Dovere di collaborazione e diritto al silenzio nel procedimento amministrativo di accertamento e nel processo tributario
Di Matteo Demetri
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Abstract (*)
La relazione esamina la compatibilità del diritto al silenzio con i principi propri al diritto tributario. Dopo aver brevemente ripercorso l’iter giurisprudenziale che ha coinvolto dapprima la Corte europea dei diritti dell’uomo e successivamente, la Corte di Giustizia e la nostra Corte costituzionale, ad esito del quale si sono aperte le porte per il pieno riconoscimento dello ius tacendi anche nei procedimenti amministrativi suscettibili di sfociare nell’irrogazione di sanzioni di natura punitiva, ci si interroga sullo spazio applicativo del diritto al silenzio nell’ambito tributario. Sistematizzati e sviluppati gli argomenti adoperati per negare un’applicazione generalizzata del diritto al silenzio in materia fiscale attingendo dapprima ai principi generali e poi alle disposizioni normative rilevanti, si tenta di destituirli di fondamento. In conclusione, si mette in luce come il contribuente, allo stato attuale, si trovi spesso costretto a scoprire le proprie carte senza poter conoscere quelle dell’Ufficio, con un evidente vulnus al suo diritto di difesa ed in aperta violazione del principio di proporzionalità di cui all’art. 10-ter L. n. 212/2000.
Duty to cooperate and right to silent in tax administrative proceeding and tax process – The paper explores the compatibility of the right to silence with the fundamental principles governing tax law. After briefly retracing the jurisprudential developments that have engaged, in sequence, the European Court of Human Rights, the Court of Justice of the European Union, and the Italian Constitutional Court, developments which have ultimately opened the door to the full recognition of the ius tacendi even in administrative proceedings liable to result in the imposition of punitive sanctions, the analysis focuses on the extent to which the right to silence may operate within the sphere of taxation. Once the main arguments traditionally invoked to deny a general application of the right to silence in fiscal matters have been systematized, drawing first upon overarching legal principles and subsequently upon the relevant statutory provisions, the paper seeks to demonstrate their lack of persuasive force. In conclusion, it is emphasised that, under the current legal framework, taxpayers often find themselves compelled to disclose their position without being afforded access to the information held by the tax authorities, thereby suffering a significant impairment of the right of defence and a manifest breach of the principle of proportionality enshrined in Article 10-ter of Law No. 212 of 2000.
Sommario: 1. Il diritto al silenzio: una breve ma necessaria premessa. – 2. Possibili giustificazioni al mancato riconoscimento in via generalizzata del diritto al silenzio nell’ambito tributario. – 2.1. L’interesse fiscale. – 2.1.1. Nell’ambito della giurisprudenza CEDU – 2.1.2. e nella giurisprudenza costituzionale italiana. – 2.2. Il dovere di solidarietà sociale. – 3. Le conseguenze sanzionatorie. – 3.1. Le sanzioni proprie. – 3.2. Le sanzioni improprie – 3.3. e le preclusioni probatorie. – 4. Il diritto al silenzio “rovesciato”.
1. Lo ius tacendi costituisce un fondamentale diritto di libertà con cui – in campo penale – si garantisce il diritto di difesa dell’indagato o dell’imputato. Esso è caratteristico delle moderne democrazie di stampo liberale, nelle quali è venuto in rilievo quale corollario di principi costituzionali (per approfondimenti, si rinvia, tra gli altri a Tassinari D., Nemo tenetur se detegere. La libertà dalle autoincriminazioni nella struttura del reato, Bologna, 2012; Patanè V., Il diritto al silenzio dell’imputato, Torino, 2006; Grevi V., Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972).
Tale principio è pacificamente riconosciuto nei confronti delle persone fisiche nell’ambito del diritto processuale penale italiano, mentre è stato a lungo oggetto di discussione per quanto concerne i procedimenti sanzionatori amministrativi di carattere “punitivo” (cfr. Viganò F., Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 4, 1791); ove, tuttavia, negli ultimi anni è stata avviata una sistematizzazione, grazie soprattutto alla pronuncia della Corte costituzionale italiana, 30 aprile 2021, n. 84, che ha esteso il principio nemo tenetur se detegere anche alle attività sanzionatorie in capo alle Autorità di vigilanza dei mercati finanziari (al riguardo, il Giudice delle leggi non si è limitato a mutuare la nozione euro-convenzionale di materia penale, ma, in un’ottica di massimizzazione dei livelli di tutela del diritto al silenzio, ha promosso un dialogo circolare con la Corte di giustizia. Dialogo che ha preso l’abbrivio dall’ordinanza n. 117/2019 con cui la Consulta, ricorrendo un’ipotesi di c.d. doppia pregiudizialità, ha rimesso la questione alla Corte di Giustizia europea; e culminato, a seguito del responso adesivo dei giudici di Lussemburgo, nella sentenza n. 84/2021. Sul tema Andolina E., Dichiarazioni rese dinanzi ad autorità diverse da quella penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 1, 71 ss.).
