La perizia extragiudiziale tra allegazione tecnica e libertà di valutazione del giudice tributario

Di Antonio Colella -

(commento a/notes to Cass. civ., sez. trib., 29 gennaio 2025, n. 2052)

Abstract (*)

Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione affronta il tema del valore probatorio delle perizie extragiudiziali nel processo tributario, escludendo che il silenzio dell’Amministrazione possa costituire implicita ammissione ai sensi del principio di non contestazione. La perizia di parte è ricondotta ad allegazione difensiva, valutabile nel quadro probatorio complessivo, ma priva di efficacia decisiva in assenza di riscontri. La pronuncia, alla luce della L. n. 130/2022, conferma l’invalicabilità dell’onere della prova e segna un limite netto all’attivazione officiosa dei poteri istruttori, opponendosi a letture estensive del principio dispositivo.

The out-of-court expert report between technical submission and the tax judge’s discretionary assessment – In the decision under review, the Supreme Court addresses the evidentiary value of private expert reports in tax proceedings, clarifying that the tax authority’s silence cannot be construed as implicit admission under the principle of non-contestation. Such reports are considered defensive submissions: they may be evaluated in light of the overall evidentiary framework but cannot, in the absence of specific corroboration, have full probative value. In the wake of Law No. 130/2022, the ruling reaffirms the inviolable nature of the burden of proof and sets clear limits on the judge’s ex officio investigatory powers, thereby rejecting broader interpretations of the dispositive principle.

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Evidenza tecnica di parte e valore probatorio meramente indiziario. – 3. Il principio di “non contestazione” e la sua portata nel processo tributario. – 4. Discrezionalità del giudice tributario nella valutazione delle prove. – 5. Diritto alla prova del contribuente e parità delle armi. – 6. Conclusioni.

1. L’ordinanza della Corte di Cassazione, sez. trib., 29 gennaio 2025, n. 2052, si colloca nel solco della giurisprudenza di legittimità che, con coerenza e continuità argomentativa, ha progressivamente precisato la natura e i limiti giuridici delle perizie tecniche extragiudiziali nel processo tributario. La decisione fornisce infatti un’occasione significativa per interrogarsi, alla luce del nuovo assetto normativo delineato dalla L. 31 agosto 2022, n. 130, sugli effetti giuridici che tali allegazioni tecniche – elaborate su impulso delle parti e depositate in sede contenziosa – possano esplicare nel giudizio, nonché sulle coordinate sistematiche del loro utilizzo ai fini della prova.

La pronuncia ribadisce con fermezza un principio già consolidato nella giurisprudenza di legittimità, anche a seguito di interventi delle Sezioni Unite: la perizia extragiudiziale di parte costituisce una mera allegazione difensiva a contenuto tecnico, priva di efficacia probatoria piena, e non vincola il giudice, il quale resta titolare di un potere-dovere valutativo autonomo e discrezionale. Il documento tecnico non assurge, dunque, a prova legale o presunzione qualificata, ma si configura quale elemento indiziario, che potrà eventualmente concorrere alla formazione del convincimento del giudice, ove supportato da ulteriori riscontri obiettivi.

Tale inquadramento riceve ulteriore conferma anche dopo l’introduzione dell’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, norma che, nell’ambito della riforma del processo tributario promossa dalla L. n. 130/2022, ha inciso sulla distribuzione dell’onere probatorio e sulla portata dei poteri istruttori del giudice tributario. Sotto questo profilo, l’ordinanza n. 2052/2025 assume una funzione chiarificatrice, segnando un punto di equilibrio tra le esigenze di effettività della tutela giurisdizionale, il diritto alla prova del contribuente e la salvaguardia dell’imparzialità e del libero convincimento del giudice.

La decisione offre, altresì, spunti di riflessione in merito all’applicazione del principio di non contestazione ex art. 115 c.p.c. in ambito tributario, interrogando interpreti ed operatori sul grado di effettività del contraddittorio probatorio, specie in relazione agli elementi tecnici introdotti unilateralmente dalle parti. In dottrina, non a caso, la pronuncia ha riacceso il dibattito sulla natura della prova nel processo tributario, sui limiti epistemologici del sapere tecnico e sull’equilibrio tra funzione cognitiva e funzione garantista della giurisdizione impositiva.

2. La questione centrale affrontata dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 29 gennaio 2025, n. 2052 concerne il valore probatorio attribuibile alla perizia tecnica prodotta da una parte nel giudizio tributario, indipendentemente dalla sua provenienza, che sia dal contribuente o dall’Amministrazione finanziaria. In tale ambito, la Suprema Corte riafferma un principio ormai divenuto canone sistemico: la consulenza tecnica di parte depositata in un processo tributario non costituisce mai una prova piena dei fatti che vi sono rappresentati, bensì integra esclusivamente un elemento di giudizio di natura indiziaria. Si tratta di un approdo che la dottrina ha già riconosciuto quale «valutazione argomentativa dell’una o dell’altra parte», priva di effettiva capacità dimostrativa autonoma (Moschetti G., Il principio di immediatezza, quale regola razionale al fine del chiarimento dei fatti, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, 219 ss.), e che – come rilevato acutamente – deve essere considerata al pari di un mero supporto dialettico, «non idoneo di per sé a rovesciare l’onere della prova, ma suscettibile di orientare il giudice solo se corroborato da altri elementi fattuali rilevanti».

