Zero price market e consenso al trattamento dei dati personali nel sistema dell’IVA

Di Eugenio Della Valle -

Abstract (*)

Il contributo analizza il tema della rilevanza ai fini IVA del rilascio del consenso al trattamento dei dati personali a fronte della fruizione di servizi resi tramite piattaforme digitali; tema che si presenta di grande attualità sia in ragione della nota campagna accertativa avviata dall’Agenzia delle Entrate a carico dei gestori di alcune piattaforme digitali (Meta, X, Linkedin, ecc.) , sia della diffusione del c.d. zero price market ossia l’area dei servizi digitali privi di un corrispettivo monetario (free of monetary charge).

Zero price market and consent to the processing of personal data in the VAT system – This paper examines the VAT implications of giving consent to the processing of personal data in relation to the use of services provided by digital platforms. This topic is particularly timely, both due to the well-known assessment launched by the Italian Tax Administration against certain digital platforms (Meta, X, LinkedIn, etc.), and the spread of the so-called zero price market, i.e. the area of digital services that are free of monetary charge.

Sommario: 1. Premessa. – 2. L’opinione del Comitato IVA. – 3. La dimensione privatistica del consenso al trattamento dei dati personali. – 4. La valorizzazione economica del consenso al trattamento dei dati personali nella giurisprudenza amministrativa e civile di merito. – 5. Controvalore (o corrispettivo) ed onerosità nel sistema dell’IVA. – 6. La natura “non corrispettiva” del consenso al trattamento dei dati personali nel sistema dell’IVA. – 7. La incerta determinazione della base imponibile. – 8. Conclusioni.

1. Il tema della rilevanza ai fini IVA del rilascio del consenso al trattamento dei dati personali a fronte della fruizione di servizi resi tramite piattaforme digitali è di grande attualità e ciò vuoi in ragione della nota campagna accertativa avviata dall’Agenzia delle Entrate a carico dei gestori di alcune piattaforme digitali (Meta, X, Linkedin, etc.)1, vuoi della diffusione del c.d. zero price market ossia l’area dei servizi digitali privi di un corrispettivo monetario (free of monetary charge) che, appunto, raccolgono i dati degli utenti (motori di ricerca, app gratuite e piattaforme di streaming con pubblicità, social network, servizi di archiviazione di informazioni, di materiali visivi o audiovisivi, di posta elettronica, applicazioni per PC, smartphone o tablet2); come noto, a fronte dell’erogazione di tali servizi digitali l’utente – che qui si considera operare come consumatore finale – fornisce comunque una serie di dati personali, ulteriori rispetto a quelli necessari per la mera erogazione dei servizi medesimi3, il cui sfruttamento è in grado di apportare una serie di vantaggi patrimoniali al gestore della piattaforma, conferendo al dato un incontrovertibile valore economico allorquando considerato in una ai dati personali forniti dagli altri utenti della piattaforma (per i diversi scenari in cui si inserisce il consenso al trattamento dei dati personali a fronte di IT services v., tra gli altri, Tomassetti C. – Orlando E., Digital Zero-Price Market – VAT Consequences, in International VAT Monitor, 2023, 116-117).

Alla campagna accertativa di cui sopra si accompagna, come noto, una correlata indagine della Procura milanese; della sua conclusione, quanto al caso Meta, è stato dato ampio risalto dai media, dai quali si apprende come la contestazione, rivolta ad una società del gruppo Meta con sede a Dublino, sulla quale convergono i ricavi pubblicitari realizzati a livello mondiale dal gruppo (ad eccezione degli USA), consiste nell’omessa dichiarazione IVA in Italia (che, nella ricostruzione dei verificatori, avrebbe dovuto tracciare, tra l’altro, il fatturato derivante dai servizi digitali resi dalla società a titolo oneroso) per i periodi d’imposta dal 2015 al 2021 per un imponibile di quasi 4 miliardi di euro con conseguente evasione del tributo per poco meno di 900 milioni di euro.

La tesi erariale da cui muove la campagna accertativa ed il correlato procedimento penale è la natura permutativa del rapporto piattaforma/utente per cui, a fronte del servizio reso dal gestore della prima senza alcun corrispettivo in denaro, vi sarebbe la controprestazione (obbligazione di fare, di non fare o di permettere e, dunque, altro servizio) ad esso connessa sinallagmaticamente, consistente nel concedere l’uso dei propri dati personali al soggetto che rende il servizio per il tramite della piattaforma (sul punto, in particolare, Stevanato D., Effetti inaspettati dell’evasione IVA contestata ai social, in Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2025, 16)4. Come noto, infatti, la richiesta del predetto consenso per le più diverse finalità è oramai prassi comune anche per la fruizione di servizi on line a pagamento, laddove, dunque, al corrispettivo in denaro accede la messa a disposizione dei dati relativi all’utente, quand’anche non “personali” in senso stretto (non lo è, ad esempio, la c.d. geolocalizzazione).

Il rilascio del consenso al trattamento dei dati personali dell’utente della piattaforma digitale è fenomeno capillarmente diffuso5 onde evidente è l’interesse ad interrogarsi sulla fondatezza o meno della tesi erariale con riferimento, appunto, al mercato dello zero-price assumendo, come detto, un utente che operi come consumatore finale (per ulteriori considerazioni sul punto, v. ancora Stevanato D., op. e loc. cit.)6.

E ciò senza considerare in questa sede le eventuali ripercussioni che la suddetta tesi potrebbe avere lato utente che fornisce i dati posto che, ove realmente lo scambio servizi resi dal gestore della piattaforma vs/ dati personali fosse realmente un’operazione permutativa, allora occorrerebbe anche interrogarsi su cosa accade, sotto un profilo fiscale (non solo ai fini dell’IVA), nella prospettiva della prestazione resa dall’utente (su tale prospettiva v. Stevanato D., op. e loc. cit.)7.

2. A tal fine va subito dato conto del fatto che la tesi erariale8 si pone comunque in contrasto con l’opinione espressa in passato sul tema che ne occupa dal Comitato IVA, compulsato sul punto dal Governo tedesco9.

Secondo il predetto Comitato, infatti, lo “scambio” del servizio reso dal gestore di piattaforme digitali privo di remunerazione in denaro a fronte del consenso al trattamento dei dati dell’utente non costituisce operazione rilevante ai fini IVA, né lato gestore, né lato utente.

A tale conclusione il Comitato è pervenuto, lato gestore della piattaforma, sulla base dell’argomento per cui, non potendosi accertare la quantità e la qualità dei dati messi a disposizione dall’utente delle piattaforme per l’accesso ai servizi on line, non è possibile considerare verificato il requisito della onerosità dell’operazione (il direct link tra IT service e consenso di cui alla giurisprudenza unionale infra rassegnata), che è un elemento in linea generale condizionante l’applicazione dell’imposta.

In estrema sintesi il Comitato osserva come le IT companies prestano i loro servizi allo stesso modo indipendentemente dall’ammontare dei dati forniti dagli utenti o dalla loro qualità ed indipendentemente da quanto l’utente usa i predetti servizi; e ciò senza considerare che nulla garantisce la veridicità dei dati ceduti, ben potendo l’utente della piattaforma fornire informazioni completamente false, incomplete o magari solo non aggiornate: così la prestazione fornita dall’utente avrebbe un valore economico nullo, non significante per l’impresa che gestisce i servizi on line.

E se nulla può garantire il valore dei dati messi a disposizione, allora non è parimenti possibile ricostruire un meccanismo di natura negoziale tra gestore della piattaforma e utente della medesima, o più precisamente tale correlazione sussiste ma, stante la sua natura aleatoria l’IVA non trova applicazione (questa conclusione viene ritenuta non più sostenibile nel contesto giuridico attuale da Greggi M., Le operazioni permutative nell’IVA: il caso della cessione dei dati personali, in Riv. Guard. Fin., 2024, 78)10. Oltre a questo, sempre secondo il Comitato, assumendo comunque la rilevanza IVA, lato gestore della piattaforma, dello scambio servizi digitali/dati personali, questi ultimi andrebbero valorizzati tenendo conto di quanto l’IT provider (espressione qui da ritenere equivalente a quella di gestore della piattaforma) sarebbe disposto a pagare per disporre dei dati personali del singolo utente.