Il principio statuito dalla Consulta, nella sentenza n. 84/2021, presenta sicuramente «una portata generale-diffusiva che trascende lo specifico ambito degli abusi di mercato» (così Andolina E., op. cit., 75), coinvolgendo tutti i procedimenti amministrativi punitivi.
Invero, la Corte costituzionale ha generalizzato la questione di legittimità costituzionale svincolandola per così dire dai procedimenti per abuso di informazioni privilegiate (sul punto Amati E., Dinamiche evolutive sul diritto al silenzio, Torino, 2022, 131).
In tale ottica, il diritto tributario dovrebbe rappresentare un terreno particolarmente fertile, non foss’altro per la sussistenza di sempre maggiori oneri di collaborazione incombenti sul contribuente che potrebbero condurre ad un’autodenuncia.
Tuttavia, nell’ambito del diritto tributario tale principio fatica ad affermarsi (vedasi, di recente, Iaia R., Dovere di collaborazione, preclusioni istruttorie e confini oggettivi del diritto al silenzio nelle indagini amministrative tributarie. Prime riflessioni su Corte cost. n. 137/2025, in Riv. tel. dir. trib., 2025, 2 e pubblicato online il 9 agosto 2025, www.rivistadirittotributario.it, ove l’Autore mette in luce come, sebbene la riforma del c.d. Statuto dei diritti del contribuente, ad opera del D.Lgs. n. 219/2023, abbia avuto il pregio di ampliare i presidi di garanzia e di definire in modo più puntuale quelli già esistenti, «si è persa probabilmente l’occasione almeno per un riferimento ricognitivo esplicito circa l’esistenza del diritto al silenzio, anzitutto in seno al procedimento amministrativo di accertamento, quale contrappeso e possibile limite del dovere di collaborazione»).
Mi sembra, in particolare – per quanto di nostro interesse –, che si sia ancora alla ricerca di un ubi consistam scientifico e di un più preciso inquadramento nell’ambito dei principi fondamentali.
Da qui la necessità di chiedersi quali ne siano le ragioni. E più in particolare, di domandarsi perché il diritto al silenzio non dovrebbe applicarsi anche alla materia tributaria.
Essendo un terreno, come detto, ancora in fase di esplorazione penso possano essere intrapresi nuovi tentativi di inquadramento.
Guardando alle ragioni che generalmente vengono addotte per negare il principio in parola – in controtendenza rispetto all’impostazione originaria della dottrina (che generalmente individua gli argomenti a favore del riconoscimento del diritto al silenzio) –, penso sia consentito provare a sistematizzare gli argomenti adoperati per negare il diritto al silenzio nell’ambito tributario; che visti in controluce, e sviluppati, possono essere destituiti di fondamento.
Laddove tali argomenti, volti a negare l’applicazione del diritto al silenzio alla materia tributaria, fossero confutati, la conseguenza necessitata dovrebbe essere quella di un suo doveroso riconoscimento.
Guardando la problematica dall’alto, penso che ci siano due vie parallele per negare l’applicazione del diritto al silenzio nell’ambito tributario: una via che adotta il metodo deduttivo, lavorando per così dire sui principi generali – e facendone discendere appunto quale precipitato l’incompatibilità tra il diritto al silenzio e la materia fiscale – e una via che adotta il metodo induttivo, muovendo da alcune disposizioni vigenti (e dunque dal particolare al generale), che si pongono in rotta di collisione con il diritto al silenzio al precipuo fine di ricavarne una generale esclusione della garanzia in parola.
2. Più prosaicamente – e per quanto di nostro interesse –, penso possano essere invocati due principi generali (da cui far discendere la conclusione per cui il diritto al silenzio non troverebbe applicazione in materia tributaria, facendo applicazione del ragionamento deduttivo).
