RECENTISSIME DALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE – Giustizia UE, decisione 4 settembre 2025, causa C-726/231 – Il caso Arcomet: tra IVA e transfer pricing (forse)
Di Gregorio Piran, Matteo Piva, Fabio Babolin
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La decisione della Corte di Giustizia (*)
Con la sentenza C-726/23 Arcomet, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha affermato che la remunerazione di servizi intercompany, calcolata, secondo le metodologie OCSE, al fine di riportare la marginalità di una società consociata all’interno dell’intervallo di libera concorrenza in coerenza con la disciplina del transfer pricing, costituisce corrispettivo di una prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso e rientrante nell’ambito di applicazione IVA.
La Direttiva IVA non osta, poi, a che l’Amministrazione finanziaria di uno Stato membro possa richiedere, al soggetto passivo che sollecita la detrazione dell’imposta, documentazione ulteriore rispetto alla fattura al fine di provare l’esistenza dei servizi sopra menzionati ed il loro utilizzo per operazioni soggette a IVA. Ciò purché la produzione di tali prove sia necessaria e proporzionata allo scopo.
Il (tentativo di) dialogo
Parafrasando le parole del filosofo David Chalmers, quello del trattamento IVA degli aggiustamenti di transfer pricing è uno dei “problemi difficili”, stanti le logiche di fondo – tra loro profondamente divergenti e financo quasi antitetiche – che animano le due discipline.
Mentre la materia dei prezzi di trasferimento è, infatti, orientata all’individuazione di un valore di libera concorrenza (arm’s length price o value), spesso giungendovi mediante l’identificazione di intervalli di prezzo e facendo in ciò generoso impiego di strumenti statistici, l’IVA resta radicata a criteri più oggettivi e definiti, quali quello del corrispettivo pattuito tra le parti ed effettivamente pagato. In altre parole, l’IVA è un’imposta che, in genere, tassa ciò che viene effettivamente corrisposto, non ciò che avrebbe dovutoessere corrisposto in condizioni di libera concorrenza.
Inoltre, il transfer pricing, sebbene normato in numerose giurisdizioni, si avvale tipicamente di soft law che, in quanto tali, sono soggette ad un ampio margine di discrezionalità nei singoli Stati. È la stessa OCSE, del resto, a riconoscere, all’interno delle Linee Guida sui Prezzi di Trasferimento, che «il transfer pricing non è una scienza esatta» (par. 1.13 edizione 2022). Di contro, l’IVA si radica sulla Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, la cui attuazione non può prescindere dai concetti di armonizzazione e di primazia del diritto dell’Unione.
Per tale motivo, la decisione della CGUE si innesta in una dialettica più profonda che vede coinvolti tanto gli organismi consultivi della Commissione europea in materia fiscale, quanto le varie Amministrazioni nazionali.
E così sia il VAT Committee che il VAT Expert Group presso l’Esecutivo comunitario si sono interessati della questione perlomeno fin dal 2017 (Working papers n. taxud.c.1(2016)1280928 del 28 febbraio 2017 “Question concerning the application of EU VAT Provisions” e taxud.c.1(2018)2326098 del 18 aprile 2018 “Paper on topic for discussion. Possible VAT implication of Transfer Pricing”), evidenziandone i profili di incertezza e proponendo una soluzione incentrata sull’esame di diverse casistiche.
Il VAT Expert Group in particolare, da un lato ha affermato la tendenziale irrilevanza IVA degli aggiustamenti disposti a seguito di accertamenti fiscali (non-voluntary transfer pricing adjustments) e, dall’altro, ha teorizzato una dicotomia all’interno degli aggiustamenti di TP volontariamente posti in essere dai contribuenti.
