La Corte EDU si pronunzia per la prima volta su una problematica di discriminazione alla rovescia di rilevanza fiscale: profili sistematici e nuove prospettive di tutela anche costituzionali

Di Filippo Alessandro Cimino -

(commento a/notes to Corte EDU/ECHR: caso di Galbert Defforey e altri v. Francia – 22 maggio 2025 – R n. 45443/21)1

Abstract (*)

Per la prima volta la Corte europea dei diritti dell’uomo si occupa di discriminazioni alla rovescia che traggono origine dal diritto unionale con riguardo ad una fattispecie squisitamente tributaria. Nel saggio sono dapprima individuati i profili sistematici di tale tipologia di discriminazioni e l’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea. Sono poi esaminati gli strumenti offerti dall’ordinamento interno per la rimozione di tale tipologia di discriminazioni, sia di carattere legislativo, sia di ordine costituzionale innanzi alla Consulta. Vengono infine delineate nuove prospettive di tutela riguardanti le discriminazioni alla rovescia concernenti l’applicazione dell’art. 14 della Convenzione EDU alla materia tributaria, ed in particolare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo ed il ricorso alla Corte Costituzionale non soltanto con riferimento all’art. 3 della Costituzione, ma anche all’art. 117.

The ECtHR’s First Judgment on Reverse Discrimination in Tax Matters: Systemic Dimensions and Emerging Avenues of Protection, Including Constitutional Guarantees – For the first time, the European Court of Human Rights is addressing reverse discrimination stemming from Union law in a case that is quintessentially tax-related. This essay first identifies the systemic features of this type of discrimination and the established case law of the European Court of Justice. It then examines the instruments offered by the domestic legal system for the removal of such discrimination, both of a legislative and of a constitutional nature before the Constitutional Court. Finally, it outlines new perspectives for protection regarding reverse discrimination concerning the application of Article 14 of the ECHR to tax matters, and specifically the appeal to the European Court of Human Rights and the appeal to the Constitutional Court, not only with reference to Article 3 of the Constitution but also to Article 117.

Sommario: 1. La controversia in esame e le conclusioni delle Corte europea dei diritti dell’uomo. – 2. Profili ricostruttivi delle discriminazioni alla rovescia e l’orientamento della Corte di Giustizia europea con riguardo a tali discriminazioni. – 3. Le possibili modalità di risoluzione delle discriminazioni alla rovescia offerti dall’ordinamento interno: l’intervento del legislatore nazionale ed il ricorso alla Corte costituzionale sulla base del principio di uguaglianza. – 4. Le nuove prospettive di tutela offerte dalla sentenza in commento: l’applicazione alle discriminazioni alla rovescia dell’art. 14 della Convenzione EDU concernente il divieto di discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà tutelate dalla Convenzione.

1. La pronuncia in commento è di particolare rilevanza: per la prima volta la Corte europea dei diritti dell’uomo si occupa di discriminazioni alla rovescia che traggono origine dal diritto unionale con riguardo ad una fattispecie squisitamente tributaria (cfr. par. 98 della sentenza: “Elle [la Corte: n.d.r.] n’a cependant jamais été amenée à statuer sur une situation de discrimination à rebours, dans laquelle les règles d’un ordre juridique interne seraient moins favorables que celles applicables aux situations relevant du droit de l’Union européenne”).

La sentenza, pur rigettando i ricorsi dei contribuenti, apre interessanti squarci di tutela con riguardo alle discriminazioni alla rovescia, che, d’ora in poi, potranno essere contrastate innanzi alla Corte EDU invocando l’art. 14 della Convenzione EDU (“Divieto di discriminazione”) e l’art. 1 del Protocollo n. 1 (“Protezione della proprietà”).

La pronunzia in commento è stata resa dalla Corte EDU su tre distinti ricorsi, in seguito riuniti, proposti con riguardo alla tassazione di plusvalenze realizzate in occasione di scambi di titoli relativi a operazioni di fusione di società. Con i ricorsi i contribuenti hanno lamentato l’applicazione, a situazioni puramente interne, di norme meno favorevoli di quelle applicabili alle situazioni che rientrano nel diritto dell’Unione europea.

Il profilo di maggiore interesse della sentenza concerne il criterio di distinzione invocato con riguardo alla asserita discriminazione: esso non è un criterio soggettivo come la nazionalità o il luogo di residenza dei contribuenti, ma consiste in specifiche caratteristiche oggettive delle operazioni tassate. Più precisamente tale criterio di distinzione corrisponde alla questione se i contribuenti abbiano o meno effettuato un’operazione di scambio di titoli che ricade nell’ambito di applicazione della Direttiva 2009/1332 (cfr. par. 85).