2.1. In primo luogo, non di rado nella giurisprudenza tanto costituzionale quanto sovrannazionale, gioca un ruolo decisivo il c.d. interesse fiscale (non essendo questa la sede per un approfondimento su tale principio limitandoci ai lavori più recenti, si rinvia, tra gli altri, a Giovannini A., Note controvento su interesse fiscale “giustizia nell’imposizione” come diretto fondamentale muovendo dall’intelligenza artificiale, in Riv. dir. trib., 2023, 3, I, 249 ss. e da ultimo Giovannini A., Processo penale e processo tributario: l’efficacia di giudicato della sentenza di assoluzione, in Manzon E. – Melis G., a cura di, Questioni attuali di diritto tributariotra normativa e giurisprudenza, in Giustizia Insieme, 2025, 2, 188, ove l’Autore evidenzia come l’interesse fiscale sia nato come espressione, prima, “dei poteri monarchici e, poi, dei poteri dello stato, in ragione dell’ipostatizzazione di questo e dei suoi organi”. E prosegue “oggi questo approccio si scontra irrimediabilmente con i princìpi costituzionali: non è la Costituzione, ma è l’interprete che, torcendola, continua ad iniettare nel tessuto normativo la volontà di dare fattezze quasi concrete a quell’interesse e pertanto è lui che lo crea, elevandolo a principio e rendendolo agente nel teatro delle relazioni giuridiche”).
2.1.1. A ben vedere, questo è l’argomento storicamente adottato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per sottrarre, tendenzialmente, il processo tributario, dalla garanzia del giusto processo (così Marcheselli A., Accertamenti tributari, poteri del fisco e strategie del difensore, Milano, 2022, 304).
Com’è noto, il problema consiste nell’applicabilità dell’art. 6 CEDU al processo tributario e quindi nella possibilità di estendere al processo tributario le garanzie proprie della CEDU sul diritto ad un processo equo (sul tema v., ex multis, Tesauro F., Giusto processo e processo tributario, in Rass. trib., 2006, 1, 11 ss.). Invero, la CEDU contempla due diverse aree di tutela dei diritti fondamentali: la materia “civile” e la materia “penale”. Il processo tributario, salvo le eccezioni di volta in volta individuate dalla giurisprudenza non sarebbe riconducibile alle controversie vertenti sui «diritti e doveri di carattere civile», in quanto: «la materia fiscale fa ancora parte del nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica» e «le evoluzioni verificatesi nelle società democratiche non riguardano la natura essenziale dell’obbligazione per gli individui di pagare le tasse», quindi, «la materia fiscale rientra ancora nell’ambito delle prerogative del potere d’imperio, perché rimane predominante la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività» (così Corte EDU, Ferrazzini c. Italia, 12 luglio 2001, n. 44759/98, par. 29-31, con nota di Greggi M., Giusto processo e Diritto tributario europeo: applicazione e limiti del principio, il caso Ferrazzini, in Riv. dir. trib., 2002, 13, I, 571 ss. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha, da un lato, ammesso che «un procedimento tributario ha indubbiamente un oggetto patrimoniale», ma dall’altro ha ritenuto che «possono esistere delle obbligazioni patrimoniali nei confronti dello Stato e dei suoi organi che, ai fini dell’art. 6, paragrafo 1, devono essere considerate come rientranti esclusivamente nell’ambito del diritto pubblico e di conseguenza non sono comprese nella nozione di «diritti ed obbligazioni di carattere civile»). Viceversa, le controversie tributarie rientrerebbero nell’alveo delle tutele offerte dall’art. 6 CEDU se comportanti l’irrogazione di sanzioni di natura punitiva, in quanto ascrivibili, in questo caso, alla “materia penale”. Secondo la Corte, infatti, a prescindere dalla qualificazione normativa interna, fatta dai singoli ordinamenti nazionali, la natura “penale” di un illecito o di una sanzione deve essere individuata, secondo i cosiddetti criteri “Engel” , in funzione della “natura dell’illecito” e della “gravità e severità della sanzione” astrattamente irrogabile (in particolare, affinché un illecito abbia natura “penale”, nel senso voluto dalla Convenzione, è necessario che la relativa sanzione si rivolga indistintamente alla generalità dei consociati, sia posta a tutela di interessi generali della società e non di una collettività ben individuata; abbia carattere punitivo e non risarcitorio, abbia quindi una finalità deterrente e afflittiva, che «mira a dissuadere e, contemporaneamente, a reprimere» ed abbia quindi uno scopo «ad un tempo preventivo e repressivo». Sul punto vedasi sempre C. Ricci, op. cit.). Sulla scorta, dunque, dell’applicazione di questi criteri, le sanzioni amministrative tributarie sono ascritte alla “materia penale” ai fini del riconoscimento delle tutele della Convenzione, con la conseguenza che tutti i diritti che l’art. 6 riconosce all’imputato coinvolto in un processo penale possono essere invocati dal contribuente che contesti, in un giudizio tributario, l’applicazione delle sanzioni. Vengono, così, superate le originarie posizioni regressive, fondate sull’analisi letterale dell’art. 6 della CEDU (i giudici di Strasburgo, facendo leva su di un’interpretazione letterale della disposizione, nella parte in cui fa riferimento ai diritti e doveri civili ed all’accusa penale, hanno per lungo tempo tratto la conclusione della non applicabilità di queste garanzie al processo tributario), fino ad arrivare ad estendere l’area di tutela anche alla fase istruttoria, che precede il contenzioso vero e proprio. Nella sentenza Ravon , infatti, la Corte di Strasburgo sostiene che le garanzie dell’art. 6 non riguardino solo la fase processuale strettamente intesa, ma trovino applicazione anche al procedimento tributario.