Qualora questi agiscano a diretto incremento o a diretta riduzione del prezzo dei beni/servizi oggetto della transazione originaria (ovvero, vi sia un link with the initial supply), essi dovrebbero ricevere un trattamento IVA analogo a quello della prestazione iniziale. Viceversa, i c.d. profit adjustments,unicamente finalizzati a riportare la complessiva marginalità del soggetto testato entro determinati livelli ritenuti espressivi di valori di libera concorrenza, dovrebbero ricadere fuori campo IVA (soprattutto ove sottendano l’applicazione di metodologie di transfer pricing che prevedano l’impiego di indicatori di marginalità che “accorpano” molteplici singole transazioni).
Tale soluzione, lineare e condivisibile su un piano teorico, si è rivelata però di non sempre agevole declinazione pratica. Lo stesso VAT Committee, infatti, ha concluso la riunione n. 110 (Working Paper n. 952 del 12 giugno 2018, taxud.c.1(2018)3475095) ribadendo che, stante la complessità della tematica, sarebbe risultata difficile la pubblicazione di linee guida specifiche e generalmente applicabili.
Si pensi, ad esempio, al caso di un soggetto distributore “puro” (ovvero dedito unicamente a questa attività in via esclusiva per conto del gruppo multinazionale di appartenenza) la cui marginalità venga “aggiustata” per ricondurla a livelli conformi al principio di libera concorrenza. Potrebbe non essere immediato capire se questo aggiustamento davvero impatti solo sul margine complessivo e sia, quindi, un profit adjustment fuori campo IVA o se (e con che logiche) esso si possa “scaricare” – rettificandolo – fin sul prezzo dei singoli beni che il distributore ha in precedenza acquistato infragruppo, dal momento che la profittabilità conseguita non può che derivare, in ultima istanza, proprio dalle cessioni a terzi di questi prodotti e, al netto della leva operativa del distributore stesso, dal prezzo di acquisto intercompany degli stessi.
Stante la suddetta incertezza non sorprende, pertanto, che l’approccio alla questione da parte delle varie Amministrazioni finanziarie sia stato, negli anni, essenzialmente casistico. Peraltro, l’assenza di una chiara posizione in sede europea le ha portate a soluzioni anche divergenti, riscontrandosi come in alcuni Stati membri la rilevanza ai fini IVA possa essere esclusa (al ricorrere di talune condizioni), mentre in altri gli aggiustamenti siano sempre da considerarsi come soggetti ad IVA.
Per quanto riguarda l’Italia, l’Agenzia delle Entrate non ha, ad oggi, emesso circolari o risoluzioni, affidando la propria posizione a varie risposte a interpello che risentono della fisiologica pluralità delle fattispecie sottoposte alla sua attenzione.
A livello dogmatico, la posizione dell’Erario italiano risulta però nel complesso allineata a quella del VAT Expert Group.
E così, nelle Risposte a interpello nn. 60/2018 e 884/2021, gli aggiustamenti di transfer pricing vengono riconosciuti fuori campo IVA, stante l’assenza di un legame diretto tra gli stessi e le singole cessioni di beni originariamente effettuate tra le parti e la conseguente impossibilità di ricondurre l’aggiustamento alla remunerazione di una specifica cessione ovvero ad una autonoma prestazione di servizi (ovvero, a un’obbligazione di fare, non fare e permettere).
Di contro, nelle Risposte nn. 529/2021, 266/2024 e 214/2025 assume valore dirimente quanto concordato tra le parti, visto che il dato contrattuale viene valorizzato per individuare un nesso tra aggiustamento e prezzo originario dei beni, con conseguente assoggettamento a IVA della fattispecie.
Ugualmente intonate – a quanto consta agli Autori – anche ulteriori Risposte non pubblicate.
Il comune denominatore di questi pronunciamenti di prassi è comunque l’importanza attribuita alla modalità di “costruzione” degli aggiustamenti e al suo puntuale riflettersi nelle pattuizioni negoziali tra le parti coinvolte.