I tre ricorrenti contestano il carattere discriminatorio delle modalità di calcolo della base imponibile del loro reddito, ritenendo di subire un trattamento meno favorevole rispetto ai contribuenti che hanno effettuato operazioni di scambio di titoli disciplinate dal diritto unionale.

In particolare i primi due ricorrenti lamentano di non aver potuto beneficiare della detrazione per la durata della detenzione prevista dall’art. 150-0 D del Code général des impôts (“CGI”) al momento della tassazione delle loro plusvalenze da scambio e da conferimento di titoli, essendo state realizzate prima del 1° gennaio 2013 e poste in sospensione d’imposta (cfr. par. da 5 a 9). I ricorrenti, facendo riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea 18 settembre 2019 (cause C-662/18 e C-672/18)3, sostengono che tale detrazione sarebbe stata loro concessa se le loro operazioni di scambio o di conferimento fossero rientrate nell’ambito di applicazione della Direttiva 2009/133/CE (cfr. par. 70).

Il terzo ricorrente lamenta invece di non aver potuto beneficiare di tale detrazione in sede di tassazione della plusvalenza realizzata dalla cessione dei titoli (cfr. par. da 27 a 29). Fondando il proprio ricorso sulla medesima sentenza della CGUE sopra citata, sostiene che avrebbe beneficiato di tale detrazione se la sua operazione di conferimento fosse rientrata nell’ambito di applicazione della Direttiva 2009/133, tenendo conto sia della durata totale di detenzione dei titoli conferiti sia di quella dei titoli ricevuti in cambio (cfr. par. 71).

La Corte EDU in via preliminare riporta alcuni consolidati principi generali da applicare alla fattispecie sottoposta alla sua attenzione.

Innanzitutto la Corte, per riscontrare una discriminazione ai sensi dell’art. 14 della Convenzione, deve rilevare una differenza di trattamento tra persone che si trovano in situazioni analoghe o comparabili (cfr. par. 80). In secondo luogo soltanto le differenze di trattamento basate su una caratteristica identificabile possono avere carattere discriminatorio ai sensi dell’art. 14 (cfr. par. 81). Infine non tutte le differenze di trattamento comportano automaticamente una violazione dell’art. 14: una differenza di trattamento, infatti, è discriminatoria soltanto ove non sia riscontrabile una giustificazione oggettiva e ragionevole, ovvero se non persegua uno scopo legittimo, o se non sussista un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito. Gli Stati contraenti usufruiscono di un certo margine di discrezionalità nel determinare se e in che misura differenze tra situazioni per altri versi analoghe giustifichino differenze di trattamento: la portata di tale margine di apprezzamento varia a seconda delle circostanze, dei settori e del contesto, ma spetta unicamente alla Corte decidere sul rispetto dei requisiti della Convenzione (cfr. par. 82).

Rimarcati i predetti principi generali, la Corte EDU li applica ai casi concreti sollevati dai ricorrenti.

La Corte ritiene di potere compiere una comparazione tra due situazioni diverse: una puramente nazionale, soggetta unicamente alla legge interna dello Stato membro; una transnazionale, soggetta al diritto UE giacché rientrante nell’ambito di applicazione della Direttiva 2009/133/CE (cfr. par. 84 e 90).

A tal fine la Corte ricorda che l’elenco dei criteri di discriminazione contenuto nell’art. 14 della Convenzione EDU è meramente indicativo, e che la locuzione “altra condizione” deve essere interpretata in senso estensivo. Invero tale locuzione non si limita alle caratteristiche che presentano un carattere personale in quanto innate o inerenti alla persona: nella fattispecie la Corte ritiene che la disparità di trattamento lamentata dai ricorrenti è correlata a una caratteristica identificabile, derivante dalla natura oggettiva delle operazioni effettuate dai contribuenti (cfr. par. 85-86).

La Corte EDU, dopo avere rilevato che la differenziazione prevista dalla norma interna persegue uno scopo legittimo, essendo funzionale alla necessità di conformarsi agli obblighi giuridici derivanti dall’adesione all’Unione europea (cfr. par. 94), e che occorre riconoscere allo Stato convenuto ampio margine di apprezzamento nella materia fiscale, prerogativa essenziale della Pubblica Autorità (cfr. par. 96), passa al riscontro nella fattispecie della sussistenza o meno di un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.