3. Il tema della “dimensione” del consenso dell’utente della piattaforma e della natura onerosa o gratuita del rapporto cui lo stesso accede non interessa evidentemente solo il sistema dell’IVA, nel quale, si vedrà tra poco, assume comunque una prospettiva autonoma (per Fidelangeli A., Le nozioni autonome nell’imposta sul valore aggiunto, Pisa, 2024, 141, l’onerosità nel sistema della Direttiva 2006/112/CE costituisce una nozione autonoma “propria” ossia una nozione autonoma che, comunque, nella giurisprudenza unionale, non riceve un’espressa qualificazione in tal senso), ma ancora prima il diritto contrattuale e quello relativo alla c.d. data protection di cui al GDPR.

Ed invero, sebbene il valore patrimoniale dei dati personali sia ormai approdo pacifico, la loro configurabilità alla stregua di una ricchezza suscettibile di essere oggetto di scambio è tema che, in disparte la prospettiva tributaria, alimenta tuttora un vivace dibattito che coinvolge, appunto, sia la dottrina privatistica che le Autorità di regolazione.

Dibattito che, in estrema sintesi, vede contrapposti in dottrina, con diverse sfumature, due orientamenti.

Secondo una prospettiva, per così dire, personalistica il suddetto consenso, quando rilevante ai fini della fornitura di servizi dell’informazione (dunque dell’economia digitale), non costituirebbe elemento del contratto, rimanendo ad esso estraneo (così Irti C., Consenso “negoziato” e circolazione dei dati personali, Torino, 2021, 77 e Lucchini Guastalla E., Il nuovo regolamento europeo sul trattamento dei dati personali: i principi ispiratori, in Contr. impresa, 2018, 1, 116 ss.).

In relazione ai servizi in questione si riscontrerebbe, dunque, un duplice consenso ossia quello con funzione “negoziale” in base al quale si conclude il contratto, da distinguere concettualmente ed operativamente da quello avente ad oggetto il trattamento dei dati personali.

Con il primo consenso, in particolare, il consumatore otterrebbe la fornitura di un servizio mercè un contratto con cui l’impresa si obbliga ad erogarlo a fronte dell’impegno (non l’obbligo11) del consumatore ad esprimere il proprio consenso al trattamento dei dati personali. Il consenso al trattamento di tali dati costituirebbe, così, un diverso consenso con il quale si attribuisce al fornitore del servizio la possibilità di trattare i dati personali altrui; questo secondo consenso, atto unilaterale, gratuito e sempre revocabile, avrebbe natura “autorizzativa” assimilabile alla scriminante del consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p., mediante il quale un terzo viene abilitato a ingerirsi nella propria sfera giuridica soggettiva e, segnatamente, nella propria sfera morale (cfr. Resta G., I dati personali oggetto del contratto. Riflessioni sul coordinamento tra la Direttiva (UE) 2019/770 e il Regolamento (UE) 2016/679, in Ricciuto V. – Solinas C., a cura di, Forniture di servizi digitali e “pagamento” con la prestazione dei dati personali. Un discusso profilo dell’economia digitale, Milano, 2022, 74 s.; diversa, tuttavia, è la posizione di Bravo F., Lo “scambio di dati personali” nei contratti di fornitura di servizi digitali e il consenso dell’interessato tra autorizzazione e contratto, in Contr. impr., 2019, 1, 42 ss.).

Il consenso “negoziale” darebbe invece origine ad un rapporto contrattuale definibile in termini di contratto con obbligazioni a carico del solo proponente giacchè, nella prospettiva in questione, il consumatore non si obbliga a concedere il consenso al trattamento dei propri dati, attività libera ed incoercibile nel suo determinarsi (inquadra l’operazione economica che ne occupa nell’ambito delle promesse condizionate ad una prestazione Irti C., op. cit., 110).

All’opposto, nella prospettiva patrimonialistica e negoziale il consenso al trattamento dei dati personali non è affatto estraneo al contratto di fornitura del servizio digitale. In tale fornitura vi sarebbe un solo consenso, inequivocabilmente elemento di una fattispecie negoziale.

In questa prospettiva il consenso si inserisce in una vicenda di circolazione della ricchezza essendo prestato in vista ed in occasione dell’ottenimento di un servizio o bene da parte del titolare dei dati. Il profilo funzionale del consenso ne evidenzia la dimensione contrattuale e la prospettiva di scambio (in questi termini Ricciuto V., Il consenso negoziale nella circolazione dei dati personali, in Morace Pinelli A., a cura di, La circolazione dei dati personali. Persona, contratto e mercato, Pisa, 2023, 65 ss.; Id., Consenso al trattamento e contratto, in Orlando S., a cura di, Libertà e liceità del consenso nel trattamento dei dati personali, Firenze, 2024, 28 ss.; conf. Barbi L., Sui contratti di scambio servizi contro dati: prime riflessioni della giurisprudenza di merito, in Contr. impr., 2023, 4, 1224); ciò che verrebbe in qualche modo confermato, non senza qualche ambiguità, dalla Direttiva UE 2019/770 con la quale il legislatore europeo, nell’intento d’instaurare un “mercato unico digitale” garantendo, al contempo, un elevato livello di tutela dei consumatori, ha emanato una disciplina che trova applicazione non solo con riferimento a tutti i contratti in cui vengono forniti contenuti o servizi digitali in cambio di un corrispettivo pecuniario, ma anche laddove «l’operatore economico fornisce o si impegna a fornire contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore» e il consumatore «fornisce o si impegna a fornire dati personali all’operatore economico»; disposizione, questa, recepita all’art. 135-octies del Codice del consumo (D.Lgs. n. 206/2005), introdotto dall’art. 1, comma 4, D.Lgs. n. 173/2021 (attuativo della citata Direttiva UE 2019/770), laddove si utilizza una terminologia maggiormente evocativa del diritto delle obbligazioni, in quanto prevede che «Le disposizioni del presente capo si applicano altresì nel caso in cui il professionista fornisce o si obbliga» – in luogo di “si impegna” – «a fornire un contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore e il consumatore fornisce o si obbliga a fornire dati personali al professionista» (sul punto, Barbi L., op. cit., 1219, in nota 10)12.

Onde garantire al consumatore la protezione della Direttiva UE 2019/770 quand’anche il servizio venga fornito in assenza di una controprestazione monetaria, si tipizza con la su riportata previsione il contratto che realizza lo “scambio” tra servizi e dati personali e ciò, tuttavia, senza prendere posizione in ordine alla natura onerosa o gratuita del contratto (sui concetti di onerosità e di gratuità e sulla tendenza a considerare la nozione di onerosità comprensiva di quella di corrispettività, v. Gatt L., Onerosità, gratuità, liberalità, in Ficari V. – Mastroiacovo V., a cura di, Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari, Torino, 2014, 43 ss., ove ampi riferimenti bibliografici).

Alla tesi della dimensione contrattuale del consenso non osterebbe peraltro la circostanza della revocabilità dello stesso contemplata dall’art. 7, par. 3, GDPR, la revoca operando ex nunc, alla stregua di un recesso, senza determinare l’illegittimità del trattamento dei dati personali posto in essere sino a quel momento.

4. La dimensione economica e negoziale (in termini di controprestazione) del consenso al trattamento dei dati personali emerge inequivocabilmente nella giurisprudenza amministrativa ed in quella civile di merito.

Quanto alla prima, è celebre la sentenza della sesta Sezione del Consiglio di Stato n. 2631/2021 relativa al gruppo Meta, segnatamente ad una consociata irlandese (Facebook Ireland Limited, di seguito solo “FB”) destinataria di un provvedimento dell’AGCM del 29 novembre 2018 (provv. n. 27432), confermato dal TAR Lazio, 10 gennaio 2020, nn. 260 e 261, di inibitoria di due pratiche commerciali scorrette, siccome poste in violazione di alcune disposizioni del Codice del consumo, e di irrogazione di sanzioni pecuniarie per complessivi 10 milioni di euro.

Per quanto interessa in questa sede, una delle due pratiche consisteva, secondo l’AGCM, nella «violazione degli artt. 20, 21 e 22 del Codice del consumo, in quanto il professionista non informerebbe adeguatamente e immediatamente l’utente, in fase di attivazione dell’account, dell’attività di raccolta e utilizzo, per finalità informative e/o commerciali, dei dati che egli cede, rendendolo edotto della sola gratuità della fruizione del servizio, così da indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso (registrazione al social network e permanenza nel medesimo)».