In altri termini, la relazione tecnica, redatta unilateralmente da un consulente fiduciario della parte, ha la valenza di mera allegazione difensiva a contenuto tecnico, priva di autonoma rilevanza dimostrativa. Il nostro ordinamento, in assenza di una previsione legislativa che le riconosca efficacia probatoria propria, non attribuisce a tale documento valore di mezzo di prova precostituito al di fuori del processo. Ne consegue che il giudice non è vincolato, nemmeno implicitamente, a prenderla in considerazione nella decisione, potendo ignorarne integralmente i contenuti senza incorrere in alcun vizio decisorio. La Corte richiama, sul punto, un lungo e coerente tracciato giurisprudenziale, che include la fondamentale pronuncia delle Sezioni Unite n. 13902/2013, nonché le successive Cass. nn. 23590/2011, 22965/2017, 33503/2018 e 8261/2018, tutte univoche nell’affermare che la perizia stragiudiziale è un’argomentazione tecnica priva di forza probatoria vincolante.

In questo contesto, è decisivo distinguere il momento della “valutazione” da quello della “motivazione”. La valutazione attiene alla fase interna del ragionamento probatorio: il giudice esamina l’elaborato, lo pondera in relazione al complesso delle prove e decide se attribuirgli rilievo. La motivazione, invece, rappresenta l’esternazione di tale giudizio, dovuta solo quando la perizia incide in modo significativo sull’esito della decisione. Non ogni perizia disattesa necessita di confutazione espressa; ciò avviene solo quando essa costituisca un elemento potenzialmente decisivo.

Parimenti, occorre chiarire la distinzione tra “prova vincolata” e “prova piena”. La prima, detta anche prova legale, è quella cui la legge attribuisce un effetto vincolante predeterminato (come la confessione giudiziale o l’atto pubblico). La prova piena o sufficiente, pur non vincolante ex lege, è quella che il giudice reputa idonea, per consistenza e riscontri, a fondare la decisione.

La perizia di parte non appartiene ad alcuna di queste due categorie: essa rimane un apporto tecnico privo di efficacia vincolante, la cui incidenza dipende dalla sua coerenza con l’insieme del materiale probatorio.

Ugualmente importante è distinguere tra “fatto” e “valore”. Il fatto è un accadimento o circostanza oggettiva, suscettibile di essere provato attraverso strumenti tipici (documenti, testimonianze, presunzioni). Il valore, invece, è il risultato di una stima, ossia di un giudizio tecnico che, pur seguendo criteri metodologici, mantiene sempre un margine di opinabilità. Ne deriva che “provare” e “stimare” sono operazioni concettualmente distinte: si prova un fatto storico, si stima un valore economico. La perizia di parte non prova un valore, lo determina secondo un modello tecnico, offrendo al giudice una valutazione che non ha forza dimostrativa autonoma.

Da questa impostazione consegue che i dati riportati in perizia – ad esempio, i parametri utilizzati per stimare il valore venale di un immobile o per ricostruire poste contabili – non acquisiscono rilevanza probatoria solo perché inseriti nella relazione. Essi necessitano di ulteriori elementi di riscontro per poter assumere efficacia giuridica.

La giurisprudenza ha difatti costantemente affermato che il giudice tributario non è tenuto a confutare espressamente una perizia di parte disattesa, trattandosi, appunto, di un apporto tecnico valutativo, privo del rango di prova formale (Cass. civ., sez. V, n. 13112/2021). In questa prospettiva, la perizia – come qualsiasi documento prodotto da un soggetto terzo – può semmai assumere valore indiziario, la cui valutazione è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, secondo un apprezzamento motivato, ma non necessariamente esplicito o analitico.

Essa, come ogni documento proveniente da un soggetto terzo, può al più costituire un indizio, la cui valutazione rientra nella discrezionalità motivata del giudice di merito, senza vincoli predeterminati.

Come chiarito in dottrina, «la perizia giurata costituisce una mera allegazione difensiva: se disattesa, non va confutata, proprio in virtù della sua natura non probatoria, ma argomentativa e strumentale alla tesi difensiva» (Antico A., La perizia giurata costituisce una mera allegazione difensiva: se disattesa non va confutata, in il fisco, 2024, 1, 76-81).

Si conferma, in tal modo, la distinzione strutturale tra perizia di parte e consulenza tecnica d’ufficio, che si configura quale vero e proprio mezzo istruttorio peritale, destinato a offrire supporto tecnico su aspetti rilevanti ai fini della decisione. Ciò avviene, tuttavia, nel rispetto del principio per cui iudex est peritus peritorum, che esclude qualsiasi automatismo valutativo o vincolo derivante dal contenuto della consulenza (Graziosi C., Il giudice davanti alla consulenza come prova scientifica: peritus peritorum o servus peritorum?, in La resp. civ., 2005, 4, 316-329). Viceversa, la perizia redatta e prodotta dalla parte conserva la natura di mera allegazione difensiva, priva di efficacia probatoria autonoma, e non può mai essere equiparata, né sul piano formale né su quello sostanziale, a una prova in senso stretto.

La Cassazione esplicita con chiarezza, altresì, che l’ordinamento tributario non consente la precostituzione extra-processuale di un mezzo di prova quale la perizia tecnica privata, il che risulta pienamente coerente con il sistema codicistico generale (Ubertone M., Il giudice e l’esperto: deferenza epistemica e deferenza semantica nel processo, Torino, 2022). Anche nel processo civile ordinario (Narracci N., Il valore della perizia e della testimonianza de relato ex parte nel processo civile per risarcimento del danno, in Danno e resp., 2023, 5, 639-650), in assenza di espressa previsione normativa, la perizia stragiudiziale non assume natura di prova documentale dei fatti in essa contenuti (Corte d’Appello Bologna, 16 gennaio 2024, n. 88), ma si qualifica come una mera opinione tecnica della parte (fatto salvo il caso di perizie contrattuali disciplinate da norme specifiche).