La Corte EDU ritiene che nella fattispecie la discriminazione prevista dalla norma interna sia proporzionata allo scopo, sulla base di tre distinte considerazioni.

Innanzitutto la Corte osserva, aderendo alla valutazione già compiuta dal Conseil constitutionnel e dal Conseil d’État (cfr. par. 22 e 26) che l’ordinamento giuridico interno comprende norme di effetto analogo a quelle comunitarie. Infatti i regimi di differimento dell’imposizione applicabili alle plusvalenze da permuta di titoli previsti dalla normativa interna mirano a garantire una certa neutralità fiscale a tali operazioni, evitando che il contribuente sia costretto a cedere i propri titoli per pagare l’imposta: varia unicamente il grado di neutralità fiscale dell’operazione di scambio di titoli, che è rafforzato per le situazioni che rientrano nell’ambito di applicazione della Direttiva 2009/133/CE (cfr. par. 99).

In secondo luogo la Corte rileva che la differenziazione sarebbe stata eliminata nel tempo, poiché la norma interna consisteva in una disposizione transitoria emanata in occasione della riforma fiscale attuata negli anni 2013 e 2014, e pertanto con effetto limitato nel tempo. A tal fine la Corte osserva che l’attuazione di riforme economiche o sociali presuppone la determinazione del loro ambito di applicazione temporale, il che comporta necessariamente l’esclusione di alcuni beneficiari in conformità a criteri che potrebbero apparire arbitrari agli interessati.

Con particolare riguardo al terzo ricorrente la Corte, infine, osserva che il contribuente ben avrebbe potuto ritardare la cessione dei titoli ricevuti in cambio per beneficiare della riduzione della tassazione della plusvalenza.

Con presente saggio si sviluppano alcune considerazioni con riguardo alla problematica concernente le discriminazioni alla rovescia, individuando le soluzioni finora adottate per la risoluzione di tali discriminazioni e, infine, alle nuove prospettive di tutela dischiuse dalla sentenza in commento.

2. Delineata la fattispecie, caratterizzata da una discriminazione alla rovescia (discrimination à rebours nella sentenza della Corte EDU), appare opportuno tratteggiare sia i profili sistematici di tale tipologia di discriminazioni, sia l’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea al riguardo.

La discriminazione alla rovescia è stata plasticamente descritta come «the exceptional case that special favours are granted to aliens» (cfr. Sundberg-Weitman B., Discrimination on Grounds of Nationality – Free Movement of Workers and Freedom of Establishment under the EEC Treaty, North-Holland Publishing, 1977, 113). Il fenomeno, pertanto, evidenzia la concessione di un trattamento meno favorevole per gli appartenenti alla comunità nazionale rispetto a quello riservato ai soggetti ad essa esterni (cfr. Pistone P., Uguaglianza., discriminazione a rovescio e normativa antiabuso in ambito comunitario, in Dir. prat. trib., 1998, 4, 586).

Nell’ambito del diritto unionale si determina tale discriminazione nell’ipotesi in cui le situazioni puramente interne subiscono un trattamento deteriore rispetto alle corrispondenti fattispecie transfrontaliere (cfr. Arena A., Le “situazioni puramente interne” nel diritto dell’Unione europea, Napoli, 2019, 87).

Dal punto di vista dei soggetti coinvolti, tali discriminazioni hanno riguardo a due categorie di operatori: da un lato, quelli che si trovano in una situazione puramente interna e, dall’altro, coloro la cui situazione è contrassegnata da elementi di transnazionalità.

Le discriminazioni alla rovescia sono l’effetto di due cause ben precise: l’evoluzione del processo di integrazione economica comunitaria ed il primato del diritto unionale su quello interno degli Stati membri dell’UE.

Ai fini dell’effettivo compimento del Mercato comune europeo, in molti casi sono stati imposti nei singoli Stati membri trattamenti normativi più favorevoli rispetto a quelli previsti nell’ambito interno, determinando di conseguenza effetti deteriori nei confronti degli operatori esclusivamente interni, ai quali non si applica la normativa comunitaria.

Le discriminazioni alla rovescia traggono origine dalla sovrapposizione di due ordinamenti giuridici ineludibilmente compenetrati: l’ordinamento interno e quello unionale.

