Poteri forti e diritti deboli. Riflessioni minime sull’assetto dell’istruttoria tributaria a margine della sentenza Italgomme
Di Marco Di Siena
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Abstract (*)
L’articolo mira a formulare una breve analisi delle ragioni dello squilibrio fra poteri ispettivi e garanzie difensive caratterizzanti l’attuale assetto dell’istruttoria tributaria. Uno squilibrio censurato con vigore nella recente sentenza Italgomme ed a fronte di cui si è assistito ad una prima rapida reazione legislativa. In realtà, la disciplina legale parrebbe già sufficientemente in grado di tutelare il contribuente ma è soprattutto l’interpretazione giurisprudenziale di questo secolo che ha progressivamente eroso l’effettività delle garanzie difensive che necessitano di essere valorizzate in modo adeguato nel rispetto del principio di proporzionalità di recente introdotto nella L. n. 212/2000.
Strong powers and weak rights. Short thoughts on the structure of tax investigations in light of the Italgomme decision – This essay aims to provide a brief analysis of the reasons for the imbalance between investigative powers and defensive guarantees in the current tax investigation system. This imbalance was strongly criticized in the recent Italgomme decision and prompted an initial rapid legislative response. While the legal framework appears capable of adequately protecting taxpayers, the jurisprudential interpretation of this century has progressively eroded the effectiveness of the defensive guarantees, which must be enhanced in accordance with the recently introduced principle of proportionality in the context of L. no. 212/2000.
Sommario:1. La sentenza Italgomme e la ragione di una riflessione. – 2. Il recente attivismo legislativo in materia di istruttoria tributaria. Opportunismo tattico o interventi strategici indifferibili? – 3. La risposta normativa alla sentenza Italgomme: vera gloria? – 4. Le cause della crisi, il progressivo arretramento delle prerogative individuali nonostante lo Statuto dei diritti del contribuente. – 5. Ma perché poi? Brevi conclusioni irriverenti.
1. Accade in modo ciclico che determinate tematiche (anche di ordine squisitamente tecnico) divengano (per così dire) di moda quasi in maniera improvvisa e prendano così la ribalta mediatica oltre che scientifica. È quanto accaduto per l’assetto dell’istruttoria tributaria (per un’analisi dei singoli poteri ispettivi cfr. fransoni G., Le indagini tributarie. Attività e poteri conoscitivi nel diritto tributario, Torino, 2020) alla luce della (ormai celebre) sentenza Italgomme (CEDU, 6 febbraio 2025, n. 36617/18 – Italgomme Pneumatici S.r.l. contro Italia).
L’interesse suscitato da tale decisione è stato sin da subito molto pronunziato sia nella comunità degli studiosi (per un primo commento cfr. Petrillo G., L’istruttoria tributaria al cospetto delle censure della Corte EDU: spunti a margine di una recentissima decisione, in Riv. tel. dir. trib., 2025, 1 e pubblicato online il 15 febbraio 2025, www.rivistadirittotributario.it; Stevanato D., Accessi, ispezioni e verifiche violano i diritti di libertà secondo la Corte EDU, in Corr. trib., 2025, 5, 417 ss.; Marcheselli A., La Corte EDU e il diritto “canzonatorio” dei diritti fondamentali: le garanzie durante gli accessi e il diritto al silenzio, in il fisco, 2025, 9, 743 ss.) che nella stampa e pubblicistica maggiormente dedite alle tematiche fiscali.
In breve, quella che per lungo tempo ha rappresentato una sorta di foresta pietrificata (volendo parafrasare la nota espressione impiegata da Giuliano Amato per definire il sistema bancario italiano prima della riforma del 1990) o, comunque, una tematica oggettivamente di nicchia, sebbene presidiata da lavori assai profondi (v., ad esempio, Marcheselli A., Accertamenti tributari. Poteri del Fisco. Strategie del difensore, III ed., Milano, 2022 o ancora, seppure meno di recente, Vanz G., I poteri conoscitivi e di controllo dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2012, ma anche, ancora più in là nel tempo, Viotto A., I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002; Schiavolin R., Poteri istruttori dell’Amministrazione finanziaria, in Dig. disc. priv.,sez. comm., 1995, 196 ss.; Manzoni I., Potere di accertamento e tutela del contribuente nelle imposte dirette e nell’Iva, Milano, 1993; Salvini L., La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990) ha finito per assumere i connotati dell’argomento à la page.