Richiamando un proprio precedente (Cass. civ., sez. trib., 27 dicembre 2018, n. 33503), la Suprema Corte precisa che la valutazione della perizia è rimessa alla libera discrezionalità del giudice di merito, il quale non è tenuto a motivare specificamente l’eventuale mancata considerazione della stessa. Ciò significa che il giudice tributario può, legittimamente, decidere la controversia senza dar conto delle conclusioni del consulente tecnico di parte, senza che ciò configuri alcun vizio di omessa pronuncia o di omesso esame. Sul punto, l’ordinanza in esame è inequivoca: l’omessa valutazione della perizia stragiudiziale non integra, di per sé, il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., in quanto la perizia è qualificabile come semplice elemento indiziario.

Con riferimento a un ulteriore pronuncia (Cass. civ., sez. VI, ord. 21 giugno 2018, n. 8261), la Corte ribadisce che la relazione del perito di parte non è idonea a fondare, in modo autonomo, un fatto storico decisivo, tale da giustificare l’annullamento della sentenza per omesso esame. In altre parole, l’eventuale silenzio del giudice di merito rispetto ai contenuti della perizia non può essere interpretato come vizio di omessa pronuncia, ove la motivazione della decisione sia incompatibile, anche implicitamente, con le tesi del perito.

Un orientamento che, peraltro, è stato ribadito in successive pronunce (v. Cass. civ., sez. VI, 21 gennaio 2019, n. 1525; Cass. civ., sez. III, 29 gennaio 2021, n. 2151) ed è ampiamente condiviso in dottrina (Gerardo D.A., Responsabilità ed effetti della C.T.U., Milano, 2015), la quale sottolinea che la perizia di parte non impone alcun obbligo motivazionale specifico in capo al giudice. Spetta piuttosto alla parte che ne invoca l’efficacia rafforzarne il contenuto mediante mezzi di prova rituali: documenti, presunzioni semplici o istanze di CTU (Narracci N., op. cit.).

Dal quadro delineato emerge un’interpretazione rigorosa e coerente della funzione assegnabile alla perizia tecnica stragiudiziale nell’ambito del processo tributario. Essa si configura, in modo ormai consolidato, come mero ausilio tecnico-difensivo, privo di autonoma efficacia probatoria in ordine ai fatti giuridicamente rilevanti, e pertanto inidoneo tanto a invertire l’onere della prova, quanto a fondare da solo una decisione favorevole alla parte che l’ha prodotta. Né, per le medesime ragioni, può essa vincolare la valutazione discrezionale del giudice.

Tale impostazione, fatta propria in maniera stabile dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., sez. V, ord. n. 30303/2023; Cass., sez. V, sentt. nn. 33503/2018, 3104/2021, 16579/2021, 17396/2021, 7925/2022, 9541/2022; Cass., sez. 6-3, ord. n. 8758/2017; Cass., sez. V, ord. n. 29860/2024; Cass., Sez. Un., n. 13902/2013; Cass., sez. V, n. 6038/2022), trova un solido riscontro anche nella migliore dottrina. Come acutamente osservato (Marcheselli A., Motivazione e prova, nel procedimento e nel processo tributario. Il giudice tributario come garante della funzione tributaria, relazione al corso per giudici tributari “I percorsi della Riforma Tributaria”, Scuola Nazionale dell’Amministrazione – Presidenza del Consiglio dei Ministri, 11 dicembre 2024), attribuire alla perizia tecnica stragiudiziale un valore probatorio autonomo equivarrebbe a introdurre surrettiziamente un mezzo di prova non previsto dalla legge.

Ciò non implica, evidentemente, che la perizia di parte sia un atto “nascosto” o sottratto al contraddittorio – poiché essa è regolarmente depositata e come tale è liberamente discutibile dalla controparte. Né si intende sostenere che vi sia una violazione formale della parità delle armi, dal momento che ciascuna parte ha facoltà di produrre la propria perizia. È proprio l’attribuzione di efficacia probatoria piena a uno strumento che la legge non qualifica come mezzo di prova che può tuttavia determinare uno squilibrio sostanziale, consentendo a un atto unilaterale, predisposto al di fuori del processo e senza garanzie di terzietà, di incidere in modo determinante sull’esito della controversia.

In altri termini, la lesione sta nel riconoscimento di un’efficacia giuridica che la legge non le attribuisce, il che altererebbe il sistema processuale fondato su prove tipiche, su regole di ammissione controllate dal giudice e su meccanismi di verifica dialettica rafforzata (come accade, ad esempio, con la consulenza tecnica d’ufficio). Proprio per evitare simili distorsioni, la giurisprudenza ha chiarito che la perizia tecnica stragiudiziale, pur potendo costituire argomento di prova, è liberamente valutabile dal giudice e non vincolante (cfr. Cass., sez. V, n. 6038/2022), che può disattenderla anche implicitamente (cfr. Cass., sez. V, sentt. nn. 33503/2018, 3104/2021, 16579/2021), senza che ciò integri vizio motivazionale (Cass., sez. V, ord. n. 29860/2024).

Laddove si ammetta che una parte possa assolvere, almeno in parte, l’onere probatorio mediante una perizia tecnica unilaterale, l’efficacia di tale elaborato non discende dalla sua natura formale, bensì dalla capacità argomentativa e dalla coerenza con il complessivo materiale probatorio acquisito al processo. Una perizia carente sotto il profilo metodologico o priva di riscontri oggettivi, non è idonea a sorreggere autonomamente una decisione favorevole; al contrario, un elaborato tecnicamente solido, congruente con altri dati e privo di contraddizioni interne, può costituire un valido ausilio valutativo.

In questa prospettiva, attribuire alla perizia di parte un valore di indizio liberamente apprezzabile dal giudice – in funzione del contenuto e non della provenienza – realizza un equilibrio coerente tra libertà di prova e salvaguardia delle garanzie processuali, evitando che atti unilaterali estranei al contraddittorio si trasformino in prove precostituite.