La qualifica “alla rovescia” è stata attribuita non soltanto poiché tali discriminazioni determinano una situazione sfavorevole per gli operatori che presentano situazioni puramente interne, ma anche, e soprattutto, perché costituiscono il risvolto non voluto – in senso letterale, “il rovescio” – dell’applicazione del diritto unionale (cfr. Spitaleri F., Le discriminazioni alla rovescia nel diritto dell’Unione Europea, Ariccia-Roma, 2010, 2).

La dottrina di diritto pubblico comparato ha enucleato tre situazioni di innesco delle discriminazioni in parola (cfr. Arena A., Le “situazioni puramente interne” nel diritto dell’Unione europea, cit., 87-89).

Tali discriminazioni possono essere causate, innanzitutto, dalla mancata applicazione ai soggetti che si trovano in situazioni esclusivamente interne, di regimi giuridici più favorevoli che derivano dal diritto unionale e che disciplinano situazioni transfrontaliere (CGUE, 27.10.1982, C-35/82, Morson).

Ancora, tali discriminazioni possono essere l’effetto dell’interazione delle norme nazionali con principi generali a tutela di diritti fondamentali, stante che questi ultimi, per costante giurisprudenza unionale, sono tutelati unicamente quando la fattispecie ricada nell’ambito di applicazione del diritto europeo (CGUE, 29 maggio 1997, C-299/95, Kremzow).

Le discriminazioni alla rovescia, infine, possono scaturire dall’imposizione alla situazione interna di una normativa nazionale sfavorevole che non trova, invece, applicazione nella fattispecie transfrontaliera corrispondente (CGUE, 14 luglio 1988, C-407/85, Drei Glocken).

Una discriminazione alla rovescia è riscontrabile nelle fattispecie esaminate nella sentenza in commento: i ricorrenti lamentano che avrebbero ricevuto un trattamento migliore ove le loro operazioni di scambio o di conferimento fossero rientrate nell’ambito di applicazione della Direttiva 2009/133/CE piuttosto che nell’ambito del Code général des impôts vigente pro tempore.

Con riguardo all’ordinamento tributario italiano, la dottrina ha più volte evidenziato, prima della riforma tributaria avviata con la legge delega n. 111/2023, l’esistenza di un serio e generale problema di duplicità di regime giuridico dei tributi armonizzati (IVA, accise e imposta sui conferimenti di capitale) e dei tributi non armonizzati (imposte sui redditi) sotto il profilo della tutela dei diritti del contribuente.

In particolare è stato osservato il divario sempre più marcato che la giurisprudenza garantista della Corte di Giustizia in materia di tutela dei diritti del contribuente di imposte armonizzate ha creato rispetto alla tutela dei diritti dei contribuenti di imposte non armonizzate, rilevando l’intrinseca ingiustizia che deriva dalla disparità di trattamento fra due categorie di soggetti in situazioni certamente comparabili.

Basti considerare le discriminazioni alla rovescia inerenti al diritto al contraddittorio in sede amministrativa, il divieto di sanzioni amministrative o penali eccessive in quanto non proporzionate alla gravità dell’infrazione, il diritto del contribuente a non essere perseguito o sanzionato due volte per la medesima infrazione secondo il divieto di ne bis in idem (cfr. Traversa E., Analisi sistematica di quarant’anni di giurisprudenza tributaria italiana della corte di giustizia [1983-2023], in Dir. prat. trib. int., 2023, 2, 617; Id., Sanzioni tributarie, “discriminazioni a rovescio” ed esigenza di un intervento della Corte costituzionale, in Riv. trim. dir. trib., 2020, 4, 955; Gianoncelli S., I principi UE nella giurisprudenza tributaria della Cassazione: primato del diritto europeo e discriminazioni a rovescio, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 3, 614; Iaia R., Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario nell’ordinamento dell’unione europea. Riflessi nel diritto nazionale, in Dir. prat. trib., 2016, 1, 55).

La Corte di Giustizia europea ha escluso che un rimedio alle discriminazioni a rovescio possa essere individuato nell’ambito dell’ordinamento unionale.

Secondo l’orientamento consolidato della Corte di Giustizia europea, il diritto unionale non osta alle discriminazioni in parola in quanto la disciplina delle situazioni esclusivamente interne è rimessa unicamente agli Stati membri ed esula dal perimetro applicativo del diritto europeo (sull’irrilevanza delle fattispecie in cui il soggetto estero beneficia di un trattamento fiscale più favorevole rispetto al soggetto interno, cfr. CGUE, 28 marzo 1979, C-175/78, Saunders; 5 giugno 1997, C-64/96 e C-65/96, Uecker e Jacquet; 26 gennaio 1999, C-18/95, Terhoeve; 1° aprile 2008, C-212/06, Governo della Comunità francese e Governo vallone; 19 giugno 2008, C-104/08, Kurt; 1° luglio 2010, C-393/08, Sbarigia; 22 dicembre 2010, C-245/09, Omalet).