Astraendo peraltro dalla menzionata evoluzione giurisprudenziale, alla base dell’impostazione originaria con cui si escludeva tout court l’applicabilità alla materia fiscale delle garanzie del “giusto processo” sembra esservi una sopravvalutazione dell’interesse finanziario, da un lato, e una sottovalutazione dei diritti economici privati, potenzialmente lesiva, se non altro, dell’art. 1, Primo protocollo Convenzione EDU.
2.1.2. Per quanto attiene alla giurisprudenza della Corte costituzionale, è notorio come assai spesso emerga l’esigenza, implicita ma evidente, della Corte di prendere in considerazione l’interesse fiscale (così, di recente, Carinci A., La questione di costituzionalità del giudizio tributari, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2025, 2, 279). Limitando l’analisi alle pronunce studiate anche dai non tributaristi, com’è noto, è accaduto in materia tributaria che la Corte (ci si riferisce alla molto studiata – soprattutto dai costituzionalisti – pronuncia della Corte Cost. n. 10/2015), nel dichiarare incostituzionale una previsione, abbia al contempo escluso una valenza retroattiva della pronuncia, che quindi avrebbe esplicato i suoi effetti solo ex nunc (come sottolinea Carinci A., cit., si tratta di precedenti pericolosi, perché, in questo modo, si legittima il legislatore ad introdurre norme in violazione della Costituzione, nel caso, dell’art. 53, con l’unico rischio di vedere censurata la norma per incostituzionalità, ma solo per il futuro, facendo così salvo cosa è avvenuto in passato). In particolare, la Consulta riconosceva che le misure previste dalla c.d. Robin hood tax fossero incostituzionali ab initio, ma al contempo, affermava che un’eventuale disapplicazione retroattiva della legge avrebbe prodotto danni ingenti sul bilancio pubblico. Pertanto, riteneva che fosse costituzionalmente necessario mantenere gli effetti prodotti da una forma di tassazione irragionevole e di fare decorrere gli effetti della sentenza in parola ex nunc.
Per vero, esempi di sentenze di accoglimento irretroattive si erano avuti anche in passato (si faccia riferimento, tra le altre, alle sentenze della Corte costituzionale n. 266/1988 e n. 50/1989), ma l’elemento di novità della sentenza in parola è costituito dalla circostanza per cui la Corte costituzionale non si era mai soffermata diffusamente sul fondamento del potere di modulare gli effetti caducatori delle pronunce di accoglimento su un rapporto pendente.
In particolare, il Giudice costituzionale, propendeva per una lettura sistematica, che tenesse conto di tutti i principi in gioco, in modo da evitare che una «dichiarazione di illegittimità costituzionale» determinasse «effetti ancor più incompatibili con la Costituzione» rispetto a quelli che hanno indotto a censurare la disciplina impugnata (sul punto si veda Pinardi R., La modulazione degli effetti temporali delle sentenze d’incostituzionalità e la logica del giudizio in via incidentale in una decisione di accoglimento con clausola di irretroattività, in Consulta online, 2015, 1, 220 ss.).
Senonché, tale modo di procedere, ancor prima che criticabile per aver “utilizzato” nel bilanciamento il principio del c.d. pareggio di bilancio di cui all’art. 81 Cost., lo è perché a ben vedere è stato attuato un bilanciamento che ha visto da un lato valori di natura sostanziale e dall’altro la regola che prevede l’efficacia ex tunc delle sentenze di accoglimento. Di converso, quest’ultima regola rientra tra quelle che dovrebbero essere adoperate come una sorta di cornice, e dunque non potrebbe essere suscettibile di entrare in partita nel giudizio di bilanciamento.