3. Ulteriore e rilevante profilo esaminato dalla pronuncia in commento è quello concernente l’applicabilità del principio di non contestazione, ex art. 115, comma 1, c.p.c., alle conclusioni contenute in una perizia tecnica stragiudiziale. La questione, apparentemente marginale, in realtà assume un rilievo centrale, giacché incide sull’architettura probatoria del giudizio tributario e sul regime epistemico delle allegazioni tecniche difensive.

Nel processo civile ordinario, come noto, il principio di non contestazione implica che i fatti allegati da una parte, se non specificamente contestati dalla controparte, si considerano ammessi e non richiedono prova (Cass. civ., sez. II, ord. 4 dicembre 2018, n. 31274). Tale regola, espressione del principio dispositivo e della lealtà processuale, ha trovato consacrazione normativa e consolidata applicazione giurisprudenziale (Cass., sez. III, 28 febbraio 2025, n. 5362). Ci si è dunque interrogati circa la sua trasponibilità al processo tributario e, più in particolare, sulla sua eventuale operatività rispetto ai contenuti di una perizia di parte non espressamente confutati dalla controparte (come ad esempio dall’Agenzia delle Entrate).

La Corte di Cassazione, richiamando espressamente la sentenza n. 34450/2022, chiarisce che le conclusioni contenute in una perizia tecnica di parte non possono essere considerate fatti non contestati ai sensi dell’art. 115 c.p.c., poiché non si tratta di allegazioni fattuali, ma di valutazioni, opinioni o deduzioni tecniche. Enunciazioni che, non integrando fatti in senso tecnico-giuridico, restano fuori dall’ambito di applicazione del meccanismo di non contestazione previsto dalla norma. Ne consegue che l’eventuale mancata confutazione puntuale delle affermazioni contenute nella perizia non equivale ad ammissione, né limita la libertà valutativa del giudice.

Questo chiarimento è particolarmente rilevante ove si consideri che, in talune pronunce (Commissione tributaria regionale Campania, n. 3596/25/2020) e talvolta anche in dottrina (Pane M. – Foderà A., Le liti da rimborso e il principio di non contestazione, in il fisco, 2018, 29, 2854 ss.), si è sostenuta una tesi opposta, ossia che il silenzio dell’Amministrazione sui contenuti della perizia del contribuente potesse equivalere a un’ammissione implicita degli stessi. Tale impostazione viene definitivamente sconfessata: la Corte ribadisce che le affermazioni tecniche del consulente di parte non rappresentano fatti in senso stretto, bensì mere opinioni, valutazioni o giudizi estimativi, estranei al dominio fattuale dell’art. 115 c.p.c.

Come rilevato anche dalla giurisprudenza tributaria (Corte di Giustizia tributaria di primo grado Roma, 8 gennaio 2024, n. 287; Corte di Giustizia tributaria di secondo grado Emilia Romagna, n. 26/2024, cit.), l’art. 115 c.p.c. si riferisce esclusivamente ai fatti non specificamente contestati, escludendo dal suo ambito di applicazione le valutazioni giuridiche e le opinioni tecniche, comprese quelle formulate da consulenti fiduciari delle parti. In tale ottica, le risultanze della perizia tecnica stragiudiziale vanno ricondotte alla categoria delle valutazioni soggettive e delle argomentazioni difensive, prive, in quanto tali, di capacità vincolante. Esse non introducono nel processo alcun fatto storico dotato di autonomia probatoria, e pertanto non possono considerarsi ammesse per mancata contestazione della controparte.

In linea con tale premessa teorico-dogmatica, la Cassazione introduce un’ulteriore considerazione di ordine sistematico, con riferimento alla struttura del processo tributario impugnatorio. Secondo un orientamento, l’Amministrazione finanziaria, una volta impugnato l’atto impositivo motivato, potrebbe limitarsi a una contestazione globale delle doglianze del contribuente, ivi comprese quelle fondate su perizie tecniche di parte, senza necessità di replica specifica.

Tale impostazione, tuttavia, è oggetto di rilievi critici in dottrina e giurisprudenza, in quanto rischia di comprimere il principio del contraddittorio e la parità delle armi tra le parti. Se è vero che l’Amministrazione non è tenuta a ribadire quanto già esposto nell’atto impugnato, è altrettanto vero che deve prendere posizione in modo puntuale su nuove allegazioni difensive, comprese quelle introdotte con la perizia tecnica. Diversamente, si apre la strada all’applicazione del principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., come affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. I, 27 febbraio 2008, n. 5191), secondo cui la mancata contestazione specifica può comportare l’accoglimento delle deduzioni non smentite.

Anche la più recente dottrina conferma che una generica resistenza in giudizio non è sufficiente a neutralizzare fatti o argomentazioni nuovi introdotti dal contribuente, soprattutto se fondati su elaborati tecnici motivati (cfr. Sbroiavacca A., Nuovo onere probatorio ed impatto sulla motivazione degli atti dell’Amministrazione finanziaria, in Riv. tel. dir. trib., 2024, 2, 673 ss.).

Va però segnalato che un diverso orientamento, affermato da Cass. n. 19806/2019, n. 23599/2024 e confermato da Cass., ord. n. 2052/2025, riconosce all’Amministrazione la possibilità di contestare globalmente le doglianze del contribuente. Secondo tale impostazione, la difesa della legittimità dell’atto impugnato è sufficiente a escludere effetti preclusivi ex art. 115 c.p.c., anche in presenza di nuove deduzioni fondate su perizie tecniche di parte. In questa prospettiva, l’Ufficio non sarebbe tenuto a replicare puntualmente a ogni rilievo tecnico, né a produrre una propria consulenza tecnica, potendosi considerare implicitamente contestate tutte le tesi difensive contrarie.