La ratio dell’orientamento che esclude dall’ambito di applicazione della normativa unionale le situazioni interne non evidenzia affatto un approccio agnostico, né pilatesco, della Corte di Giustizia europea (cfr. Pallaro P., La sentenza Guimont: un definitivo superamento processuale dell’irrilevanza comunitaria sostanziale delle cd. discriminazioni a rovescio, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001, 100): invero la Corte è chiamata ad applicare esclusivamente le norme unionali, indicando alle giurisdizioni nazionali la loro corretta interpretazione e determinando, ove necessario, la disapplicazione delle norme interne che contrastino con il diritto comunitario o, comunque, ne pregiudichino la piena efficacia.

Le pronunzie della Corte di Giustizia europea producono i loro effetti unicamente in quegli ambiti dai quali il legislatore nazionale è estromesso, o nei quali si deve limitare a dare attuazione al diritto comunitario, o nei quali, ancora, il suo intervento possa pregiudicare la piena applicazione del diritto unionale.

Non è compito della Corte di Giustizia imporre agli Stati membri principi di carattere generale che, al di fuori di tali ambiti, vincolino l’operato del legislatore, dei giudici e delle amministrazioni nazionali (cfr. Gianoncelli S., I principi UE nella giurisprudenza tributaria della Cassazione: primato del diritto europeo e discriminazioni a rovescio, cit., 617).

Al di fuori di questa precisa delimitazione, la trasposizione dei principi generali enucleati dalla Corte di Giustizia europea nel diritto nazionale non è né necessitata, né obbligatoria: tale trasposizione, anche se certamente auspicabile, è rimessa alla mera discrezionalità dello Stato membro.

Non sono mancate, tuttavia, pronunzie ove la Corte di Giustizia europea ha limitato l’area di irrilevanza delle fattispecie esclusivamente interne rispetto al diritto europeo, sia delineando un orientamento volto a superare sul piano procedurale la mancata rilevanza ai fini del diritto europeo delle situazioni puramente interne (cfr. CGUE, 30 marzo 2006, C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti; 5 dicembre 2006, C-94/04 e C-204/04, Cipolla; 1° giugno 2010, C-570/07 e C-571/07, Blanco Perez), sia rintracciando l’elemento transfrontaliero richiesto per l’applicazione delle libertà fondamentali anche in forme di discriminazione potenziale a danno dei soggetti stranieri (cfr. CGUE, 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen; 15 maggio 2008, C-147/06 e C-148/06, SECAP: in argomento, cfr. Persiani A., Non discriminazione fiscale nell’Unione europea [principio di], in Dig. disc. pubbl., Torino, 2017, 521).

3. Rilevata l’impossibilità sotto il profilo sistematico di ricorrere alla Corte di Giustizia europea per una efficace tutela delle problematiche di discriminazione alla rovescia, deve necessariamente concludersi che la soluzione deve essere individuata all’interno degli ordinamenti giuridici e delle procedure costituzionali di ciascuno Stato; occorre pertanto esaminare gli strumenti offerti dall’ordinamento interno per la rimozione di tale tipologia di discriminazioni.

Invero, negli ordinamenti nazionali si riscontrano strumenti potenzialmente risolutivi, sia di carattere legislativo sia di ordine costituzionale, per la rimozione delle discriminazioni in parola (cfr. Spitaleri F., Le discriminazioni alla rovescia nel diritto dell’Unione Europea, cit., 3).

Avendo dapprima riguardo agli strumenti normativi, ben potrebbe il legislatore nazionale, con un processo di armonizzazione spontanea, applicare alle fattispecie esclusivamente interne il regime previsto dal diritto unionale per le situazioni di carattere transfrontaliero (sui modi di integrazione del diritto comunitario nell’ordinamento nazionale, cfr. Del Federico L., Tutela del contribuente e integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010; Fichera F., Fisco e Unione europea: l’acquis communautarie, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2003, 3, I, 427; Melis G., Spunti sul “metodo di coordinamento fiscale aperto” quale possibile strumento per l’integrazione fiscale tra Stati dell’Unione Europea e Stati terzi, in Dir. prat. trib. int., 2008, 1, 207).