A tal punto che la stessa giurisprudenza di legittimità (si veda l’ordinanza Cass., sez. trib., n. 11910/2025: per un primo commento cfr. Calzolari A. – Chiarizia G., La tutela del domicilio commerciale del contribuente: riconosciuta d’ufficio la sentenza Italgomme, in Corr. trib., 2025, 7, 655 ss.) vi ha dedicato (almeno dal punto di vista formale) immediata attenzione laddove per lungo tempo aveva sostanzialmente relegato la specifica tematica ai margini della propria elaborazione interpretativa, appagata dalla progressiva definizione di un assetto complessivo essenzialmente pro Fisco.
E non è tutto. Come se la sentenza Italgomme avesse avuto l’effetto di svelare hic et nunc deficit strutturali di ordine normativo circa la tutela delle prerogative soggettive di natura non patrimoniale del contribuente anche il legislatore ha subito dimostrato un certo attivismo. Un attivismo a cui sono da ricondurre l’art. 13-bis D.L. n. 87/2025 rubricato “Motivazione delle esigenze di indagine e controllo nei verbali di accesso”, ma soprattutto l’iniziativa riflessa nel DDL n. 1376/2025 in tema di rafforzamento del rispetto del domicilio e diritto di difesa del contribuente in sede di verifica fiscale.
Questo, dunque, il quadro d’insieme ad oggi. Si tratta di uno scenario in rapidissimo movimento che merita una qualche riflessione. Si badi bene. Non una riflessione puntuale sulle singole carenze di tutela (vere o presunte) che contraddistinguono la fase ispettiva tributaria né un’analisi di quanto, a livello legislativo, si è già prefigurato o si va ipotizzando. Piuttosto una riflessione in qualche modo di sistema (pur senza volere essere enfatici ma anzi serbando un certo tratto di leggerezza) sulla direzione che in questo scorcio di secolo l’assetto dell’istruttoria tributaria è venuto ad assumere in via progressiva ma costante. In breve, una riflessione sulle ragioni che hanno concorso ad imprimere all’ordinamento tributario una certa direzione; se si vuole, un incipit di una riflessione più generale su quello che dovrebbe essere il futuro dell’interazione fra poteri pubblici e prerogative del contribuente. Il tutto in maniera molto rapida (sperando di non incorrere in un vizio di eccessiva semplificazione).
2. A prendere le mosse dalla celerità con cui il legislatore si è apprestato a cercare di porre (asseritamente) rimedio alle carenze stigmatizzate dalla sentenza Italgomme si potrebbe essere indotti a ritenere che il sistema vigente – a livello (per così dire) hard ossia di impalcatura normativa – necessitasse di interventi correttivi indifferibili. In realtà – come è stato evidenziato (in terminis e a mero titolo esemplificativo si rinvia alle riflessioni di Cazzato A., La censura ai controlli fiscali italiani e le diverse azioni in campo: eccedenza dei mezzi rispetto al fine, in il fisco, 2025, 25, 2213 ss. e Marcheselli A., La Corte EDU e il diritto “canzonatorio” dei diritti fondamentali: le garanzie durante gli accessi e il diritto al silenzio, cit., 743 ss.) – ciò che la richiamata pronunzia della CEDU ha posto effettivamente in rilievo non è tanto l’inadeguatezza dell’assetto normativo ex se ma il carattere (per così dire) omeopatico dei diritti difensivi (ove pure previsti ex lege) che la prassi amministrativa e la giurisprudenza hanno plasmato nel corso del tempo.