Simile impostazione produce rilevanti ricadute applicative: il principio di non contestazione ex art. 115 c.p.c. non può essere invocato per ritenere come ammessi i contenuti della perizia tecnica unilaterale, qualora l’Amministrazione abbia chiesto la conferma dell’atto impugnato e abbia formulato una difesa complessiva della propria pretesa. In tal caso, non è richiesto che l’Ufficio confuti analiticamente ogni singola valutazione contenuta nella perizia di parte per escluderne l’efficacia persuasiva.

Questa lettura, oggi condivisa da una parte della giurisprudenza di legittimità, è stata ripresa anche in dottrina (Parente S.A, La conciliazione giudiziale nel prisma della riforma del processo tributario: profili di criticità e linee di sviluppo [parte seconda], in Riv. tel. dir. trib., 2024, 1, 293 ss.; De Pasquale I., L’onere di contestazione specifica nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2013, 3, 545-576), che propende per un’interpretazione restrittiva del principio di non contestazione nei giudizi tributari impugnatori, anche alla luce della natura indisponibile del rapporto d’imposta e della funzione pubblicistica dell’azione amministrativa.

Simile impostazione, tuttavia, è oggetto di fondati rilievi critici. Confondere l’indisponibilità del diritto con l’inapplicabilità delle regole processuali – come il principio di non contestazione – costituisce un errore logico e sistematico. Che l’interesse sottostante al credito erariale sia pubblico non esonera l’Amministrazione dal rispetto delle forme e dei limiti del processo. Altrimenti, si dovrebbe ritenere che la mancata impugnazione dell’assoluzione da parte del pubblico ministero non ne comporti la definitività, o che il Fisco possa prescindere dai termini e dalle preclusioni, il che è incompatibile con il principio di parità delle parti e con l’assetto garantistico del processo tributario.

La pronuncia in esame, dunque, conferma in modo chiaro che il giudice tributario non può qualificare come fatti non contestati le valutazioni contenute nella perizia di parte solo in ragione della mancata confutazione specifica da parte dell’Amministrazione. È invece tenuto a esercitare pienamente il proprio potere valutativo, esaminando criticamente le conclusioni tecniche alla luce dell’intero quadro probatorio. Resta fermo, naturalmente, il diritto del contribuente di valorizzare la perizia mediante mezzi di prova ritualmente ammissibili, quali la produzione dei documenti su cui essa si fonda o la richiesta di una consulenza tecnica d’ufficio (CTU), ove ricorrano i presupposti.

Come noto, la consulenza tecnica d’ufficio è ammessa nel processo tributario sin dalla sua originaria codificazione del 1992 (art. 7, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992), e trova frequente applicazione nei contenziosi che richiedono specifiche competenze (si pensi alle valutazioni catastali, agli ammortamenti, o alle perizie immobiliari). La decisione di ammettere o meno la CTU rientra però nella discrezionalità tecnica del giudice, il quale non è obbligato ad accogliere la richiesta di parte, nemmeno per esigenze di completezza istruttoria.

In tal senso, la Cassazione ha escluso che il diniego non motivato di CTU integri di per sé una violazione del diritto di difesa (v. Cass. civ., sez. III, 29 gennaio 2021, n. 2151), trattandosi di un mezzo neutro e non necessario, da ammettersi solo ove ritenuto utile e pertinente rispetto ai fatti da accertare. Da ciò discende, infine, che il contribuente non può supplire all’eventuale mancata ammissione della CTU pretendendo che la propria perizia venga valorizzata ex officio come prova, permanendo a suo carico l’onere di fornire al giudice elementi probatori idonei secondo le forme ammesse: documenti, presunzioni semplici, eventualmente prova testimoniale scritta (ex art. 257-bis c.p.c.), nei limiti del processo tributario riformato. La perizia di parte, pertanto, continua a collocarsi nel sistema come strumento illustrativo, ausilio tecnico-argomentativo, mai dotato di autonoma forza probatoria, e sempre subordinato all’apprezzamento critico del giudice e all’interazione con il complesso degli elementi istruttori ritualmente acquisiti.

4. L’ordinanza in esame – Cass. civ., sez. V, 29 gennaio 2025, n. 2052 – offre un ulteriore terreno di riflessione in ordine alla latitudine e ai limiti dei poteri valutativi del giudice tributario con riguardo al materiale probatorio acquisito in giudizio. In linea con l’impostazione consolidata nella giurisprudenza di legittimità, la Suprema Corte ribadisce che il giudice di merito è libero di fondare il proprio convincimento su quelle risultanze istruttorie che ritenga maggiormente attendibili e rilevanti, senza essere tenuto a valorizzare ogni singolo elemento presentato dalle parti.

Tale affermazione si inserisce coerentemente nel quadro del principio del libero convincimento del giudice sancito dall’art. 116 c.p.c., il quale – pur operando in un processo che resta informato al principio dispositivo temperato – trova piena applicazione anche nel contesto del processo tributario. Come chiarito dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalente, il giudice tributario gode di ampia discrezionalità nella valutazione della rilevanza, della concludenza e della attendibilità degli elementi di prova, fatta eccezione per le ipotesi tassativamente previste di prova legale (quali i verbali e gli atti pubblici assistiti da fede privilegiata, salvi i casi di querela di falso).

La Corte, con riferimento specifico alla vicenda decisa, conferma la legittimità della scelta dei giudici di merito di non valorizzare le risultanze della perizia tecnica di parte, ritenendo più convincenti le evidenze istruttorie provenienti dagli accertamenti bancari condotti dall’Amministrazione finanziaria e finalizzati a dimostrare l’inesistenza oggettiva delle operazioni fatturate. La discrezionalità valutativa del giudice si manifesta, dunque, non solo nella selezione delle prove rilevanti, ma anche nella decisione di attribuire prevalenza ad alcune piuttosto che ad altre, sulla base del criterio dell’attendibilità e della coerenza logico-argomentativa.