Il legislatore interno, ancora, potrebbe rimuovere la discriminazione alla rovescia abrogando le disposizioni che, in specifici ambiti e per determinate fattispecie, impongono agli operatori interni requisiti più stringenti e, pertanto, un trattamento deteriore rispetto alle situazioni transfrontaliere (c.d. allineamento dal basso).

Da ultimo il legislatore potrebbe emanare disposizioni di principio che in via generale prevedano il divieto di discriminazioni alla rovescia e l’obbligo di non trattare i soggetti interni in modo deteriore rispetto a quanto previsto dal diritto unionale per le fattispecie transfrontaliere.

Con riguardo all’ordinamento tributario italiano, ed analizzando in particolare attraverso il prisma delle discriminazioni alla rovescia la riforma (melius, la revisione) del diritto tributario scaturita dalla legge delega n. 111/2013, non vi è alcun dubbio che alcune problematiche relative a tali discriminazioni sono state risolte dal legislatore, certamente sotto la spinta della Corte EDU, della Corte di Giustizia europea e della Consulta.

Basti considerare la generale applicazione del principio del contraddittorio a pena di nullità, nonché l’intervento riformatore in tema di sanzioni tributarie, amministrative e penali che nasce dall’esigenza di dare attuazione al principio del ne bis in idem, nonché – per quanto concerne il sistema sanzionatorio tributario amministrativo – al principio di proporzionalità.

Non tutte le discriminazioni alla rovescia, tuttavia, sono state rimosse. Un esempio di discriminazione alla rovescia non risolto è quello dell’imposta sulle transazioni finanziari relative a strumenti derivati che penalizza sui mercati finanziari di tutto il mondo sia le negoziazioni di azioni emesse da società residenti in Italia, sia gli investimenti in strumenti finanziari derivati basati su azioni di società italiane, con evidente discriminazione a rovescio a danno delle società aventi sede in Italia (cfr. Cimino F.A., In tema di imposta sulle transazioni finanziarie relative a strumenti derivati [Nota a Corte di Giustizia C-565/18 Société générale], in Rass. trib., 2020, 4, 1016).

Avendo riguardo ai rimedi di ordine prettamente giurisdizionale, è possibile applicare alle fattispecie esclusivamente interne il regime normativo disposto dal diritto unionale facendo leva sul principio di uguaglianza sancito a livello costituzionale interno (cfr. Uckmar V., Il ruolo della Corte costituzionale italiana in materia tributaria nell’era della Corte di Giustizia Europea, in Perrone L. – Berliri C., a cura di, Diritto tributario e Corte Costituzionale. Cinquanta anni della Corte Costituzionale della Repubblica Italiana, Napoli, 2006, 83).

Secondo questa declinazione di tutela, lo strumento più adeguato è indubbiamente il sindacato di costituzionalità ai sensi dell’art. 3, il quale richiede per ogni singola fattispecie l’intervento della Consulta investita di una questione di legittimità costituzionale dal Giudice ordinario.

A tal fine occorre invocare l’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sia pure mediata attraverso i principi di cui agli art. 3 e 53 della Costituzione.

Invero ogni disparità di trattamento provocata da una fattispecie di discriminazione alla rovescia a danno dei contribuenti di tributi non armonizzati appare, almeno in linea di principio, costituzionalmente illegittima per violazione del principio di uguaglianza.

Rivestono, al riguardo, notevole rilevanza alcune pronunce della Corte costituzionale aventi ad oggetto discriminazioni alla rovescia a danno di soggetti italiani nei confronti di soggetti di altri Stati membri dell’Unione Europea nell’ambito dell’esercizio delle quattro libertà fondamentali di circolazione garantite dal Trattato UE, ed in particolare la sentenza n. 249/1995, sul regime di lavoro a termine dei lettori universitari italiani (cfr. Forte L., Confermata la durata del contratto di lettorato a tempo indeterminato, anche da parte della corte costituzionale, in Riv. giur. lav. prev. soc., 995, 667), e la sentenza n. 443/1997, sui produttori italiani di pasta (cfr. Tripodina C., Libera circolazione delle merci nel mercato comunitario e tutela delle tradizioni alimentari dei paesi membri: un caso di discriminazione a rovescio, in Giur. it., 1998, 2093).

Proprio con la sentenza da ultimo citata la Consulta ha stabilito che «il principio di non discriminazione tra imprese che agiscono sullo stesso mercato in rapporto di concorrenza, opera, nella diversità delle discipline nazionali, come istanza di adeguamento del diritto interno ai principii stabiliti nel trattato».