Si legge, tra l’altro, nel suddetto provvedimento dell’AGCM che «il business model del gruppo FB si fonda proprio sulla raccolta e sfruttamento dei dati degli utenti a fini remunerativi configurandosi, pertanto, tali dati come contro-prestazione del servizio offerto dal social network, in quanto dotati di valore commerciale» e che «il patrimonio informativo costituito dai dati degli utenti di FB, utilizzato per la profilazione degli utenti medesimi a uso commerciale e per finalità di marketing, acquista, proprio in ragione di tale uso, un valore economico idoneo a configurare l’esistenza di un rapporto di consumo tra il Professionista e l’utente che utilizza i servizi di FB (tramite sito e app), anche in assenza di corrispettivo monetario» (sul punto richiamandosi il consolidato orientamento della Commissione europea volto a riconoscere che «[i] dati personali, le preferenze dei consumatori e altri contenuti generati dagli utenti hanno un valore economico de facto» e che «La natura di controprestazione non pecuniaria dei dati degli utenti dei social media è ribadita, oltre che in sede di tutela del consumatore, anche nell’ambito della valutazione delle concentrazioni tra imprese. In particolare, nel caso No. COMP/M.7217 – FACEBOOK/WHATSAPP, la Commissione, nell’esaminare i profili concorrenziali dell’acquisizione di WhatsApp da parte di Facebook, ha affermato che “[t]he vast majority of social networking services are provided free of monetary charges. They can however be monetized through other means, such as advertising or charges for premium services».

Di fronte ad un siffatto contesto motivazionale, il Consiglio di Stato, nel ricordare al punto 9 della propria sentenza che «il rimprovero rivolto al professionista consisterebbe nel non aver informato l’utente, che in questo caso si trasforma tecnicamente in “consumatore”, nel momento in cui rende disponibili i propri dati al fine di potere utilizzare gratuitamente i servizi offerti dalle società FB, prima di tale operazione, nell’ambito della quale l’utente resta convinto che il conseguimento dei vantaggi collegati con l’accesso alla piattaforma sia gratuito, non potendo quindi riconoscere ed accorgersi che a fronte del vantaggio si realizza una automatica profilazione ad uso commerciale, non chiaramente ed immediatamente indicata, all’atto del primo accesso, quale inevitabile conseguenza della messa a disposizione dei dati», conclude al successivo punto 10 nel senso della natura ingannevole della pratica commerciale in questione in quanto tra l’altro «(per come si legge testualmente al punto 55 del provvedimento sanzionatorio) […] Facebook non informa l’utente con chiarezza e immediatezza in merito alla raccolta e all’utilizzo, a fini remunerativi, dei dati dell’utente da parte del Professionista e, conseguentemente, dell’intento commerciale perseguito, volto alla monetizzazione dei medesimi; – le informazioni fornite risultano generiche ed incomplete senza adeguatamente distinguere tra, da un lato, l’utilizzo dei dati funzionale alla personalizzazione del servizio con l’obiettivo di facilitare la socializzazione con altri utenti “consumatori”, dall’altro, l’utilizzo dei dati per realizzare campagne pubblicitarie mirate», a ciò aggiungendosi, «quale aggravante del comportamento significativamente ingannevole, che nell’uso di FB, le finalità commerciali si prestano ad essere confuse con le finalità sociali e culturali, tipiche di un social network; – infatti, nella pagina di registrazione a FB, a fronte del claim “Facebook ti aiuta a connetterti e rimanere in contatto con le persone della tua vita”, rileva, dunque, l’assenza di un adeguato alert che informi gli utenti, con immediatezza ed efficacia, in merito alla centralità del valore commerciale dei propri dati rispetto al servizio di social network offerto, limitandosi FB a sottolineare come l’iscrizione sia gratuita per sempre».

La corrispettività del consenso che in tale precedente risulta, invero, in controluce, è affermata in modo più chiaro nella sentenza del Consiglio di Stato 7 gennaio 2025, n. 80 laddove si legge che «Lo sfruttamento dei dati personali, infatti, si configura come una controprestazione del servizio offerto dal professionista, in quanto dotato di valore commerciale». Affermazione, questa, che va letta in una ai passi secondo cui «Il professionista raccoglie i dati personali degli utenti e li usa a fini di profilazione per terzi con vendita di spazi pubblicitari e, quindi, con attività di intermediazione pubblicitaria e quant’altro», così sostanzialmente creandosi «un rapporto trilatero: il consumatore accede ai servizi di G. consentendo, inconsapevolmente anche se non obbligatoriamente (vale a dire in assenza di una corretta e adeguata informazione: è questo il profilo critico rilevato dall’A.), l’utilizzo dei propri dati a G., il quale cede i dati a terzi previo corrispettivo per le inserzioni pubblicitarie. In altre parole: i consumatori accedono ai servizi offerti da G.; G. cede i dati personali oggetto di profilazione dietro corrispettivo e le imprese pubblicizzano a pagamento i loro prodotti».

Emerge dai passi sopra riprodotti come la dimensione economica e corrispettiva del consenso parrebbe essere ricavata dal giudice amministrativo, onde confermare l’illecito consumeristico, più che in funzione diretta del rapporto professionista/utente, valorizzando quello tra professionista ed imprese interessate ai dati raccolti mercè la piattaforma; il valore commerciale dei dati è, infatti, ricavato dalla particolare funzione della loro raccolta ossia la destinazione all’utilizzo di terzi verso corrispettivo monetario.

Sostanzialmente nello stesso senso, nell’esprimersi sui contratti stipulati tra il gestore del noto social network Facebook e gli utenti, risulta anche la giurisprudenza civile di merito, la quale, anche valorizzando la giurisprudenza amministrativa, qualifica il rapporto negoziale intercorrente tra le predette parti come, appunto, un contratto oneroso a prestazioni corrispettive in cui «alla prestazione del servizio da parte del gestore corrisponde il suo interesse ad utilizzare i contenuti, le reti di relazioni e i dati personali dell’utente, a fini di raccolta pubblicitaria» (v. Trib. Bologna, ord. 10 marzo 2021, n. 5206, 4.1.).

In particolare, in alcuni precedenti nel qualificare il contratto che l’utente stipula con il gestore della piattaforma come contratto per adesione, ex art. 1342 c.c. (cfr. App. L’ Aquila, sent. 9 novembre 2021, n. 1659, 8.2.e 8.3, Trib. Varese, ord. 27 luglio 2022, n. 1181, 3.3. e 3.4.), laddove il regolamento contrattuale è determinato unilateralmente dalla società e l’utente si limita ad aderirvi con l’iscrizione alla piattaforma (iscrizione con cui l’utente accetta le c.d. “Condizioni d’uso”, ossia le condizioni generali di contratto, predisposte dalla piattaforma alla luce delle quali indagare il contenuto economico dell’operazione negoziale) si afferma che la prestazione del social network, offrire cioè un servizio di rete mediante il quale entrare in contatto con altri utenti, creando community virtuali all’interno delle quali condividere informazioni e contenuti, e scambiarsi messaggi, viene fornita a fronte della controprestazione rappresentata dalla facoltà di sfruttare commercialmente i dati personali dell’utente (Trib. Bologna, cit., 4.1. e App. L’Aquila, cit., 8.3.).

Si legge altresì nei precedenti in questione che l’utente, «concedendo al social la facoltà di utilizzare i propri dati personali, permette a quest’ultimo di conseguire un ritorno economico» (Trib. Varese, cit., 3.3.) e che la corrispettività delle prestazioni si ricava anche dalla citata Direttiva 2019/770/UE; non potendosi negare il carattere patrimoniale della prestazione dell’utente alla luce delle condizioni contrattuali atteso che, a titolo di corrispettivo per il servizio ricevuto dal social, l’utente «cede a quest’ultimo beni, diversi dal denaro, che possono essere sfruttati in modo commerciale e sono, quindi, beni suscettibili di una valutazione economica» (Trib. Varese, cit., 3.4.).

L’assenza di un prezzo non permette, dunque, «di assumere che l’utente, consentendo l’utilizzo e la diffusione dei propri messaggi e contenuti non fornisca una prestazione che è, anch’essa, suscettibile di valutazione economica» (Trib. Varese, cit., 3.4.) giacchè con l’iscrizione alla piattaforma, l’utente accetta che i propri dati vengano raccolti ed utilizzati per finalità commerciali.