Questa ampia libertà, tuttavia, è bilanciata da un obbligo motivazionale qualificato. La Cassazione precisa che una valutazione erronea o apodittica degli elementi indiziari, in difetto di rispetto dei criteri legali, può integrare un vizio di violazione di legge censurabile in sede di legittimità (si v. anche Corte di Giustizia tributaria di secondo grado Piemonte, 10 gennaio 2022, n. 64; Corte di Appello Bologna, 22 dicembre 2023, n. 88). Ciò accade, in particolare, quando il giudice si fonda su presunzioni semplici prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c., oppure quando disattende elementi probatori senza fornire un’adeguata giustificazione logico-giuridica (Durante G., La riforma dell’onere della prova nel processo tributario e l’impatto sulle presunzioni legali previste a vantaggio dell’ufficio impositore, in Riv. tel. dir. trib., 2025, 1 e online il 21 gennaio 2025, www.rivistadirittotributario.it).

Nel caso di specie, i contribuenti avevano lamentato che la Corte territoriale avesse del tutto ignorato la loro perizia tecnica di parte, senza offrire motivazioni. La Suprema Corte, pur rigettando il motivo d’impugnazione, sottolinea la necessità che il giudice motivi il proprio ragionamento inferenziale, specialmente quando fondato su indizi o dati eterogenei. L’ordinanza diviene dunque occasione per riaffermare che il libero apprezzamento non equivale a valutazione arbitraria o immotivata, e che l’iter logico-decisionale deve sempre essere esplicitato con coerenza.

In dottrina (si v., ad esempio, Zanotti N., Le prove nel giudizio tributario alla luce degli obiettivi posti dal PNRR, in Dir. prat. trib., 2024, 1, 36-60) è ampiamente condiviso che anche nell’esercizio del libero convincimento il giudice sia tenuto a rispettare i criteri logico-giuridici di razionalità, completezza e coerenza interna, in particolare allorché faccia ricorso a presunzioni o a concatenazioni indiziarie. In caso contrario, si esce dall’ambito del giudizio di fatto per entrare in quello del giudizio di diritto, con conseguente sindacabilità in Cassazione.

Per quanto concerne le prove tecniche, siano esse d’ufficio o di parte, resta fermo il principio generale secondo cui il giudice non è mai vincolato dal parere del perito, potendo discostarsene ove fornisca motivazione adeguata del proprio dissenso. Il brocardo iudex peritus peritorum si applica pienamente anche in sede tributaria: il giudice può aderire, emendare o disattendere le conclusioni peritali, sia d’ufficio che di parte, purché fondi il proprio convincimento su una motivazione logicamente strutturata (Graziosi C., Il giudice davanti alla consulenza come prova scientifica: peritus peritorum o servus peritorum?, cit.).

Nel caso della perizia di parte, come illustrato nei paragrafi precedenti, non sussiste alcun obbligo motivazionale specifico per il giudice, atteso che si tratta di mera allegazione difensiva priva di rilievo probatorio autonomo. Diverso è il caso della CTU, che pur non avendo efficacia vincolante, impone al giudice, qualora intenda discostarsene, un dovere di motivazione rafforzata.

Nel contesto del processo tributario, questa discrezionalità valutativa si manifesta anche nella facoltà del giudice di attivare d’ufficio poteri istruttori, ai sensi dell’art. 7, commi 1 e 2, D.Lgs. n. 546/1992.

Il giudice tributario può ordinare esibizioni documentali, richiedere chiarimenti all’Amministrazione o nominare un CTU, anche in assenza di istanza di parte, in ossequio al principio della ricerca della verità materiale. L’esercizio di tali poteri è però oggi circoscritto: l’art. 7, comma 5-bis, introdotto dalla L. n. 130/2022, e la giurisprudenza successiva (Cass. civ., sez. V, ord. 11 maggio 2021, n. 12383), hanno chiarito che il giudice non può supplire alle carenze probatorie dell’Amministrazione finanziaria, pena la violazione del principio del giusto processo.

Questa discrezionalità si esplica dunque anche nella scelta se attivare poteri istruttori officiosi di fronte a prove carenti o opinabili, come nel caso in cui il contribuente produca una perizia di parte con esiti favorevoli: il giudice può decidere di disporre una CTU per verificarne la fondatezza, oppure può ritenere la perizia non convincente e respingere la tesi difensiva, senza attivare ulteriori mezzi istruttori. In entrambi i casi, si tratta di scelte discrezionali non sindacabili in Cassazione, salvo che la motivazione sia incongrua o affetta da errori giuridici macroscopici.

La dottrina ha lungamente discusso circa l’eventuale obbligo del giudice di attivarsi in presenza di carenze probatorie, e l’orientamento prevalente esclude tale obbligo: il processo tributario, pur temperato da elementi inquisitori, resta essenzialmente un processo di parti, fondato sull’impugnazione di un atto amministrativo e sull’onere probatorio distribuito secondo regole chiare (Sartori N., I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023).

Come osservato da Marcheselli (Motivazione e prova, nel procedimento e nel processo tributario. Il giudice tributario come garante della funzione tributaria, cit.), il giudice tributario è chiamato a esercitare una funzione di garanzia sistemica: egli è garante della funzione tributaria, non sostituto dell’Amministrazione nell’accertamento dei fatti. Tale funzione implica rigore nella valutazione delle prove addotte dall’Erario, ma non impone al giudice di colmare le lacune istruttorie dell’Amministrazione.