4. Per individuare le nuove prospettive di tutela riguardanti le discriminazioni alla rovescia dischiuse dalla sentenza in commento, è opportuno fare cenno ad alcuni profili sistematici concernenti l’applicazione dell’art. 14 della Convenzione EDU alla materia tributaria (cfr. Giuliani F. – Chiarizia G., Diritto tributario, CEDU e diritti fondamentali dell’U.E., Milano, 2025, 453; Attard R. – Pinto de Albuquerque P., Taxation at the European Court of Human Rights, Alphen aan den Rijn, 2023; Greggi M., La rilevanza fiscale della convenzione europea dei diritti dell’uomo: dall’interesse fiscale al principio di non discriminazione, in Riv. dir. fin., 2000, 3, I, 412; Id., Dall’interesse fiscale al principio di non discriminazione nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Riv. dir. fin., 2001, I, 439).

L’art. 14 della Convenzione stabilisce che «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione».

Il divieto di discriminazione assume un ruolo fondamentale nella Convenzione, essendo espressione del principio di uguaglianza che impone che situazioni analoghe non siano trattate diversamente, e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che un simile trattamento non sia oggettivamente giustificato.

Tale divieto di discriminazione non ha un ambito di applicazione generalizzato a tutti i diritti previsti dall’ordinamento interno dei singoli Stati contraenti, ma è limitato al godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione e dai protocolli aggiuntivi o, comunque, ad essi riconducibili.

Poiché le questioni fiscali ricadono, almeno in linea di principio, nell’ambito di applicazione della tutela della proprietà di cui all’art. 1, primo Protocollo aggiuntivo della Convezione EDU (il quale dispone che «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. […] Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie […] per assicurare il pagamento delle imposte […]»), le possibili discriminazioni che concernono l’applicazione di un’imposta, tra cui quella alla rovescia, sono ricomprese nel perimetro degli artt. 14 e 1, primo Protocollo.

L’elencazione degli indici di discriminazione non ha natura tassativa, ma meramente esemplificativa. La norma, infatti, chiude con il richiamo a “ogni altra condizione” (in inglese “any other status” e in francese “toute autre situation”), per cui l’interprete può individuare in via estensiva una discriminazione rilevante anche con riguardo a motivi di discriminazione non indicati espressamente; l’elenco dei motivi di discriminazione, pertanto, deve considerarsi aperto e potenzialmente illimitato.

In ogni caso, le differenze di trattamento vietate devono essere fondate su una caratteristica univocamente identificabile, oggettiva o personale, oppure su uno status, idoneo a distinguere le persone, o i gruppi di persone, gli uni dagli altri.

Non tutte le differenze di trattamento nel godimento dei diritti e delle libertà costituiscono discriminazioni vietate: esse ricorrono soltanto nel caso cui non trovino giustificazione oggettiva, ragionevole e proporzionata del loro scopo e dei loro effetti.

Per quanto concerne l’accertamento delle discriminazioni vietate innanzi alla Corte EDU, è onere del ricorrente dimostrarne la sussistenza anche con presunzioni gravi, precise e concordanti mentre è onere dello Stato contraente fornire adeguata giustificazione. Lo Stato contraente deve pertanto dimostrare lo scopo legittimo della discriminazione, la relazione tra lo scopo e la differenza di trattamento e, soprattutto, la proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito. La Corte EDU, con riguardo alle discriminazioni, riconosce allo Stato contraente un certo margine di apprezzamento, molto stretto ove la discriminazione concerna gli indici di discriminazione espressamente elencati dall’art. 14 o nei confronti dei soggetti o gruppi vulnerabili, e molto più ampio con riguardo alla politica sociale, economica e fiscale perseguita dal singolo Stato.

Con specifico riguardo alla sentenza oggi in commento, la Corte, in applicazione dei principi sopra tratteggiati, ha compiuto un preciso test di discriminazione, evidenziando alcuni punti di estremo interesse.

Il primo passaggio concettuale è consistito nell’accertamento della differenza di trattamento di persone in situazioni analoghe, individuando due gruppi di persone oggetto di confronto: da un lato, i soggetti che si trovano in una situazione puramente interna e, dall’altro, coloro la cui situazione è contrassegnata da elementi di transnazionalità ed ai quali si applica la normativa comunitaria.