Nel business model di un social il consenso al trattamento dei dati personali forniti dagli utenti, pur privo in sé di un contenuto patrimoniale direttamente percepibile, riveste un ruolo centrale in quanto la società trae i propri guadagni dall’elaborazione degli stessi dati e dalla loro messa a disposizione a terzi verso corrispettivo. Cosicchè in tale modello il consentire l’utilizzo dei propri dati personali va considerato, per la giurisprudenza in questione, alla stessa stregua di un corrispettivo (App. L’Aquila, cit., 8.3.); atteso, infatti, il manifesto valore economico dei dati, la loro fornitura da parte degli utenti presenta entrambi i requisiti richiesti dall’art. 1174 c.c. per la qualificazione della prestazione ossia la patrimonialità e la finalizzazione al soddisfacimento dell’interesse creditorio (Trib. Bologna, cit., 4.1.).

5. Ciò rilevato quanto alla dimensione del consenso al trattamento dei dati personali a fronte della fornitura di servizi digitali free of monetary charge nella disciplina consumeristica, nell’ordinamento privatistico ed in quella concernente la c.d. data protection, nel sistema dell’IVA di cui alla Direttiva 2006/112/CE (di seguito “Direttiva”), l’approccio al tema deve prescindere, metodologicamente, dai risultati cui si approda altrove.

Ed invero, va subito detto che, diversamente dalla normativa interna attuativa (v. gli artt. 11, comma 1 e l’art. 13, comma 2, lett. d), D.P.R. n. 633/72), la Direttiva non contempla in modo esplicito le operazioni permutative né sotto il profilo definitorio, né sotto quello della relativa base imponibile, e ciò sul presupposto che trattasi comunque di operazioni aventi carattere oneroso la cui disciplina è, dunque, quella ordinaria di cui all’art. 2 della Direttiva medesima.

In particolare, le lettere a) e c), del primo paragrafo di detta disposizione prevedono che siano soggette al tributo che ne occupa le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale; onerosità che è del resto evocata, direttamente o indirettamente, vuoi dall’art. 1, par. 2, della stessa Direttiva laddove si afferma che «Il principio del sistema comune d’IVA consiste nell’applicare ai beni ed ai servizi un’imposta generale sui consumi esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi […]», vuoi dall’art. 73 secondo cui la base imponibile è rappresentata da «tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo».

È corrispettivo o prezzo (“controvalore” nell’art. 8 della seconda Direttiva ossia la n. 228 dell’11 aprile 1967), dunque, anche il bene od il servizio fornito in cambio di altro bene od altro servizio (sottolinea Fidelangeli A., op. cit. 150, come la centralità del corrispettivo nel sistema dell’IVA fosse «evidente sin dalla Prima direttiva il cui art. 2 affermava che ai beni e ai servizi doveva applicarsi un’imposta generale e proporzionale al prezzo»); è d’altronde il principio di parità di trattamento, di cui quello di neutralità fiscale costituisce un’espressione particolare a livello di diritto derivato dell’Unione e nel settore peculiare della fiscalità, che impone di trattare allo stesso modo i contratti di permuta, in cui il corrispettivo è per definizione in natura, e le operazioni per le quali il corrispettivo è in denaro, trattandosi, dal punto di vista economico e commerciale, di due situazioni identiche (così CGUE 3 luglio 1997, C‑330/95, Goldsmiths, punti 23 e 25 e CGUE 19 dicembre 2012, causa C-549/11, Orfey Bulgaria EOOD, punti da 33 a 35; sulla differenza tra il modello domestico del contratto di permuta e l’operazione permutativa che ne occupa v. Greggi M., op. cit., 70 s.).

È evidente la intima connessione tra i concetti unionali di onerosità, il quale, a sua volta, si salda con quello di attività economica di cui all’art. 9 Direttiva (v. CGUE 29 ottobre 2009, C-246/08, Commission of the European Communities v. Republic of Finland, punto 51 e 12 maggio 2016, C-520/14, Gemeente Borsele v. Staatssecretaris van Financien, punti da 20 a 23, e di corrispettivo o prezzo. Questo secondo non rileva solo ai fini della determinazione della base imponibile e dell’imposta, ma ancor prima onde individuare l’operazione che rientra nel campo di applicazione del tributo, la quale, di regola, presuppone l’onerosità (su tale concetto nel sistema dell’IVA, il quale diversamente dal settore civilistico, si sovrappone a quello di corrispettività, v., tra gli altri, Castaldi L., Le operazioni imponibili, in Tesauro F., a cura di, L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001, 53 ss.; Ficari V., Corrispettività, onerosità e gratuità nella fiscalità di impresa, in Riv. trim. dir. trib., 2018, 2, 273 ss.; Comelli A., Il requisito dell’onerosità in relazione alle prestazioni di servizi, in Dir. prat. trib., 1995, II, 231 ss.); ed invero, senza un corrispettivo od un prezzo, in denaro o in natura, non vi sarebbe, di regola, un’operazione economica rilevante ai fini del tributo.

Nella giurisprudenza euro-unitaria i due concetti parrebbero quasi sovrapporsi (cfr., ex plurimis, CGUE 26 ottobre 2023, causa C-249/22, GIS, punto 32), ma, a ben vedere, mantengono una loro differenziazione teorica.

Entrambi (assumendone la distinzione), comunque, consistono in nozioni autonome, il cui significato è indipendente da quello loro attribuito dai diritti nazionali.

Esprimendosi in relazione alla nozione di controvalore utilizzata nella seconda Direttiva, la Corte di Giustizia ha, in particolare, ritenuto che, non rinviando detta disposizione al diritto degli Stati membri per la determinazione del proprio significato e della propria portata, l’interpretazione del termine non può essere lasciato alla discrezionalità di ciascuno Stato membro (così CGUE 5 febbraio 1981, causa C-154/80, Coöperatieve Aardappelenbewaarplaats, punto 9); e lo stesso è a dirsi dell’onerosità (un tal senso le conclusioni dell’Avvocato Generale Szpunar, 25 maggio 2023, causa C-249/22, GIS, e CGUE 26 ottobre 2023 relativa alla predetta causa C-249/22, punto 33).

Quanto al concetto di corrispettivo, ritiene la Corte di Giustizia che debba poter essere espresso in denaro e che trattasi di un valore soggettivo, rappresentando ciò che per la parte costituisce l’effettiva contropartita della propria prestazione; per i giudici unionali, in particolare, deve trattarsi del corrispettivo realmente ricevuto (anche in natura) e non già di un valore stimato secondo criteri obiettivi (tra le altre, in questo senso, v. la citata CGUE Coöperatieve Aardappelenbewaarplaats, punto 13; CGUE 23 novembre 1988, C-230/87, Naturally Yours Cosmetics Ltd., punto 16; CGUE 24 ottobre 1996, causa C-317/94, Elida Gibbs Ltd., punto 27; CGUE 3 luglio 2001, causa C-380/99, Bertelsmann AG, punto 22) ovvero di somme il cui ammontare non sia determinato o determinabile (CGUE, 3 marzo 1994, causa C-16/93, R.J. Tolsma, punto 20).

L’onerosità dipende, invece, dal rapporto che lega le due parti dell’operazione. Ed invero, per la Corte di Giustizia, una prestazione di servizi è effettuata a titolo oneroso «e, pertanto, configura un’operazione imponibile solo quando tra l’autore di tale prestazione e il suo destinatario intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avviene uno scambio di prestazioni sinallagmatiche, nel quale il compenso ricevuto dall’autore di tale prestazione costituisce il controvalore effettivo del servizio fornito al beneficiario» (così CGUE 20 giugno 2013, causa C-653/11, HM’ Commissioners of Revenue and Customs v. Paul Newey t/a Ocean Finance, punto 40; conf. CGUE 16 dicembre 2010, C-270/09, MacDonald Resorts, punto 16, e giurisprudenza ivi citata). Ciò che si verifica, ritiene ancora la Corte, «quando esiste un nesso diretto fra il servizio fornito dal prestatore e il controvalore ricevuto, ove le somme versate costituiscono un corrispettivo effettivo di un servizio individualizzabile fornito nell’ambito di un siffatto rapporto giuridico» (così CGUE 5 luglio 2018, C-544/16, Marcandi Ltd, punto 37; conf. le sentenze CGUE, 3 marzo 1994, C-16/93, cit., punti 12-14; 16 dicembre 2010, C‑270/09, cit., punti 16 e 26; 10 novembre 2016, C‑432/15, Baštová, punto 28); nesso che manca allorquando risulti il carattere incerto della stessa esistenza di un compenso (v. la citata sentenza C-432/15, Baštová, punto 29).

