazione dei “costi effettivi”, che dà rilievo ai costi figurativi di quei beni e servizi non scambiabili sul mercato.

9 Secondo la relazione al D.L. n. 73/2022, il margine del 6% evita «una applicazione rigida» dei criteri di non commercialità, preservando la qualifica di ente non commerciale anche in presenza di lievi scostamenti tra costi e ricavi (ad esempio, da maggiori entrate di fine esercizio o dalla riduzione di costi non preventivamente determinabili). Vi si collega la norma, anch’essa introdotta dal D.L. n. 73/2022, che, per il primo biennio di applicazione della nuova normativa, fa decorrere la perdita della qualifica non commerciale dal periodo d’imposta successivo a quello in cui si supera il parametro quantitativo (comma 5-ter).

10 Non imponibilità dei redditi da attività di interesse generale di natura non commerciale e regime forfettario per i redditi delle attività commerciali secondarie.

11 Possono adottare lo statuto dell’impresa sociale tutti gli enti privati che rispettino le prescrizioni del D.Lgs. n. 112/2017, inclusi quelli del Libro V, ai quali – in deroga al divieto posto a tutte le imprese sociali – è comunque consentito distribuire una quota di utili (art. 3, comma 3). Si spiega forse in quest’ottica la scelta di non prevedere una esenzione indifferenziata dei redditi realizzati dall’impresa sociale come tale.

12 Riferimenti non considerati dalla Commissione, che non a caso richiama una sentenza, la Paint Graphos, che ha come noto escluso, per una chiara differenza di statuto normativo, la comparabilità tra cooperative ed enti lucrativi, senza accedere al (non più necessario) esame delle giustificazioni della deroga.

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