In altri termini – va detto in modo pacato ma netto – quanto di distonico emerge dalla pronunzia Italgomme, non è tanto l’hard law quanto la soft law riconducibile all’interpretazione erariale ma soprattutto al diritto vivente elaborata dalla giurisprudenza. Un diritto vivente che – in maniera pressoché incondizionata – ha finito nel corso del tempo per smussare, levigare, attenuare le prerogative difensive del privato e per differirne dal punto di vista cronologico il momento di tutela (in caso di necessità) ad un futuro talvolta così lontano da risultare evanescente. E ciò nell’evidente presupposto (invero erroneo) che la difesa del contribuente abbia ad oggetto soltanto gli interessi di carattere più propriamente patrimoniale e non vengano invece in rilievo anche diritti di altra natura – sovente definiti inviolabili dalla stessa Costituzione – come le tradizionali libertà individuali (personale, domiciliare, et cetera) ovvero il diritto alla riservatezza ed altre prerogative di carattere non strettamente patrimoniale (sulla sostanziale recessività della tutela dei diritti non patrimoniali eventualmente lesi in occasione di indagini tributarie si vedano, ex multis, Muleo S., Illegittimità derivata degli atti impositivi, in Rass. trib., 2012, 4, 1007 ss. e, di recente, Stevanato D., Le violazioni istruttorie tra interesse erariale e tutela dei diritti “non patrimoniali” del contribuente, in Corr. trib., 2025, 2, 99 ss.).
Una situazione, per certi versi, abbastanza peculiare se si considera che il nuovo secolo si è aperto con l’emanazione dello Statuto dei diritti del contribuente che, positivizzando tutta una serie di prerogative individuali del contribuente, avrebbe dovuto inaugurare (almeno negli auspici) una nuova era delle relazioni fra le parti del rapporto d’imposta, senz’altro maggiormente equilibrata (vale a dire proprio quella caratteristica – l’equilibrio – di cui la trama argomentativa della Italgomme lascia trasparire una palese carenza nell’attuale dinamica dell’istruttoria fiscale). Ed invece – come si dirà – la giurisprudenza (tranne rari casi di draconiano rigore come nell’ipotesi di violazione del termine fissato dall’ormai abrogato comma 7 dell’art. 12 L. n. 212/2000) ha finito per tracciare direttrici interpretative in cui tali prerogative private si sono trovate spesso ad essere diluite sino a risultare totalmente affievolite se non evanescenti.
Ecco allora che alla luce di tutto ciò l’odierno attivismo di natura normativa indotto dalla sentenza Italgomme (a fronte del guardingo atteggiamento adottato invece –almeno sinora – tanto dalla prassi quanto dalla giurisprudenza) deve interrogare.
E deve interrogare lungo almeno due direttrici. La prima è chiedersi in che misura il complesso delle modifiche legislative in materia (in itinere ovvero potenziali) sia effettivamente in grado di rispondere allo scopo rendendo (se è consentito dire) realmente migliore l’ordinamento tributario vale a dire più equilibrato il rapporto fra le parti dell’obbligazione tributaria nel corso della fase istruttoria. La seconda direttrice è invece più profonda e muove dall’esigenza di comprendere quando e perché il menzionato assetto è divenuto così asimmetrico come inevitabilmente constatato (e censurato) dalla CEDU.
3. Sebbene siano in parte ancora in fase di elaborazione (e altre siano state soltanto tratteggiate nel dibattito dottrinale) le evocate modifiche normative scontano un tipico difetto italiano. Vale a dire l’idea sotterranea e non confessata (sebbene stigmatizzata dagli studiosi, come dimostrato, solo exempli causa, dalle considerazioni di Cassese S., Amministrare la Nazione, Milano, 2024) – secondo cui la soluzione migliore è spesso (se non sempre) amministrare o interpretare per legge, ossia emanare provvedimenti di natura sostanzialmente amministrativa in un involucro legislativo ovvero correggere prassi interpretative erronee (o anche, più semplicemente, giudicate incongrue) attraverso modifiche normative ad hoc.