In altri termini, sembrerebbe più opportuno che le prescrizioni proprie del processo costituzionale si limitassero a stabilire i confini entro cui la Corte può esercitare l’attività di Giudice delle leggi e dunque effettuare bilanciamenti tra valori costituzionali, e non assurgere a principi suscettibili di essere richiamati nel giudizio anzidetto.
Lo spazio consentito dalle presenti brevi note non permette di enumerare le molteplici criticità di simili orientamenti. Basti qui osservare come la dottrina (per tutti, Tesauro F., Giusto processo e processo tributario, cit., 19) abbia da tempo rilevato che la tutela riconosciuta all’interesse fiscale non dovrebbe incidere sulle regole processuali, e in particolare – per quanto di nostro interesse –, sul diritto di difesa e sulle regole del giusto processo.
2.2. Sempre in via deduttiva – una seconda giustificazione – che apparentemente può sembrare più convincente – è il riferimento al principio di solidarietà. Invero, la giurisprudenza costituzionale in recenti sentenze ha fatto registrare, sul tema del dovere tributario, una importante novità, qualificandolo espressamente in termini di un dovere inderogabile di solidarietà, e lo ha fatto discendere, quasi per gemmazione, dall’art. 2 Cost. (nella sentenza n. 288/2019 si afferma: «nella Costituzione il dovere tributario, è qualificabile come dovere inderogabile di solidarietà non solo perché il prelievo fiscale è essenziale – come ritenevano risalenti concezioni che lo esaurivano nel paradigma dei doveri di soggezione – alla vita dello Stato, ma soprattutto in quanto esso è preordinato al finanziamento del sistema dei diritti costituzionali, i quali richiedono ingenti quantità di risorse per divenire effettivi: sia quelli sociali sia quelli civili». Come sottolinea Antonini L., Il diritto costituzionale tributario nella prospettiva del terzo millennio, in Mastroiacovo V. – Melis G., a cura di, Atti del Convegno Il diritto costituzionale tributario nella prospettiva del terzo millennio, LUISS Guido Carli, 10-11 giugno 2022, Torino, 2022, 3, non si tratta di un passaggio scontato, perché sottende una questione di fondo che è dirimente; un vero e proprio cambio di paradigma. «Un conto, infatti, è guardare al fenomeno impositivo mettendo l’accento sul potere tributario, un altro è guardare al fenomeno impositivo mettendo l’accento sul dovere di solidarietà»).
Cionondimeno, dalla, seppur discussa, primazia del dovere tributario rispetto agli altri valori (peraltro, si può sostenere che anche l’obbligo contributivo soggiaccia alle regole generali di contemperamento proprie a qualsiasi altra posizione giuridica costituzionalmente rilevante, ma non è questa la sede per dilungarci sul tema), non può – e non deve – discendere l’ammissibilità di minori garanzie rispetto a quando siano in gioco altri interessi.
Più prosaicamente, si intende dire che il problema del diritto al silenzio non si pone, rispetto agli obblighi dichiarativi e strumentali all’adempimento dei doveri tributari primari (il dovere in forza degli artt. 2, 53 e 23, Cost.) di collaborare a rendere nota al Fisco la propria ricchezza prima della violazione (ad esempio imponendo in capo al contribuente obblighi strumentali di tenuta e conservazione di scritture contabili obbligatorie, fatture, contabilità, annotazioni, dichiarazioni ecc.), ma si pone a valle: cioè per gli eventuali obblighi di collaborazione al controllo dell’avvenuto adempimento dei propri obblighi (così Marcheselli A., Accertamenti tributari, poteri del fisco e strategie del difensore, cit., 314). Se l’ordinamento tributario prevede degli obblighi di cooperazione ai controlli contro sé stessi questi, a differenza dei primi, possono, in effetti, essere obblighi di collaborazione all’accertamento della commissione di eventuali violazioni proprie, già ipoteticamente avvenute. Poiché all’inadempimento dei debiti tributari conseguono, a volte sanzioni penali, a volte sanzioni amministrative, ma comunque sanzioni con funzione punitiva, ci troviamo anche all’interno dell’area di rischio rispetto alla quale il diritto al silenzio può venire in considerazione. Pertanto, giustificare sulla base dell’art. 2 Cost. un obbligo di collaborazione in forza del quale potrebbero essere irrogate sanzioni “punitive” costituisce – a mio avviso – prima ancora che una forzatura, un evidente salto logico.