In questo contesto – fluido, ma radicato su basi teoriche che parevano oramai assestate – la decisione recentemente resa dalla CGUE nella causa C-726/23 (Arcomet) apparentemente introduce un elemento di discontinuità che, nel prossimo futuro, potrebbe andare ad impegnare i giudici nazionali.
Arcomet Romania riceveva servizi dalla controllante belga in forza di un contratto che ne correlava la remunerazione al livello di marginalità conseguito dal soggetto committente.
Infatti, era contrattualmente stabilito che, per valorizzare correttamente le prestazioni svolte, una “fattura di perequazione” dovesse essere emessa, da Arcomet Belgio ad Arcomet Romania, qualora il margine di quest’ultima eccedesse il 2,74% o, viceversa, da Arcomet Romania ad Arcomet Belgio ove il margine del soggetto rumeno fosse invece inferiore allo 0,71%.
Nelle tre annualità oggetto di causa, la fattura di perequazione risultava sempre emessa da Arcomet Belgio, dal momento che il margine conseguito da Arcomet Romania risultava, a consuntivo, sempre superiore alla soglia prefissata. La consociata rumena, inoltre, dichiarava le prime due fatture come relative a servizi ricevuti (assolvendo l’imposta attraverso il meccanismo dell’inversione contabile) e la terza come fuori campo IVA.
Il Fisco rumeno contestava la detrazione IVA operata da Arcomet Romania sulle prime due fatture (per le quali l’imposta era stata assolta in Romania) e riscuoteva l’IVA supplementare sulla terza fattura, ritenendo mai provate le sottostanti prestazioni di servizi. A seguito dell’impugnazione da parte della società rumena dei rilievi mossi, il giudice del tribunale investito del ricorso ha ritenuto di rivolgere alla CGUE due quesiti.
Le questioni pregiudiziali sollevate riguardavano pertanto i) la rilevanza IVA, come corrispettivo di un servizio, di un importo fatturato infragruppo al solo fine di aggiustare il margine operativo, in ottica TP, della consociatae ii) in caso di rilevanza IVA, la legittimità della richiesta di documentazione atta a provare l’effettività dei servizi sottostanti alla ridetta transazione.
Come anticipato, la CGUE si è espressa in relazione ad entrambi i quesiti. Nel prosieguo, ci si concentrerà in particolare sulla prima delle risposte, dovendosi ritenere la seconda derivazione logica e conseguenza pratica della prima.
La Corte ha concluso che, nella vicenda in esame, si è in presenza di un’effettiva prestazione di servizi ai sensi dell’art. 2, par. 1, lett. c), Direttiva IVA, in quanto tra prestatore e beneficiario si sarebbe instaurato un rapporto giuridico nell’ambito del quale venivano scambiate prestazioni reciproche tali per cui la remunerazione accordata al prestatore (Arcomet Belgio) costituiva il controvalore del servizio fornito a vantaggio del beneficiario (Arcomet Romania) (cfr. parr. 32-37). Né il fatto che il contratto tra le parti legasse la determinazione del corrispettivo al margine operativo del soggetto rumeno bastava a rendere la prestazione di per sé gratuita, aleatoria, difficilmente quantificabile o incerta (cfr. par. 47), facendola con ciò fuoriuscire dal campo di applicazione dell’IVA.
Al riguardo, si osserva come la CGUE adduca quale precedente la sentenza “Baštová” (Causa C-432/15), pur giungendo a conclusioni di fatto opposte.
In quella sede i giudici avevano qualificato come fuori dal campo di applicazione dell’imposta la corresponsione di un premio da parte dell’organizzatore di una gara ippica al proprietario di un cavallo vincente, sulla scorta dalla considerazione che si trattava di una prestazione meramente aleatoria, stante l’assenza di nesso immediato tra la messa a disposizione del cavallo e la (solo eventuale) vincita.