Un’idea da cui il legislatore (di qualsiasi estrazione politica) fa fatica ad affrancarsi e che si fonda su sensazioni, spesso metagiuridiche. Senz’altro a ciò concorre il mito (illuministico) dell’onnipotenza della legge e del giudice semplice bouche de la loi; il richiamo potente al paradigma della legge che obbliga tutti i consociati e non ammette deviazioni di sorta. Non solo. L’intervento in via legislativa ha anche un suo innegabile coté mediatico e sociologico. Il legislatore del caso (chiunque si celi dietro questa formula) può affermare di essere intervenuto per risolvere un problema e può difendersi dalle possibili accuse di indifferenza provenienti dall’opinione pubblica che rappresentano una delle tipiche manifestazioni di quel fenomeno, tutto moderno, che è la giustiziamediatica ossia il rapporto fra la collettività ed il mondo della giustizia in tempi, come gli attuali, contraddistinti da una rilevanza sistematica dei profili della comunicazione (su tale fenomeno, ancorché con riguardo al diritto penale, si rinvia all’efficacissimo volume di Manes V., Giustizia mediatica, Bologna, 2022).
La reazione legislativa alla sentenza Italgomme pertanto – se non inutile – rischia di rappresentare un nuovo episodio di una ben nota modalità di legiferare in Italia, a cui il diritto tributario non si sottrae ed anzi per il proprio elevato contenuto tecnico è più soggetto di altri comparti dell’ordinamento. Si finisce per inspessire l’ordito normativo per ragioni segnaletiche in favore della collettività o del gruppo di riferimento e lo si fa essenzialmente allo scopo di risolvere un problema che è (spesso) di mera natura applicativa ed interpretativa (le modifiche in tema di abuso del diritto o di ambito operativo dell’art. 20 TUR sono forse fra i principali esempi di questa correzione legislativa di prassi interpretative concrete, evidentemente ritenute fuori misura dall’Autorità politica e perciò meritevoli di un intervento di natura normativa).
Così facendo, tuttavia, l’assetto della fiscalità nel suo complesso non necessariamente migliora ma spesso diviene più confuso e sovrabbondante ed non è raro che la giurisprudenza (ma anche la prassi sebbene in maniera più larvata) tentino forme di resistenza rispetto ad interventi avvertiti come un vero e proprio colpo di mano ermeneutico (e, anche in questo caso, le vicende giudiziali in termini di censura di costituzionalità innescate dalle modifiche apportate all’art. 20 TUR sono una prova per certi versi plastica di tale fenomeno). D’altronde, va detto che ciò a cui in questo secolo si è assistito – in antitesi al mito dell’onnipotenza della legge – è invece proprio la progressiva marginalizzazione del ruolo del legislatore rispetto a quello della giurisprudenza (in tal senso militano le considerazioni di Contrino A. nella Recensione a Marcheselli A., Accertamenti tributari. Poteri del Fisco. Strategie del difensore, Milano, 2022, in Tax News, 5 aprile 2022). Il legislatore, dunque, è tutt’altro che onnipotente ed è spesso costretto ad inseguire la giurisprudenza o comunque a subire uno strisciante effetto di neutralizzazione giurisprudenziale di taluni dei propri interventi.
Tutto ciò per significare cosa con riferimento all’immediata reazione legislativa a fronte della pronunzia Italgomme? Per dire che tale attivismo del legislatore risulta, per taluni versi, non strettamente necessario e, per altri, forse bisognoso di una maggiore ponderazione.