3. La seconda strada per negare il diritto al silenzio, si diceva sopra, è quella per cui dalla sussistenza nell’ordinamento tributario di alcune disposizioni vigenti che “puniscono” la mancata collaborazione del contribuente, inferendo in via induttiva (quindi procedendo dal particolare al generale), si fa discendere la negazione del diritto al silenzio in termini generali.
In particolare, si possono prendere in considerazione tre previsioni, che costituiscono sanzioni proprie o sanzioni c.d. improprie, che costituiscono in un certo senso i corollari della mancata collaborazione del contribuente. In altri termini, la domanda che ci si pone è: “ma quali conseguenze giuridiche sono previste in caso di omessa cooperazione durante i controlli amministrativi-tributari?”
Esse possono dividersi in tre categorie, utilizzando quale discrimen la loro conseguenza per il contribuente: 3.1 le sanzioni proprie di carattere pecuniario; 3.2 l’applicabilità di particolari tecniche di accertamento; 3.3 le preclusioni procedimentali e processuali (le conseguenze sub 3.2 e sub 3.3 vengono spesso definite sanzioni improprie. Come osserva di recente Iaia R., op. cit., si tratta di una controversa categoria dogmatica che identifica «situazioni di svantaggio […] non […] annoverabili tra le sanzioni propriamente dette, in quanto non edittalmente previste quale conseguenza della violazione di una norma tributaria», che si traducono in una «penalizzazione del contribuente comunque riconducibile ad una tale violazione», vd., per esempio, Cass., sez. trib., 17 dicembre 2014, n. 26475, che riprende il pensiero di De mita E., voce, Capacità contributiva, in Dig. disc. priv., sez. comm., 1987, II, 454 ss., spec. 460-461; sulle sanzioni improprie, Del Federico L., Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 276 ss. e Id., Le sanzioni improprie nel sistema tributario, in Riv. dir. trib., 2014, I, 693 ss.; Marcheselli A., Le attività illecite tra fisco e sanzione, Padova, 2001, 310 ss.).
3.1. Vi è innanzitutto, per le imposte sui redditi e per l’IVA, una sanzione amministrativa pecuniaria di generale applicazione, residuale, prevista all’art. 11 D.Lgs. n. 471/1997 nell’importo minimo di 250 euro e massimo di 2.000 euro concernente la omessa collaborazione (sotto diversi profili) del contribuente di fronte alle richieste istruttorie dell’Amministrazione.
Questa è sicuramente una sanzione propria (per vero di non elevata entità, rispetto ai casi più gravi – e dunque dallo scarso effetto deterrente) prevista per l’omessa cooperazione che può considerarsi in aperto contrasto con il diritto di tacere (o, seguendo il ragionamento che si sta portando avanti, sarebbe per così dire una chiara indicazione da cui inferire che il diritto al silenzio non dovrebbe trovare sussistere nell’ambito tributario).
3.2. Quanto al secondo ordine di conseguenze, viene in rilievo la possibilità per l’Amministrazione di assoggettare – in caso di mancata collaborazione – il contribuente al cosiddetto accertamento induttivo.
In particolare, l’art. 39, comma 2, lett. d-bis) dispone che: «In deroga alle disposizioni del comma precedente l’ufficio delle imposte determina il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui alla lettera d) del precedente comma: […] d-bis) quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici ai sensi dell’articolo 32, primo comma, numeri 3) e 4), del presente decreto o dell’articolo 51, secondo comma, numeri 3) e 4), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633». La disposizione permette pertanto all’Amministrazione di effettuare il c.d. accertamento induttivo extracontabile, caratterizzato da una «attenuazione del rigore probatorio e procedimentale a carico dell’Ufficio, fondandosi evidentemente sulla forza indiziaria di una condotta sospetta del contribuente» (così Marcheselli A., Accertamenti tributari, poteri del fisco e strategie del difensore, cit., 318 e Id., La prova nel nuovo processo tributario, Milano, 2024, 215 ss.).
Com’è noto, nei casi di accertamento induttivo è prevista la possibilità di accertare e determinare la ricchezza sulla base, alla lettera, stabilisce la legge, di presunzioni prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza.