Come ricordato da Franco Gallo (Il progressivo evolversi del Giudizio tributario verso il modello Costituzionale del “giusto processo”, in Riv. trim. dir. trib., 2020, 1, 85-100), è essenziale distinguere fra “evidence” e “proof”: i singoli elementi devono essere organizzati dal giudice in un quadro coerente che consenta di giungere al convincimento. La perizia di parte, per quanto articolata, rimane un frammento del mosaico probatorio, e da sola non può mai valere come “prova” in senso proprio. Al giudice spetta decidere se, come e quanto valorizzarla, secondo scienza, coscienza e razionalità giuridica.

5. L’impostazione restrittiva adottata dalla Suprema Corte in ordine al valore probatorio della perizia stragiudiziale, unitamente alla riaffermazione del potere valutativo discrezionale del giudice tributario, impone di interrogarsi sull’effettiva salvaguardia del diritto alla prova in capo al contribuente e sul rispetto del principio di parità delle armi nel contenzioso fiscale. Il quesito che si pone è se, nel caso in cui il giudice ignori una perizia tecnica prodotta dal contribuente – e ciò avvenga in assenza di una consulenza tecnica d’ufficio – non si realizzi una sostanziale compressione del diritto di difesa.

Alla luce dei principi affermati nella sentenza in commento, la risposta appare negativa. Il sistema processuale garantisce al contribuente un diritto alla prova che si articola in tre profili complementari: in primo luogo, il diritto di presentare elementi istruttori, inclusa la perizia di parte, nei limiti e con le modalità consentite; in secondo luogo, il diritto che tali elementi siano effettivamente presi in considerazione dal giudice nella formazione del proprio convincimento; infine, il diritto che la decisione sia motivata in modo coerente, rendendo intellegibile il ragionamento logico-giuridico che ha condotto all’accoglimento o al rigetto delle allegazioni probatorie.

Il diritto alla prova, quale espressione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. e del giusto processo ex art. 111 Cost., comprende la possibilità di introdurre elementi istruttori e di ottenerne una valutazione giurisdizionale. Ciò non implica però che ogni mezzo di prova debba essere accolto automaticamente, né che il giudice sia tenuto ad aderire alle valutazioni tecniche della parte.

Dottrina e giurisprudenza hanno posto in evidenza, negli ultimi decenni, l’esigenza di una progressiva valorizzazione del contraddittorio probatorio anche nel giudizio tributario. Già Gallo (Il progressivo evolversi del Giudizio tributario verso il modello Costituzionale del “giusto processo”, cit., 85-100) auspicava una transizione verso un “giusto processo tributario”, sollecitando l’attenuazione di preclusioni istruttorie ritenute eccessivamente penalizzanti per il contribuente. Le recenti innovazioni introdotte dalla L. n. 130/2022 – tra cui la testimonianza scritta – si pongono in linea con tale evoluzione, rafforzando l’armamentario difensivo del soggetto passivo d’imposta.

Nel caso della perizia privata, va riconosciuto al contribuente il diritto di produrre in giudizio tale elaborato, in quanto documento ammissibile ai sensi dell’art. 24, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992. Una volta acquisita al fascicolo processuale, la perizia non acquista di per sé dignità probatoria autonoma, ma conserva natura di allegazione tecnica, valutabile come indizio dal giudice (Cass. n. 2052/2025). Ciò si traduce nell’obbligo per il giudice di prenderla in considerazione nel processo valutativo, pur restando libero di attribuirle rilevanza limitata o nulla, purché la motivazione finale consenta di comprendere il percorso logico seguito.

E questo non esclude che, in presenza di ulteriori elementi convergenti, la relazione peritale possa essere valorizzata nella motivazione, contribuendo all’accertamento dei fatti rilevanti. Il contribuente ha dunque facoltà di rafforzare le proprie tesi allegando contratti, scritture contabili, corrispondenza, nonché sollecitando il giudice a disporre verificazioni o consulenze tecniche d’ufficio. In tal modo, l’elaborato privato assume la funzione di stimolo probatorio, fungendo da catalizzatore di un’istruttoria integrativa potenzialmente decisiva.

Sotto questo profilo, la posizione del contribuente appare simmetrica a quella dell’Amministrazione finanziaria: anche quest’ultima, quando produce relazioni tecniche redatte da funzionari, esperti interni o periti di fiducia – ad esempio in ambito valutativo o in materia di transfer pricing – non può pretendere che tali elaborati siano recepiti acriticamente. Il giudice può disattenderli, valorizzando invece le prove prodotte dalla controparte.

È vero che l’Amministrazione gode, nella fase precontenziosa, di poteri istruttori più penetranti, potendo effettuare accessi, ispezioni, verifiche documentali. Ma una volta instaurato il giudizio, essa è tenuta a dimostrare la fondatezza della pretesa secondo le ordinarie regole di riparto dell’onere probatorio. Come chiarito da Piantavigna (La presunzione di onestà in materia tributaria, Relazione al Convegno ANTI “Un Codice Europeo dei diritti del contribuente”, Bruxelles-Milano, 12-14 ottobre 2022, in NEΩTEPA, 2023, 1, 110-114), l’Amministrazione – in quanto attore sostanziale – è gravata dall’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa impositiva; il contribuente, in risposta, può articolare difese e allegazioni, senza subire un’inversione dell’onere probatorio se non nei limiti tracciati dalla giurisprudenza.

La casistica evidenzia come, anche in presenza di atti impositivi fondati su presunzioni o su verbali di constatazione, il contribuente possa contrapporre prove contrarie di ogni tipo, incluse dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale. In questo ambito, la giurisprudenza di legittimità ha progressivamente ammesso l’utilizzabilità di tali dichiarazioni quali meri indizi, anticipando di fatto l’innovazione introdotta dalla riforma del 2022. La possibilità di introdurre testimonianze per iscritto – ex art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 546/1992, come modificato dalla L. n. 130/2022 – ha colmato un vuoto strutturale che penalizzava il contribuente, privandolo della possibilità di far escutere testimoni formali, a fronte della piena utilizzabilità, da parte del fisco, di dichiarazioni rese a funzionari durante le verifiche. Glendi (L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!, in Dir. prat. trib., 2022, 6, 2192 ss.) ha definito tale apertura una “rivoluzione copernicana”, idonea a riequilibrare le posizioni processuali.