Ed ancora, secondo la giurisprudenza unionale, «la possibilità di qualificare una prestazione di servizi come operazione a titolo oneroso presuppone unicamente l’esistenza di un nesso diretto tra tale prestazione e un corrispettivo effettivamente percepito dal soggetto passivo» (così CGUE 3 marzo 1994, causa C-16/93, cit., punti 12-14); a tal fine essendo irrilevante «l’importo del corrispettivo, in particolare la circostanza che esso sia pari, superiore o inferiore ai costi che il soggetto passivo ha sostenuto a suo carico nell’ambito della fornitura della sua prestazione» e, dunque, al prezzo normale di mercato (v., in tal senso, CGUE 20 gennaio 2005, C‑412/03, Hotel Scandic Gåsabäck, punto 22 e CGUE 2 giugno 2016, C‑263/15, Lajvér, punto 45). Infatti, una simile circostanza non è tale da compromettere il nesso diretto esistente tra la prestazione di servizi effettuata e il corrispettivo ricevuto (v. la citata sentenza Lajvér, punto 46 e giurisprudenza ivi citata e CGUE 11 marzo 2020, C-94/19, San Domenico Vetraria S.p.A. v. Agenzia delle entrate, punto 29), salvo il caso in cui la differenza tra la somma corrisposta al prestatore del servizio e la sua teorica remunerazione o i costi operativi necessari per renderlo sia di dimensioni tali da spezzare il nesso sinallagmatico tra detta somma ed il servizio e qualificarlo in termini di mero canone (v. le citate sentenze C-246/08, Commission of the European Communities v. Republic of Finland, punto 38 e C-520/14, Gemeente Borsele, punto 38; nonché CGUE 30 marzo 2023, C-612/21, Gmina O. V., punto 38)13.

La verifica circa il nesso sinallagmatico, ritiene infine la Corte di Giustizia UE, va fatta tenendo conto, da un lato, che la nozione di prestazione di servizi ha «un carattere obiettivo e si applica indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi, senza che l’amministrazione fiscale sia obbligata a procedere ad indagini per accertare la volontà del soggetto passivo» (v. in tal senso, tra le altre, CGUE HM’ Commissioners of Revenue and Customs v. Paul Newey t/a Ocean Finance, cit., punto 41 e CGUE del 21 febbraio 2006, Halifax plc, causa C-255/02, punti 56 e 57); dall’altro che la valutazione della realtà economica e commerciale costituisce un criterio fondamentale per l’applicazione del sistema comune dell’IVA (v., in tal senso, CGUE del 7 ottobre 2010, C-53/09 e C-55/09, Loyalty Management UK e Baxi Group, punti 39 e 40, nonché la giurisprudenza ivi citata) in guisa che, dato «che la situazione contrattuale riflette, di norma, l’effettività economica e commerciale delle operazioni, ed allo scopo di rispettare le esigenze di certezza del diritto, le clausole contrattuali rilevanti costituiscono un elemento da prendere in considerazione quando occorre identificare il prestatore e il destinatario nell’ambito di un’operazione di “prestazione di servizi” ai sensi degli articoli 2, punto 1, e 6, paragrafo 1, della sesta direttiva» (così ancora CGUE HM’ Commissioners of Revenue and Customs v. Paul Newey t/a Ocean Finance, punto 43). Solo allorquando le clausole contrattuali non riflettono totalmente l’effettività economica e commerciale delle operazioni – e cioè quando esse costituiscono una costruzione meramente artificiosa non corrispondente all’effettività economica e commerciale delle operazioni – è dunque lecito non tenerne conto (v. la sopra citata CGUE HM’ Commissioners of Revenue and Customs v. Paul Newey t/a Ocean Finance punti da 44 a 46).

Di qui la conclusione, ritraibile dalla giurisprudenza unionale sopra rassegnata, per cui un servizio è prestato a titolo oneroso tutte le volte in cui vi è una connessione funzionale o “corrispettiva” diretta o, ancora, sinallagmatica tra il servizio medesimo e ciò che viene reso in cambio, in denaro o in natura (il controvalore) a prescindere dalla circostanza che il controvalore (o corrispettivo soggettivo) copra o meno il costo del servizio (salvo il caso dei canoni); il controvalore, in altri termini, vale a remunerare il servizio nel senso che senza il controvalore il servizio non verrebbe reso. Corrispettività che la giurisprudenza unionale impone di verificare in primo luogo avendo riguardo al contenuto degli accordi contrattuali ove conformi all’effettività economica e commerciale dell’operazione.

6. Quali conclusioni trarre dal quadro sopra tratteggiato relativamente al caso che ne occupa dei servizi digitali forniti free of monetary charge ? È possibile affermare che in tali servizi vi sia un nesso sinallagmatico (un nesso diretto) tra l’erogazione del servizio ed il consenso al trattamento dei propri dati personali prestato dall’utente della piattaforma inteso come controvalore (o corrispettivo) soggettivo?

Ed invero, che il suddetto consenso costituisca, sotto il profilo meramente negoziale, conditio sine qua non del servizio fornito tramite la piattaforma, ciò che va accertato, appunto, alla luce delle condizioni generali di contratto, è circostanza che di regola risulta difficile negare.

Il tema piuttosto è, ad avviso di chi scrive, un altro ossia se il consenso al trattamento dei dati personali possa considerarsi o meno un corrispettivo, una controprestazione in senso unionale (nella prospettiva interna sotto forma di obbligazione di fare, non fare o permettere ex art. 3, comma 1, D.P.R. n. 633/1972).

Ed infatti, qualora all’interrogativo si risponda negativamente, mancherebbe il nesso sinallagmatico richiesto dalla giurisprudenza euro-unitaria, il nesso diretto tra fornitura del servizio reso per il tramite della piattaforma digitale e, appunto, un corrispettivo a fronte di tale servizio, mancando, a monte, quest’ultimo.

In particolare l’interrogativo che occorre porsi è se costituisca o meno operazione IVA rilevante anche quella che ne occupa in cui il corrispettivo sarebbe rappresentato da una prestazione in natura il cui valore è sommamente incerto se non del tutto indeterminabile, prestazione avente ad oggetto un facere ossia l’obbligo di prestare il consenso, o, comunque, un pati ossia il consentire l’utilizzo dei propri dati personali, la dimensione della quale non varia in funzione di quanto il servizio reso mediante la piattaforma viene utilizzato dal singolo utente, né della quantità e qualità dei dati forniti.

Nel caso dei servizi resi senza corrispettivo monetario, infatti, la prestazione del consenso al trattamento dei dati personali consente l’accesso al servizio reso mediante la piattaforma digitale quale che sia la tipologia e l’ammontare di dati forniti dall’utente ed il tempo di utilizzo della piattaforma. Onde, prima ancora di indagare il profilo che attiene alla determinazione dell’imponibile, il quale presuppone l’esistenza del nesso sinallagmatico tra i due servizi in natura in questione, il dubbio circa la qualificazione in termini di corrispettivo del consenso e, conseguentemente, circa l’esistenza di quel nesso diretto tra servizio digitale e consenso al trattamento dei dati che dovrebbe caratterizzare l’onerosità ai fini IVA.

È in fondo il dubbio che si è posto il Comitato IVA nel working paper del 2018 cui si è fatto sopra riferimento, secondo il quale l’onerosità nella specie non vi sarebbe (mancherebbe il direct link tra i due servizi) in ragione del fatto che l’IT provider fornisce il servizio a prescindere dall’ammontare dei dati raccolti presso gli utenti e dall’uso del servizio medesimo (conclusione cui accede Marino G., Nella permuta tra utenti e social valore e territorialità i punti critici, in Il Sole 24 Ore, 16 maggio 202514; di diverso avviso, si è visto, è Greggi M., op. cit., 76 ss. e, parrebbe, anche Purpura A., La ricchezza digitale e la tassazione di nuovi indici di capacità contributiva, Milano, 2025, 127 ss.).

Lettura, quella del Comitato, che chi scrive ritiene sostanzialmente condivisibile e nient’affatto superata dai tempi nella sua conclusione consistente nell’irrilevanza IVA del consenso.