Quest’ultima conseguenza “negativa” per il contribuente può tuttavia essere per così dire sdrammatizzata. Invero, se propriamente interpretata, la previsione in parola non farebbe altro che dettare una regola di buon senso. In altre parole, «se il contesto probatorio è oggettivamente debole, non debole per negligenze dell’organo istruttorio (può essere debole per effetto della condotta del soggetto accertato, ma non necessariamente), la determinazione può essere più approssimata, purché sempre nei limiti di una plausibilità adeguata» (così Marcheselli A., ult. op. cit., 319, ove l’Autore precisa inoltre come «Fermo restando che la ricchezza accertata deve essere più plausibile di quella dichiarata, dovrebbero essere ammesse determinazioni assistite da un minore grado di plausibilità e precisione che nel caso ordinario. Presunzioni non gravi precise e concordanti implicano una attenuazione dello standard ma sul punto occorre chiarirsi. In primo luogo, tale attenuazione non può oltrepassare due limiti invalicabili: a) il valore accertato non può avere una plausibilità inferiore a quella del valore dichiarato; b) il valore accertato non può avere una plausibilità inferiore ad altri valori accertabili inferiori. Questa attenuazione concerne gli standard di precisione, di analiticità e la comparazione di plausibilità nei limiti appena detti. Ebbene, tale attenuazione appare proporzionata e ragionevole quando sussista un contesto probatorio più debole»).
Al contrario, se l’accertamento induttivo «fosse inteso nel senso che, a fronte delle condotte di omessa collaborazione del contribuente, sarebbe consentito un accertamento meno preciso di quello comunque possibile sulla base del contesto, una interpretazione secondo la quale l’accertamento induttivo punirebbe con l’approssimazione nella determinazione della ricchezza situazioni nelle quali la determinazione della ricchezza potrebbe essere fatta comunque in modo preciso e più favorevole, si assegnerebbe a tale accertamento una funzione punitiva» (così Marcheselli A., ult. op. cit., 319).
3.3. Da ultimo, non si può fare a meno di considerare, seppur succintamente, la più controversa delle sanzioni improprie (sul punto è intervenuta di recente la Corte costituzionale che, con la sentenza 28 luglio 2025, n. 137 ha dichiarato l’infondatezza delle questioni di costituzionalità, relative alle preclusioni istruttorie, sancite dall’art. 32, comma 4, D.P.R. n. 600/1973, con una interpretazione della norma allineata al diritto al silenzio, quale articolazione del diritto “inviolabile” alla difesa e riconducibile al principio del “giusto processo”. Sul punto, Iaia R., op. cit.), ossia la disciplina di cui all’art. 32, commi 4-5, D.P.R. n. 600/1973, la quale, al comma 4, preclude l’utilizzo, nel corso del procedimento amministrativo di accertamento e dell’eventuale processo, di dati, notizie, informazioni e documenti favorevoli non tempestivamente addotti e/o prodotti all’Autorità fiscale, dal destinatario dei provvedimenti istruttori, indicati dal comma 1 della medesima disposizione.
Non essendo questa la sede per approfondire compiutamente i più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale sul tema, ci si limita a impostare il problema che viene in rilievo, sottolineando come la preclusione in parola sia di dubbia legittimità almeno da una duplice prospettiva.
In primo luogo, ciò contrasta con il diritto di difesa di cui all’art. 24, comma 2, Cost. di cui il right to silence rappresenta peculiare articolazione, come rilevato dalla stessa Corte costituzionale.
Difatti, il soggetto attinto da richieste investigative potrebbe trovarsi di fronte dell’alternativa fra adempiere al proprio obbligo collaborativo e, così, auto-accusarsi di violazioni amministrative tributarie o, al contrario, non ottemperarvi per non autoincolparsi, esponendosi in tal modo a una violazione del dovere di cooperazione (così Iaia R., op. cit.).
In secondo luogo – ed adottando una prospettiva diversa, ma complementare – a fianco della limitazione delle facoltà difensive si introduce «una notevolissima limitazione alla cognizione del giudice, perché il giudice non potrebbe utilizzare per conoscere la verità atti e documenti, pur ritualmente e tempestivamente prodotti nella fase processuale, in quanto non messi a disposizione durante la fase amministrativa» (così Marcheselli A., La prova nel nuovo processo tributario, cit., 2024, 230).
4. Se è permessa, in conclusione, una provocazione che prende spunto da queste ultime riflessioni riguardo alla preclusione procedimentale e processuale di cui al menzionato art. 32, la limitazione alla cognizione del giudice, si diceva, non risulta giustificata e non lo risulta in quanto «Se si può giustificare (anzi, si deve giustificare) che il giudice non possa conoscere nell’interesse della Amministrazione degli elementi che l’Amministrazione non ha raccolto durante la fase amministrativa, nel senso che non si può ammettere una integrazione postuma delle negligenze istruttorie (che costituiscono veri e propri vizi della funzione) da parte dell’organo di indagine, non esiste alcuna simmetria rispetto alla parte privata» (così Marcheselli A., ult. op. cit., 230), in quanto essa è il soggetto che subisce l’indagine.