Non strettamente necessario perché in realtà – come evidenziato – la maggior parte dei deficit strutturali stigmatizzati dalla CEDU non attiene a quella che si è definita l’hard law vale a dire la disciplina legale in quanto tale. La stessa recente modifica all’art. 12, comma 1, L. n. 212/2000 introdotta dal D.L. n. 87/2025 – a bene considerare – non sarebbe stata necessaria se l’indicazione statutaria circa l’obbligo di indicare le reali motivazioni di un controllo, in passato, non si fosse tramutata sin da subito nella prassi operativa erariale in un semplice esercizio di stile, tautologica al punto tale da risultare sprovvista di qualsiasi reale utilità informativa per il destinatario della stessa. E la chiara sensazione di disequilibrio dell’assetto dell’istruttoria desumibile dalla trama argomentativa della Italgomme potrebbe forse risultare largamente superata se il principio di proporzionalità introdotto all’art. 10-ter L. n. 212/2000 nel contesto della recente riforma fiscale trovasse immediata ed effettiva attuazione.
Ma l’attivismo legislativo indotto dalla Italgomme risulta, sotto taluni profili, anche frutto di scarsa ponderazione. Se si analizza il contenuto del richiamato DDL n. 1376/2025, infatti, emerge in modo palese come lo stesso tenda a trascurare taluni profili per concentrarsi su altri finendo per rappresentare un intervento emergenziale dalle connotazioni quasi carsiche o comunque disomogenee. La sensazione che se ne trae, quindi, è che il problema posto dalla Italgomme difficilmente possa trovare una propria soluzione di natura (soltanto o comunque prioritariamente) legislativa. Non solo perché i termini normativi sinora ipotizzati appaiono, come detto, lacunosi ma anche perché la pronunzia della CEDU pone al centro della riflessione un problema sì strutturale ma di ordine principalmente operativo e giurisprudenziale: vale a dire quale debba essere l’anima dell’istruttoria e quale debba essere il punto di equilibrio fra poteri e diritti in tale ambito.
E ciò – a bene considerare – in presenza di un assetto normativo vigente che già dice molto (o potrebbe dire molto) al riguardo. I poteri ispettivi e le corrispondenti garanzie, infatti, sono già disciplinati in maniera sufficientemente puntuale dalla legge e quest’ultima, almeno in prima istanza, parrebbe in grado di contemperare in maniera equa (a maggiore ragione dopo la recente richiamata esplicita affermazione del principio di proporzionalità nell’art. 10-ter L. n. 212/2000) l’efficacia dell’azione istruttoria, da un lato, ed il rispetto delle prerogative del contribuente, dall’altro lato.
Ed invece nell’esperienza giurisprudenziale di questo quarto di secolo (in modo abbastanza controintuitivo e sorprendente proprio il secolo che si è aperto con l’emanazione dello Statuto dei diritti del contribuente) il rapporto fra poteri pubblici e diritti privati nel corso dell’istruttoria ha visto la progressiva affermazione della netta supremazia (interpretativa) dei primi sui secondi. Una supremazia interpretativa che, tuttavia, ha finito per presentare evidenti tratti patologici ed è proprio tale patologia che costituisce, in ultima istanza, il senso della riflessione della CEDU trasposta nella sentenza Italgomme.
4. In realtà, se si vuole individuare il significato ultimo della censura che traspare all’iter argomentativo della pronunzia della CEDU, lo si può ravvisare in una tendenziale carenza di proporzionalità (per un’analisi complessiva di tale principio in ambito tributario, Mercuri G., Il principio di proporzionalità nel diritto tributario, Milano, 2024). Si tratta, invero, di un fenomeno ben noto agli studiosi e rispetto al quale la recente riforma fiscale ha cercato di intervenire in maniera correttiva (sulla proporzionalità come elemento cruciale degli interventi effettuati in parte qua in sede di attuazione dei principi di cui alla L. n. 111/2023 si rinvia alle riflessioni contenute nell’opera collettanea Giovannini A., a cura di, La riforma fiscale. I diritti e i procedimenti. Volume II, Pisa, 2024).