Sostanzialmente giacchè l’assenza di onerosità nello scambio che ne occupa ad avviso di chi scrive consegue, prima ancora dall’assenza del direct link tra le prestazioni oggetto dello scambio, dalla mancanza di un corrispettivo soggettivo tale non potendosi considerare, secondo il giudice unionale, ciò che non può essere convertito in denaro in modo certo, inammissibile pure essendo, ancora per lo stesso giudice, il ricorso a stime, benchè basate su criteri oggettivi. Mancando la certa convertibilità in denaro o l’incertezza circa il valore del bene o del servizio che rappresenta la controprestazione, infatti, non vi è corrispettivo in senso unionale e, conseguentemente, non vi può essere onerosità (on senso conforme, sulla base di una completa rassegna della giurisprudenza unionale, v. Tomassetti C. – Orlando E., op. cit., 118).

Conclusione cui non osta il principio, che costituisce ius receptum nella giurisprudenza euro-unitaria, per cui, ai fini della sussistenza dell’onerosità, è irrilevante «l’importo del corrispettivo, in particolare la circostanza che esso sia pari, superiore o inferiore ai costi che il soggetto passivo ha sostenuto a suo carico nell’ambito della fornitura della sua prestazione».

Ed invero, nel caso che ne occupa, ancor prima del tema della proporzionalità o meno del corrispettivo, occorre prendere atto che non vi è un valore certo nel quale convertire i dati forniti dal singolo utente e, dunque, non vi può essere tout court corrispettivo.

Il dato personale acquisito digitalmente è, infatti, un asset intangibile dotato di valore, peraltro neppure certo sotto il profilo reddituale (sul punto, in particolare, Purpura A., op. cit., 93)15, solo se riguarda una moltitudine di utenti che abbia una rilevanza sul piano statistico (sul dato informatico come asset v. ancora Purpura A., op. cit., 85 ss., ove ampi riferimenti bibliografici). Una indiretta conferma sotto il profilo contabile viene dal principio IAS 38 relativo alle attività immateriali, ai sensi del quale, ai fini dell’iscrivibilità dell’asset intangibile nello stato patrimoniale, si richiede non solo la identificabilità ed il controllo dell’asset, bensì anche l’esistenza di benefici futuri, benefici a dir poco aleatori nel caso in cui i dati personali raccolti riguardino il singolo utente.

Dunque i dati personali del singolo utente non hanno alcun valore per l’IT provider e non vi può essere nella specie un tema di proporzionalità del corrispettivo perché un corrispettivo non c’è.

E ciò in disparte la considerazione che, si è sopra visto, l’irrilevanza dell’ammontare del corrispettivo soffre comunque delle eccezioni; trattasi di casi riferibili ad attività svolte da Pubbliche Amministrazioni in cui, onde stabilire l’onerosità o meno delle operazioni implicate da dette attività, si attribuisce rilevanza all’ammontare di ciò che riceve l’ente in relazione ai costi sostenuti all’uopo distinguendo il mero canone dal vero e proprio corrispettivo (v. le citate CGUE Commission of the European Communities v. Republic of Finland, Gemeente Borsele e Gmina O. V.); valorizzazione che, nel nostro caso, si badi bene, non condurrebbe affatto all’assurdo di escludere l’esercizio di un’attività economica da parte di chi fornisce il servizio tramite la piattaforma (considerato che i precedenti in questione riguardano la lettura del concetto di “attività economica”, di cui l’onerosità dell’operazione è evidentemente un’espressione), giacchè l’economicità dell’attività in tal caso va vista, non già in relazione al consenso al trattamento dei propri dati fornito dal singolo utente, bensì in relazione a quanto il prestatore del servizio ritrae da terzi per consentire loro l’utilizzo dell’aggregato dei dati complessivamente raccolti.

È una conclusione, questa ai fini IVA, che solo apparentemente si discosta dall’approdo cui perviene la giurisprudenza amministrativa e civile di merito sopra ricordata giacchè anche in tale giurisprudenza si perviene alla sinallagmaticità sostanzialmente valorizzando l’economicità dell’attività della piattaforma quale deriva dal consentire a terzi, verso corrispettivo monetario, l’utilizzo dei dati personali raccolti dall’universo della comunità degli utenti.

7. Peraltro, anche assumendo il consenso al trattamento dei dati personali quale corrispettivo e l’onerosità (o sinallagmaticità) unionale dell’operazione in questione, rimarrebbe da capire come determinarne la base imponibile.

Sul punto, nella normativa domestica viene in considerazione l’art. 13, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 633/1972 secondo cui la base imponibile «per le cessioni e le prestazioni di servizi di cui all’articolo 11», ossia per le operazioni permutative, appunto, è costituita «dal valore normale dei beni e dei servizi che formano oggetto di ciascuna di esse»; valore normale che, il successivo art. 14, definisce come «l’intero importo che il cessionario o il committente, al medesimo stadio di commercializzazione di quello in cui avviene la cessione di beni o la prestazione di servizi, dovrebbe pagare, in condizioni di libera concorrenza, ad un cedente o prestatore indipendente per ottenere i beni o servizi in questione nel tempo e nel luogo di tale cessione o prestazione», prevedendo comunque, nel secondo comma, che, «Qualora non siano accertabili cessioni di beni o prestazioni di servizi analoghe, per valore normale si intende: […] b) per le prestazioni di servizi, le spese sostenute dal soggetto passivo per l’esecuzione dei servizi medesimi».

Onde, assumendo, in negata ipotesi, l’onerosità dell’operazione permutativa rappresentata dal servizio reso dalla piattaforma senza corrispettivo monetario a fronte del consenso dell’utente al trattamento dei propri dati personali, la base imponibile, stando al quadro normativo domestico, dovrebbe esser pari al valore normale del predetto servizio.

Soluzione che si discosta da quella emergente nella disciplina unionale secondo la quale, come si è sopra ricordato, l’imponibile consiste nel corrispettivo realmente ricevuto e non già in un valore stimato secondo criteri obiettivi, e il valore normale è in effetti un valore stimato (in tal senso v. Maspes P., Il valore normale nell’IVA: discrasie tra disciplina nazionale e disciplina comunitaria, in il fisco, 2014, 25, 2470 s. e dello stesso Autore Il valore nell’IVA fra regole di quantificazione del corrispettivo e disposizioni nazionali e comunitarie: l’uso anormale del valore normale, in Ficari V. – Mastroiacovo V., a cura di, Corrispettività, onerosità e gratuità, cit., 485 ss. (spec. 495-497); Cannizzaro S., Permuta, operazioni permutative e datio in solutum tra normativa europea e disciplina interna, in Ficari V. – Mastroiacovo V., Corrispettività, onerosità e gratuità, cit., 533 ss.; Peirolo M., L’esigibilità e la base imponibile dell’Iva nelle permute, in L’Iva, 2013, 2, 42 ss.).

In particolare nella normativa unionale, si è detto, la base imponibile è il corrispettivo realmente convenuto (il c.d. corrispettivo soggettivo) ed il valore normale, diversamente da quanto accade nella normativa domestica, è utilizzato in funzione anti-elusiva (dall’art. 80 Direttiva 2006/112/CE) solo in limitatissimi casi.

Ed invero, il legislatore nazionale – tenendo conto che nell’operazione permutativa la cessione di beni o la prestazione di servizi resa da una parte ha come corrispettivo non già denaro, bensì il bene ceduto o il servizio prestato dall’altra parte – ha scelto come soluzione quella di ancorare la base imponibile al valore normale del bene ceduto o del servizio reso, senza attribuire rilevanza, come invece sarebbe stato corretto alla luce della disciplina unionale, al valore normale del bene o servizio ricevuti a titolo di corrispettivo dalla controparte (v., in particolare, Peirolo M., op. e loc. cit.)16.

Secondo la disciplina unionale, in particolare, nel caso che ne occupa il corrispettivo soggettivo del servizio reso dalla piattaforma dovrebbe essere pari al valore che questa attribuisce ai beni o ai servizi forniti all’utente, che costituiscono il corrispettivo dell’operazione che la piattaforma medesima rende, e deve quindi corrispondere alla somma che essa è disposta a pagare a tal fine (v., ex multis, le citate CGUE Bertelsmann AG, C-380/99, punto 23, ed Empire Stores Ltd., causa C-33/93, punto 19 e Orfey Bulgaria EOOD, C-549/11, punto 45).

Difficile, così, ipotizzare un valore purchessia da attribuire ai dati personali forniti dal singolo utente, quando cioè avulsi dai dati complessivamente raccolti mediante la piattaforma, i quali solo nella loro aggregazione ed analisi macro hanno una loro utilità commerciale certa.