È particolarmente rilevante al riguardo il punto 85 della sentenza: «La Cour relève que le critère de distinction mobilisé dans la discrimination alléguée n’est ni la nationalité ni le lieu de résidence des contribuables. Il correspond plus précisément au point de savoir si les contribuables ont, ou non, réalisé une opération d’échanges de titres relevant du champ d’application de la directive 2009/133»: pertanto la Corte ritiene che gli indici di discriminazione da prendere in considerazione ai fini dell’applicazione dell’art. 14 includono anche situazioni meramente economiche (nella fattispecie correlate all’applicazione o meno della normativa comunitaria), e non soltanto personali ovvero legate alla tutela delle minoranze (tra cui la nazionalità e la residenza).

Con il secondo passaggio concettuale la Corte ha verificato nell’ordine: che la differenza di trattamento persegue uno scopo legittimo, individuato nella necessità di conformarsi agli obblighi giuridici derivanti all’Unione Europea (cfr. par. 94 della sentenza); che occorre riconoscere allo Stato ampio margine di apprezzamento nella materia fiscale (cfr. par. 96); che, considerando le specificità delle fattispecie portate all’attenzione della Corte, i mezzi impiegati dallo Stato sono proporzionati allo scopo perseguito (cfr. par. 99-101).

Da quanto evidenziato emerge una prima rilevante conclusione: d’ora in poi, in applicazione dei principi enunciati dalla sentenza in commento, le misure fiscali strutturali, e non congiunturali, che comportano discriminazioni alla rovescia potranno legittimamente essere portate all’attenzione della Corte EDU invocando l’art. 14 della Convenzione EDU, in combinato disposto con l’art. 1 del Protocollo n. 1.

Naturalmente affinché il ricorrente possa avere successo, dovrà essere prestata particolare attenzione al profilo riguardante l’inesistenza nella fattispecie di un ragionevole rapporto di proporzionalità tra mezzi impiegati e scopo perseguito.

Il successo del ricorso, pertanto, sarà condizionato all’efficace spiegazione del motivo per il quale la discriminazione alla rovescia portata all’attenzione della Corte non sia proporzionata.

Si rileva, al riguardo, che la Corte EDU nella fattispecie esaminata dalla sentenza in commento ha rigettato il ricorso soltanto perché la discriminazione alla rovescia è stata valutata come parziale e provvisoria (cfr. par. 99-101); ne consegue che ove si dimostrasse in altra fattispecie che la discriminazione è totale e definitiva, il ricorso dovrebbe essere accolto.

Emerge, ancora, una seconda conclusione: le discriminazioni alla rovescia potranno trovare tutela davanti alla Consulta non soltanto con riferimento agli artt. 3 e 53 della Carta costituzionale, ma anche con specifico riferimento all’art. 117: lo Stato deve esercitare la potestà legislativa nel «rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», e tra tali vincoli rientra indiscutibilmente anche l’art. 14 della Convenzione EDU (cfr. Marcheselli A., La [in]dipendenza del giudice tributario italiano nella lente della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, in Dir. prat. trib., 2013, 2, 387 ss.).

La problematica, che travalica i confini del presente saggio, è certamente aperta e merita di essere ripresa e approfondita.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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1 Il presente studio è il contributo al progetto di ricerca di interesse nazionale (PRIN 2022 ‘ 2022P23BRW) denominato: The Common Constitutional Traditions of the European Union and their Impact on the Process of Europeanisation of Tax Law CUP: D53D23007390006.

2 Direttiva 2009/133/CE del Consiglio, 19 ottobre 2009, relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, alle scissioni parziali, ai conferimenti d’attivo ed agli scambi d’azioni concernenti società di Stati membri diversi e al trasferimento della sede sociale di una Società Europea e di una Società Cooperativa Europea tra Stati membri.

3 Con riguardo alla citata sentenza della CGUE, le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’art. 8 Direttiva 2009/133/CE del Consiglio, 19 ottobre 2009 e dell’art. 8 Direttiva 90/434/CEE del Consiglio, 23 luglio 1990. Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie che vedono contrapposti due contribuenti all’Amministrazione finanziaria francese, in merito al rifiuto di quest’ultima, al momento dell’imposizione delle plusvalenze collocate in differimento di imposta ai sensi dell’art. 8 di ciascuna delle suddette Direttive e di quelle realizzate in occasione della cessione di titoli ricevuti nell’ambito di un’operazione di scambio di titoli, di applicare loro un abbattimento complessivo calcolato a decorrere dalla data di acquisto dei titoli scambiati.

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