Resta comunque affidata al giudice la valutazione sulla rilevanza e necessità della testimonianza, che potrà essere ammessa solo se funzionale all’accertamento e congrua rispetto al thema decidendum. Ma il dato rilevante è che oggi il contribuente non è più costretto a subire unilateralmente le risultanze raccolte in sede istruttoria amministrativa: può chiedere di formalizzarle o di introdurre dichiarazioni testimoniali contrapposte, dando forma giuridica a quella verità fattuale che prima poteva solo alludere con strumenti documentali indiretti.

Un profilo particolarmente rilevante attiene all’obbligo motivazionale gravante sul giudice tributario, che permane anche in assenza di vincoli formali derivanti dalla mancata valutazione della perizia di parte. La Cassazione, pur escludendo che tale omissione configuri vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riafferma la necessità che la motivazione giudiziale sia logicamente coerente e strutturalmente compatibile con l’impianto difensivo disatteso, così da rendere intellegibile la ratio decidendi. L’assetto processuale delineato consente, pertanto, al contribuente di esercitare un diritto alla prova pienamente effettivo, purché incanalato entro i confini della legalità processuale.

In questa prospettiva, il “diritto alla prova” si configura non come pretesa di ottenere un accoglimento automatico delle proprie allegazioni, ma come garanzia di un procedimento probatorio equo, nel quale ogni elemento – compresa la perizia stragiudiziale – sia esaminato con attenzione e valutato secondo criteri chiari e razionalmente motivati.

Come efficacemente evidenziato da Marcheselli (Relazione sull’onere della prova nel processo tributario alla luce della recente riforma, Relazione al Convegno di Studi “La riforma del processo tributario: aspetti sostanziali e processuali”, 7 gennaio 2025), un’eccessiva compressione delle facoltà probatorie del contribuente rischierebbe di compromettere l’equilibrio tra verità sostanziale e verità giuridica, con effetti distorsivi sull’intero sistema della giustizia tributaria. L’approccio della Suprema Corte, che riconduce la perizia al ruolo di ausilio tecnico-difensivo non vincolante, assicura dunque il rispetto delle garanzie processuali, preservando al contempo l’integrità epistemologica del giudizio attraverso il filtro critico del contraddittorio e della valutazione giudiziale razionalmente motivata.

6. Il punto di arrivo cui conduce l’ordinanza annotata è una ricomposizione armonica di principi noti ma talvolta fraintesi: il diritto alla prova, la parità delle armi, la libertà di giudizio. Questi, se ben riletti, non si pongono in tensione con la marginalizzazione della perizia stragiudiziale, ma ne costituiscono la legittimazione più profonda.

Non si tratta, invero, di negare cittadinanza processuale alla perizia tecnica unilaterale; si tratta, più precisamente, di rifiutarne una funzione impropria, quella di surrogato della prova in senso proprio. È, per così dire, uno strumento che può aspirare a essere ascoltato, non imposto; valorizzabile, non impositivo; stimolante, ma non fondante. La sua voce, se isolata, resta eco, non parola risolutiva.

Del resto, che un elaborato tecnico, predisposto unilateralmente e senza le garanzie del contraddittorio, possa incidere in modo dirimente sull’esito di un giudizio sarebbe affermazione gravida di conseguenze sistemiche: significherebbe accettare che la verità processuale possa essere unilaterale, e che il controllo giurisdizionale abdichi al sapere esperto, non nella sua forma dialettica, ma nella sua pretesa dogmatica.

Il giudice tributario, titolare di poteri valutativi e di una responsabilità epistemica, non è chiamato a recepire – ma a giudicare; non a sommare gli enunciati delle parti, ma a filtrarli alla luce del diritto e della coerenza.

La perizia di parte, in questa prospettiva, non è conclusione già formata, ma contributo iniziale al percorso valutativo: non “punto di partenza” in senso statico, ma stimolo dialettico destinato ad essere integrato e verificato nel quadro complessivo dell’istruttoria.

Il sistema delineato dall’ordinanza, allora, più che comprimere le garanzie del contraddittorio, le rafforza nella loro essenza: non come mera possibilità formale di esprimere una tesi, ma come concreta occasione di incidere sul giudizio attraverso strumenti probatori efficaci e verificabili. In questo senso, il contraddittorio non è un orpello retorico, ma la sede in cui la prova si misura e si confronta, garantendo equilibrio tra le parti e imparzialità della decisione.

Che la verità processuale si costruisca per interazione critica e motivata, è conquista recente e ancora fragile. L’atto unilaterale, il documento tecnico, la relazione specialistica: tutti questi elementi possono concorrere, ma nessuno può prevalere, se non mediante il vaglio del giudice.

E se il giudice, nella sua discrezionalità, sceglie di non valorizzare, purché motivi o lasci intendere la ragione del suo convincimento, non tradisce, ma esercita il proprio ruolo.

La giustizia tributaria – nella misura in cui si fonda su prove legalmente acquisite, su un contraddittorio effettivo e su una motivazione razionale – dunque non esclude la perizia di parte, ma ne colloca la funzione nel corretto equilibrio: da elemento dialettico di stimolo a possibile supporto tecnico, senza mai assumerla come verità definitiva. In questa gerarchia, tanto formale quanto sostanziale, si radica la dignità del processo e la legittimità della decisione.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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