In Arcomet, la Corte sembrerebbe smarcarsi pure dalla posizione del VAT Expert Group, abbandonando la tesi dell’estraneità IVA dei profit adjustment “di puro margine”.
Tuttavia, la decisione in commento merita una più attenta disamina che, a parere di chi scrive, rende le conclusioni del giudice comunitario meno assolute e meno generalizzabili, giacché più direttamente discendenti dalle peculiarità del caso portato alla sua attenzione.
Dal testo della decisione si evincono, infatti, taluni elementi da tenere in debita considerazione.
Anzitutto, risulta dai fatti di causa che era stata proprio Arcomet Romania a qualificare le fatture perequative ricevute da Arcomet Belgio «come relative a prestazioni di servizi» (cfr. par. 23 della sentenza e par. 24 delle conclusioni dell’Avvocato Generale).
In secondo luogo, pare che il contratto in vigore tra due società prevedesse la prestazione di eterogenee obbligazioni reciproche e che le fatture di perequazione, pur legate alla marginalità di Arcomet Romania nelle singole annualità, fossero contrattualmente e concettualmente connesse alla «modalità di determinazione di tale retribuzione [la retribuzione di Arcomet Belgio per i servizi resi ad Arcomet Romania e viceversa, n.d.a.] enunciate nell’allegato al medesimo contratto» (cfr. par. 22).
In altri termini, è lecito ipotizzare che siano stati proprio il dato contrattuale e la successiva (coerente) registrazione delle fatture ad orientare la sussunzione della fattispecie nella categoria dei servizi.
Questa ricostruzione permetterebbe peraltro di spiegare lo scostamento (solo apparente) tra la risposta data dalla Corte e il primo quesito pregiudiziale rivoltole.
Il giudice del rinvio chiedeva, in sostanza, se un profit adjustment di TP fosse o meno da considerarsi come il corrispettivo di un servizio a fini IVA («nutre […] dubbi sulla questione se un importo fatturato[…]che consente di aggiustare il margine di utile operativo[…] in conformità alle linee guida dell’OCSE, costituisca il corrispettivo effettivo di un servizio(enfasi aggiunta)»a fini IVA (cfr. par. 27).
La Corte, invece, nel riprendere il quesito sembra riformulare la domanda in senso quasi tautologico, dando già per assodato che l’aggiustamento dedotto in giudizio abbia la natura di remunerazione di servizi e derubricando l’utilizzo di un metodo di transfer pricing a mero strumento di calcolo del corrispettivo («il giudice del rinvio chiede […] se […]la remunerazione di servizi infragruppo, […] calcolata in conformità ad un metodo raccomandato dalle linee guida dell’OCSE […], costituisca il corrispettivo di una prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso rientrante nell’ambito di applicazione dell’IVA (enfasi aggiunta)», cfr. par. 31).
Tale riformulazione appare imputabile non certo a una distrazione della Corte, quanto piuttosto alla necessità di tenere in debita considerazione gli evidenziati profili fattuali dalla vicenda a quo. In altre parole, non poteva il giudice del rinvio interrogare la Corte sulla configurabilità o meno di un servizio, visto che il caso a lui posto riguardava quello che già le parti avevano contrattualmente inteso come tale.
È quindi verosimile ipotizzare che, in presenza di un contratto intercompany formulato diversamente (i.e. in maniera tale da ricollegare le fatture di perequazione alla mera rettifica del margine di Arcomet Romania e non già alla remunerazione dei servizi), la decisione della CGUE avrebbe seguito una diversa traiettoria logica.
A riprova, depone l’argomentazione impiegata dai giudici per replicare all’obiezione secondo cui le ridette fatture di perequazione avrebbero potuto – teoricamente – avere “verso contrario” ed essere emesse da Arcomet Romania nei confronti Arcomet Belgio, qualora la marginalità della prima si fosse attestata al di sotto del valore minimo.