Conseguentemente, non sembra possibile considerare sul medesimo piano – ed in maniera speculare – le negligenze istruttorie da una parte e la mancata collaborazione del contribuente dall’altra.
Tuttavia, a ben vedere, allo stato attuale, le due ipotesi menzionate non vengono nemmeno considerate in modo speculare, prevedendosi oggi conseguenze negative solamente dal lato del contribuente ed ammettendo invece – e persino – un’integrazione postuma delle negligenze istruttorie.
Invero, nel momento in cui la Cassazione a Sezioni Unite (nella pronuncia della Cass., Sez. Un., n. 30051/2024. Per un commento, tra gli altri, Giovanardi A., Il potere di autotutela nel mirino del creazionismo giudiziario, in il fisco, 2025, 1, 242 ss.) afferma che l’Amministrazione possa legittimamente annullare, per vizi sia formali sia sostanziali, l’atto impositivo viziato ed emettere, in sostituzione, un nuovo atto anche per una maggiore pretesa (salvi i limiti costituiti dal termine di decadenza e dal giudicato), l’asimmetria di cui si è detto si amplifica a dismisura. In particolare, se il contribuente, per negligenza o meno, non ottemperasse ai propri oneri di disclosure in sede istruttoria, andrebbe incontro alle menzionate preclusioni procedimentali e processuali. Al contrario, se l’Amministrazione finanziaria “accantonasse” materiale istruttorio di cui già dispone, le sarebbe comunque consentito impiegarlo in un secondo momento, magari in sede processuale (e ciò, si badi bene, sebbene consentito dalla Cassazione a Sezioni Unite, è in aperto contrasto con l’art. 9-bis, che, com’è noto, dispone «salvo che specifiche disposizioni prevedano diversamente e ferma l’emendabilità di vizi formali e procedurali, il contribuente ha diritto a che l’Amministrazione finanziaria eserciti l’azione accertativa relativamente a ciascun tributo una sola volta per ogni periodo d’imposta». La disposizione, in particolare, interviene in un’ottica di limitazione della frammentazione dell’attività accertativa, cioè dell’emissione di molteplici provvedimenti impositivi a carico di uno stesso contribuente per un determinato periodo d’imposta. La ratio infatti è quella di assicurare il pieno e coerente rispetto del divieto di bis in idem all’interno del procedimento tributario di modo che, per ogni possibile violazione, il contribuente abbia diritto ad essere gravato da una sola procedura e, quindi, a difendersi una sola volta).
Ne consegue un palese contrasto con il diritto di difesa del contribuente, la cui strategia difensiva risulta compromessa da un duplice angolo visuale. Da un lato – come si è detto sopra – sarebbe costretto ad autoincolparsi, dall’altro lato non sarebbe messo nella condizione di conoscere gli elementi acquisiti dall’Amministrazione finanziaria ma non confluiti nel provvedimento impositivo.
A ben vedere, e se mi è consentito stressare il concetto, allo stato attuale in ambito tributario sussisterebbe una sorta di “diritto al silenzio rovesciato”, in quanto esso sarebbe riconosciuto in maniera generalizzata non in capo al soggetto che subisce l’indagine, bensì all’Amministrazione finanziaria, la quale si vedrebbe destinataria – non di un dovere di indagare con piena diligenza, come sarebbe auspicabile, ma – della facoltà di emettere plurimi avvisi di accertamento valutando in più occasioni – o in modo differenziato – elementi già a sua disposizione.
Ne deriva quantomeno un evidente vulnus al diritto di difesa, poiché il contribuente si trova costretto a scoprire le proprie carte senza poter conoscere quelle dell’Ufficio. L’assetto attuale, tra le altre criticità, non risulta attribuire il giusto valore ai principi affermati dallo Statuto, violando, tra l’altro, il principio di proporzionalità stigmatizzato nell’art. 10-ter L. n. 212/2000.
(*) Il testo costituisce la rielaborazione della relazione svolta nell’ambito del Convegno sul “Diritto al silenzio” rientrante nell’ambito della didattica comune del dottorato di ricerca in Diritto dell’Università degli Studi di Genova, Dipartimento di Giurisprudenza, facente parte del ciclo di convegni “I diritti negati” svoltosi il giorno 4 luglio 2025. Il saggio confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
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