Difficile, in altri termini, sostenere che la piattaforma sia disposta a pagare alcunchè in cambio del consenso fornito dal singolo utente giacchè tale consenso, isolatamente considerato, non ha alcun valore per il prestatore del servizio digitale in questione (in ciò si concorda sostanzialmente con l’opinione di Marino G., op. e loc. cit.). Né il valore dei dati del singolo utente può essere individuato ricorrendo a stime, ad esempio presumendo che lo stesso sia pari a quello dei dati caricati dagli utenti, il quale può essere ricavato a partire dalle transazioni di mercato che potrebbero riguardarli (è un’ipotesi di Stevanato D., op. e loc. cit.,17; sul punto Greggi M., op. cit., ritiene possa valorizzarsi il consenso sulla base, ad esempio, della raccolta di pubblicità all’interno del mercato); si è sopra visto, infatti, come il concetto di corrispettivo nell’IVA esclude possa considerarsi tale, di regola, un valore stimato secondo criteri obiettivi. Non è del resto un caso che recentissimamente il Comitato IVA sia stato interpellato dal nostro Paese quanto alle modalità di determinazione dell’imponibile delle operazioni permutative nel tentativo di supportare la tesi che in tutte le operazioni permutative si creerebbero dei legal ties tra le parti tali da consentire l’utilizzazione del valore normale per determinarne l’imponibile nei casi previsti dall’art. 80 citata Direttiva 2006/112/CE (tesi, questa, che il Comitato IVA non condivide)18.

Non avrebbe neppure senso considerare, ai fini della determinazione dell’imponibile del servizio reso dal gestore della piattaforma al singolo utente, il complesso dei costi che il gestore medesimo sopporta nell’esercizio della sua attività economica per estrapolarne il pro-quota riferibile ad ogni singolo membro della comunità degli utenti (cfr. il già citato working paper del Comitato IVA n. 1107 del 16 aprile 2025) giacchè è evidente come in tal guisa (ammesso peraltro che sia possibile) si confondono due piani distinti, ossia quello che in teoria attiene all’individuazione dell’imponibile della singola operazione rappresentata dalla fornitura del servizio digitale verso consenso (ed ancor prima, come detto, alla esistenza di un corrispettivo) e quello che, invece, attiene all’economicità dell’attività del gestore della piattaforma, il suo business model, il quale si basa sulla raccolta gratuita di dati che vengono poi messi a disposizione a terzi verso corrispettivo monetario.

Oltretutto, come è stato giustamente evidenziato in dottrina, la creazione del valore, per le imprese digitali, non dipende esclusivamente dalla partecipazione degli utenti alle interfacce e dalla loro profilazione per fini pubblicitari, poiché si trascura il fatto che i dati personali degli utenti rappresentano per le imprese solo uno dei diversi fattori della produzione insieme a brevetti, algoritmi ed ingegneri informatici (così Stevanato D., op. e loc. cit.).

8. Nel riepilogare telegraficamente quanto si è sin qui evidenziato, pare a chi scrive che non vi sia spazio, alla luce della giurisprudenza unionale, per affermare la natura permutativa, rilevante ai fini IVA, dello scambio tra servizio reso free of monetary charge e consenso al trattamento dei dati personali fornito dall’utente (consenso condizionante la fruizione del predetto servizio).

Quest’ultimo nel sistema dell’IVA non può essere configurato quale corrispettivo soggettivo per la semplice ragione, si è detto, per cui i dati personali potenzialmente acquisibili presso il singolo utente della piattaforma, se non hanno alcun valore monetario (da conversione), ne hanno comunque uno di incertissima determinazione (per la quale non è dato ricorrere a stime).

Mancando il corrispettivo, viene evidentemente meno l’onerosità.

Né gli approdi di altre discipline, da quella consumeristica a quella relativa alla data protection, in ordine alla natura di controprestazione del consenso in questione, possono condizionare l’interprete giacchè nel sistema dell’IVA i concetti di corrispettivo soggettivo (o controvalore) e di onerosità costituiscono nozioni autonome; onde qualsivoglia riferimento alla giurisprudenza amministrativa e civile a riguardo risulterebbe un fuor d’opera.

L’opinione del Comitato IVA resa nel 2018 sul tema in questione, dunque, resiste tuttora alla prova del tempo. Sono passati in effetti molti anni dal working paper n. 958 che si esprimeva sulla eventuale rilevanza IVA degli Internet services forniti a fronte della disponibilità dei dati personali dell’utente, ma non si ravvisano ragioni particolari per pervenire ad una conclusione diversa da quella ivi rassegnata.

Vuoi che si ragioni in termini di corrispettivo ed onerosità, vuoi, in negata ipotesi, in termini di determinazione dell’imponibile di una operazione permutativa, non vi è modo di valorizzare, quando considerati isolatamente, i dati personali forniti dal singolo utente.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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1. È di qualche mese fa la notizia, diffusa dai maggiori quotidiani nazionali, che i gruppi coinvolti dalla campagna accertativa hanno deciso di opporsi agli atti impositivi.

2 Talvolta le app offrono, in alternativa ad una versione a pagamento dello stesso prodotto o servizio, una versione gratuita standard, che presenta maggiori funzioni o consente di escludere la pubblicità (sul punto occorre segnalare che ad aprile di quest’anno la Commissione UE ha imposto una multa di 200 milioni di euro a Meta relativamente al suo modello “consenso o pagamento”, il quale obbliga gli utenti a consentire il tracciamento dei dati o a pagare una quota di abbonamento per un’esperienza senza pubblicità).

3 Come noto, all’interno dei dati raccolti in sede di erogazione del servizio digitale free of monetary charge, occorre distinguere quelli necessari per la fornitura del servizio stesso (ad esempio, indirizzo e-mail dell’utente, nel caso d’iscrizione ad una newsletter) da quelli richiesti per finalità diverse ed ulteriori, come la profilazione dell’utente a uso commerciale: solo per questi secondi si pone, evidentemente, il problema della qualificazione alla stregua di una controprestazione.

4 Ricorda l’Autore «Che dietro all’apparente gratuità di social network e altre interfacce possa esservi uno scambio di prestazioni, di cui l’una è il corrispettivo dell’altra, traspare anche dai lavori della Commissione Europea e dell’Ocse, dove si era argomentato che il valore derivante dalla partecipazione attiva degli utenti non è in realtà creato dal gestore della piattaforma, bensì appunto dagli utenti, assimilabili a “fornitori” ricompensati attraverso la prestazione di un servizio (solo formalmente) gratuito».

5 Si consideri, ad esempio, la vicenda, sotto la lente del Garante della privacy, relativa ai c.d. cookie wall. Alcune testate giornalistiche online, siti web e aziende operanti su Internet nel settore televisivo, utilizzano sistemi e filtri, che condizionano l’accesso ai contenuti alla sottoscrizione di un abbonamento (il c.d. pay wall) o, in alternativa, al rilascio del consenso da parte degli utenti all’installazione di cookie e altri strumenti di tracciamento dei dati personali.

6 In particolare, l’Autore evidenzia che la tesi erariale indebolisce, anche sul piano dei rapporti internazionali con altri Stati, la logica dell’imposta sui servizi digitali giacchè, «se gli utenti delle piattaforme vengono ricompensati attraverso i servizi digitali cui possono accedere, non vi è alcun saccheggio né alcun “valore” prodotto sul territorio nazionale sottratto alla tassazione, se non quello rappresentato dal “reddito in natura” insito nei servizi da essi goduti».

7 L’Autore rileva che, qualora si ritenga «che l’utente della piattaforma riceva, a fronte del consenso all’utilizzo dei suoi dati, una controprestazione valutabile economicamente, la stessa andrebbe allora tassata nei suoi confronti come reddito in natura derivante da obblighi di fare, non fare e permettere»; il che significherebbe, evidenzia ancora il predetto Autore, «innescare, per coerenza, controlli di massa nei confronti di milioni di utenti, per evasioni – prese singolarmente – di importo bagatellare, il cui più immediato effetto sarebbe la paralisi dell’Amministrazione finanziaria, e che appaiono perciò inconcepibili oltre che imbarazzanti da gestire sul piano politico»; nel senso per cui l’utente che fornisce i propri dati personali a terzi non pone in essere alcuna transazione rilevante ai fini IVA non esercitando alcuna attività economica v. il working paper del Comitato IVA, 30 ottobre 2018, n. 958 (taxud.c.1(2018)6248826 – EN), su cui subito in appresso nel testo.