Già l’Avvocato Generale, ai parr. 48 e ss. delle sue conclusioni, aveva liquidato la questione in modo estremamente pratico, osservando come un margine al di sotto dell’intervallo di libera concorrenza sarebbe stato “sorprendente” e come, in ogni caso, tale casistica non fosse integrata nella vicenda di specie.
Anche la Corte non si dilunga, valorizzando il «contesto fattuale della controversia» che verte «sull’ipotesi inversa […] del versamento di una remunerazione alla Arcomet Belgio da parte della Arcomet Romania alla fine dell’anno, in quanto quest’ultima ha registrato nel corso di ciascuno dei tre anni interessati dalle fatture di cui trattasi nel procedimento principale un margine di utile operativo positivo superiore a quello previsto in tale contratto» (cfr. par. 48). Né avrebbe forse potuto fare altrimenti, dal momento che la qualifica di servizio già data dalle parti alla transazione avrebbe comportato la necessità di prendere una posizione circa una fattispecie a dir poco controintuitiva, ovvero il caso in cui, a fronte di servizi pur sempre resi da Arcomet Belgio ad Arcomet Romania (così infatti prevedono il contratto e le dinamiche infragruppo) fosse quest’ultima ad emettere una fattura verso la prima per generare un ricavo e migliorare il proprio margine, al fine di riportarlo all’interno dell’intervallo di libera concorrenza.
A ben guardare, quindi, pare possibile intravedere una precisa volontà della Corte di astenersi da qualsivoglia enunciazione di principio circa la generale rilevanza IVA degli aggiustamenti di TP.
Infatti, ove la CGUE avesse davvero voluto fornire un inquadramento sistematico della materia (peraltro, in contrasto con l’orientamento ad oggi maggioritario) è ragionevole ipotizzare che avrebbe analizzato anche la casistica contraria appena discussa, giacché imprescindibile per la completezza della disamina.
Sembra pertanto potersi desumere dalla sentenza in commento che i) la stessa non riguarda propriamente la valorizzazione ai fini IVA degli aggiustamenti di TP, quanto piuttosto il caso dell’utilizzo di un metodo di TP per determinare il corrispettivo di un servizio rientrante nell’ambito di applicazione del tributo e che ii) nel definire l’ambito di un servizio assume rilevanza preponderante il dato contrattuale.
In conclusione, a parere di chi scrive, la sentenza Arcomet della Corte di Giustizia rappresenta certo un importante tassello nel complesso rapporto tra disciplina IVA ed il transfer pricing, ma non offre una soluzione definitiva e generalizzabile alla questione della rilevanza IVA degli aggiustamenti di TP. Dall’analisi emerge come il dato contrattuale e la qualificazione attribuita dalle parti alle operazioni restino elementi centrali per il trattamento fiscale delle stesse. In assenza di un orientamento univoco a livello europeo e nazionale, la prassi rimane frammentata e fortemente dipendente dalle specificità dei singoli casi. Sarà quindi fondamentale monitorare i futuri sviluppi giurisprudenziali, per comprendere se e come la Corte, anche in dialogo con i giudici nazionali, intenderà consolidare o superare l’approccio adottato nel caso Arcomet.
Un primo banco di prova potrebbe essere la pronuncia che verrà resa nella causa C-603/24 (Stellantis Portugal). La CGUE dovrà esprimersi su un quesito pregiudiziale che verte sul trattamento IVA di una prestazione di servizi a titolo oneroso che comprende un adeguamento del prezzo di vendita di veicoli ed attuato, al fine di ottenere un margine di profitto minimo, mediante l’emissione di una nota di credito o di debito da parte dei produttori europei alla società ricorrente.
(*) La rubrica è aperta a tutti coloro che intendono contribuire al progresso del diritto tributario, in generale, e al miglioramento della sua applicazione, in particolare, nella specie con interventi di commento della giurisprudenza di legittimità dialogici e costruttivi, scevri di polemiche e posizioni partigiane.
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