8 Si assume in questa sede la territorialità IVA dello “scambio di servizi” in questione.

9 V. il su citato working paper, 30 ottobre 2018, n. 958.

10 L’Autore spiega il suo dissenso argomentando che, da un lato, oggi la raccolta dei dati è diventata molto più capillare rispetto al passato, prescindendo dalla volontà dell’utente, e, dall’altro, il dato non è «più un elemento che deve essere fornito scientemente e consapevolmente», in relazione al quale, dunque, possa porsi «il problema della veridicità dipendente dalla volontà dell’utente stesso di condividere il vero oppure no (e con esso della aleatorietà del rapporto)».

11 Tuttavia v. l’art. 135-octies del Codice del consumo (D.Lgs. n. 206/2005), il quale, come infra evidenziato, si esprime oggi in termini di obbligo.

12 L’Autore rileva che «Dal solo tenore letterale della disposizione non è possibile trarre alcun significato in ordine alla natura del consenso al trattamento dei dati personali quale controprestazione. La prima operazione economica è definita “contratto”, mentre la seconda “caso”. Inoltre, il legislatore utilizza la locuzione “fornisce o si impegna a fornire dati personali”, in luogo dell’espressione “corrisponde o si impegna a corrispondere” che invece impiega con riferimento al prezzo, maggiormente espressiva della sussistenza di un sinallagma. D’altra parte, ??legare alla mera congiunzione “e” le prestazioni dei due contraenti non esclude alcunché dal punto di vista funzionale quanto alle reciproche attribuzioni, né può dirsi che escluda il contratto».

13 La seconda sentenza è relativa al caso di un contributo corrisposto a fronte del servizio pubblico di trasporto scolastico dai genitori dei bambini (non tutti utilizzatori del servizio) pari al 3% del totale del costo del trasporto. L’ultima, invece, riguarda il caso della fornitura e dell’installazione di FER da parte di un Comune (registrato ai fini IVA in Polonia), per il tramite di un’impresa, a favore dei propri residenti proprietari che hanno manifestato l’intenzione di dotarsi di tali impianti: la questione sollevata è se l’art. 2, par. 1, l’art. 9, par. 1, e l’art. 13, par. 1, Direttiva 2006/112, vadano o meno interpretati nel senso che la predetta fornitura ed installazione costituiscono o meno una cessione di beni e una prestazione di servizi assoggettate ad IVA, allorché un’attività del genere non è diretta all’ottenimento di introiti aventi carattere di stabilità e dà luogo, da parte di tali residenti, solo ad un pagamento che copre al massimo un quarto delle spese sostenute, mentre il saldo è finanziato da fondi pubblici.

Nella prima delle sopra citate sentenze (ossia quella relativa alla causa C-246/08), relativamente alla rilevanza IVA dei servizi di assistenza legale forniti da uffici pubblici e finanziati anche con un contributo del fruitore che non copre l’intero ammontare degli onorari, si legge quanto segue: «49. Se ne inferisce che il contributo pagato agli uffici pubblici dai beneficiari dei servizi di assistenza legale dipende solo parzialmente dal valore reale dei servizi forniti; anzi, il nesso con quest’ultimo è tanto più tenue quanto più i redditi e il patrimonio dei beneficiari sono modesti.

50. Come ha osservato l’avvocato generale ai paragrafi 50 e 51 delle conclusioni, questa constatazione è avallata dal fatto che, secondo i dati trasmessi dal governo finlandese nell’ambito del presente ricorso, nel 2007 solo un terzo del lavoro di assistenza legale svolto dagli uffici pubblici è stato parzialmente retribuito dai beneficiari del servizio e i contributi degli utenti in tale ambito sono ammontati a EUR 1,9 milioni a fronte di spese lorde di gestione sostenute da tali uffici pari a EUR 24,5 milioni. Sebbene questi dati tengano conto pure dei servizi di assistenza legale prestati in sede stragiudiziale, lo scarto è tale da suggerire che la remunerazione parziale a carico dei beneficiari debba essere assimilata a un canone, la cui riscossione non conferisce da sola carattere economico ad una determinata attività, piuttosto che ad una retribuzione vera e propria.

51. Pertanto, alla luce di quanto sopra, il nesso tra i servizi di assistenza legale forniti dagli uffici pubblici e il controvalore che i beneficiari devono pagare non risulta avere quel carattere diretto che è necessario perché tale controvalore possa essere considerato la retribuzione di detti servizi e, conseguentemente, perché questi ultimi costituiscano attività economiche ai sensi degli artt. 2, punto 1, e 4, nn. 1 e 2, della sesta direttiva».

14 Per l’Autore «appare fondato ritenere che il dato ceduto dall’utente sia a titolo gratuito e, quindi, che l’operazione sia fuori campo IVA, e ciò in virtù di plurime conclusioni della Corte di giustizia, che evidenzia l’assenza di un nesso diretto atto a dimostrare l’onerosità del sinallagma tra utente e piattaforma, preso atto che sia la quantità (mole) sia la qualità (veridicità) di dati personali ceduti non sono idonei di incidere sulle modalità di erogazione dei servizi. Qualunque sia il dato ceduto, veritiero o meno, il servizio garantito all’utente è infatti sempre il medesimo».

15 Rileva l’Autore che la riconduzione di vantaggi d’ordine economico eventualmente discendenti dall’utilizzo dei dati informatici raccolti presso le piattaforme digitali «si potrebbe considerare riconducibile ad un preliminare accrescimento di natura patrimoniale, e non ad un diverso elemento reddituale il quale non soltanto sarebbe incerto sotto il profilo della sua verificazione ma anche difficilmente verificabile in una prospettiva causale, considerata la mole di dati informatici acquisiti e l’impossibilità di associare adeguatamente quest’ultimi ad un eventuale maggior reddito prodotto. Inoltre, ed in definitiva, si tratterebbe di un profilo ancor più difficilmente apprezzabile anche in ambito tributario, atteso che la maggiore redditività derivante dal vantaggio eventualmente acquisito dall’impresa a seguito dell’elaborazione dei dati informatici non si porrebbe, come già rilevato, quale conseguenza necessaria (o, in ogni caso, immediata) dell’ottenimento dei predetti dati».

16 L’Autore rileva che, «quantificando l’imponibile sulla base del “valore normale” del bene/servizio ceduto anziché del bene/servizio ricevuto, si evita che i beni di alto valore vengano fraudolentemente esclusi da imposizione (nella specie, allorché il cessionario sia un “privato” che provvede al successivo trasferimento al destinatario effettivo, escluso anch’esso da IVA in difetto del presupposto soggettivo)».

17 Per l’Autore si potrebbe ricorrere ad un valore pari al prezzo dell’abbonamento che le interfacce offrono per una navigazione senza utilizzo dei dati personali per fini pubblicitari (laddove ovviamente vi sia una siffatta alternativa a fronte della prestazione del servizio reso mercè la piattaforma);

18 V. il working paper n. 1107 del 16 aprile 2025, taxud.c.1(2025)5002943-EN. In particolare, muovendo dall’assunto per il quale nelle predette operazioni le parti sono avvinte da un particolare legame di natura legale tale per cui, allorquando vengano in considerazione self-produced goods o intellectual work services, vi sarebbero rischi di evasione od elusione, rispettivamente, ove il valore dei beni sia considerevolmente più elevato dei relativi costi di produzione ed il valore dei servizi intellettuali sia superiore o inferiore alla non-monetary consideration, al Comitato IVA sono stati posti dal nostro Stato i seguenti quesiti: (i) se si ravvisano delle controindicazioni al fatto che uno Stato membro preveda anche per le operazioni permutative nelle quali le parti siano avvinte da un legal tie (e nelle quali la controprestazione consista in un servizio) che l’imponibile possa determinarsi, facendo riferimento all’art. 80 Direttiva 2006/112/CE ed ai casi ivi previsti, utilizzando il criterio dell’open market value; (ii) quale criterio possa essere usato per determinare la base imponibile in casi in cui non è possibile ricorrere all’open market value ed il criterio del costo o non rappresenta adeguatamente il valore dei beni e/o servizi “permutati” ovvero non è immediatamente applicabile, come accade quando si tratta, appunto, di beni auto-prodotti o di servizi intellettuali. In tali casi è stato altresì chiesto se sia accettabile l’uso di indici o parametri per calcolare l’incidenza delle spese generali nel determinare la base imponibile e se si condivida il principio per cui, in presenza di una significativa distanza tra il costo dei self-produced goods o intellectual work services ed il loro valore siccome indicato in listini prezzo o tariffari, sia possibile ricorrere a quest’ultimo per determinare l’imponibile.

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