La prova di questo potenziale nuovo corso è rappresentata dall’introduzione esplicita del richiamo alla proporzionalità nel corpo del nuovo art. 10-ter L. n. 212/2000 o anche dall’affermazione esplicita dell’inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito contra legem di cui allo (ugualmente nuovo) art. 7-quinquies della medesima legge, un principio, quello dell’inutilizzabilità, che nella giurisprudenza formatasi prima della recente riforma ha avuto un’applicazione disomogenea e faticosa a causa della carenza di un esplicito riferimento normativo (sull’introduzione dell’art. 7-quinquies e sulla pregressa esperienza giurisprudenziale, cfr. Muleo S., Note sull’inutilizzabilità degli elementi di prova acquisiti in violazione di legge nella riforma dello Statuto del contribuente, in Riv. dir. trib., 2024, 6, 715 e Mastellone P., La nuova figura dell’inutilizzabilità degli elementi probatori nel contesto della riformata disciplina sulle invalidità tributarie, in Riv. dir. trib., 2024, 5, 651; più in generale, Ingrao G., Le invalidità degli atti dell’Amministrazione finanziaria alla luce delle nuove previsioni introdotte dalla riforma tributaria del 2023, in Giur. imposte, 2024, 2, 138 ss.).
Proprio la necessità di questi (apprezzabili) interventi correttivi, tuttavia, rende evidente il carattere fortemente asimmetrico dell’assetto di partenza (che è poi quello preso in considerazione dalla CEDU nella sentenza Italgomme). Un assetto rispetto al quale, occorrerà ora senza meno comprendere come si orienterà in concreto il diritto vivente in sede di ricezione delle previsioni introdotte dalla riforma (un terreno – quest’ultimo – oggettivamente scivoloso come dimostrato, ad esempio, dall’esperienza circa l’efficacia in bonam partem del giudicato penale favorevole al contribuente introdotto all’art. 21-bis D.Lgs. n. 74/2000; un istituto apparentemente chiaro in termini di ratio legislativa a fronte del quale, tuttavia, si è rapidamente sviluppata una palese reazioneinterdittiva da parte della giurisprudenza di legittimità).
In breve, in che misura i germi di proporzionalità che sono stati introdotti in occasione dell’attuazione dei principi direttivi della riforma fiscale del 2023 si svilupperanno nell’ordinamento tributario rappresenta in qualche modo la sfida del futuro (anche il più prossimo). Il presente (e l’immediato passato che è poi ciò che è destinato a rappresentare l’oggetto dell’elaborazione giurisprudenziale dei prossimi mesi), al contrario, è quello fotografato dalla CEDU ed è molto sbilanciato pro Fisco.
Ed è quindi doveroso chiedersi quando e come tale squilibrio si sia venuto a determinare tenuto conto del fatto che lo stesso – come evidenziato – è ascrivibile più ad eccessi interpretativi (principalmente) giurisprudenziali che a ragioni di natura normativa (sebbene non si debba dimenticare che alcuni poteri della polizia tributaria sono tuttora disciplinati dalla L. n. 4/1929 che è stata elaborata in un periodo storico connotato da una forte impostazione autoritativa anche a livello legislativo).
Ora, è difficile negare come il progressivo scivolamento in favore del Fisco del punto di equilibrio fra poteri (pubblici) e diritti (privati) nel corso dell’istruttoria tributaria rappresenti un movimento costante del diritto vivente elaborato dalla giurisprudenza tributaria di quest’ultimo quarto di secolo. Ne danno conto la sostanziale neutralizzazione degli effetti delle violazioni procedurali (sia quelle dirette che quelle – per così dire – mediate come, ad esempio, le vicende della cosiddetta Lista Falciani o situazioni similari) ad eccezione di pochi casi eclatanti connessi alla tutela di diritti costituzionalmente garantiti, nonché la reiterata affermazione giudiziale del principio male captum bene retentum (a cui – come evidenziato – dovrebbe ora porre rimedio strutturale l’art. 7-quinquies L. n. 212/2000), ma anche la sacralizzazione di una tutela giudiziale differita ed endotributaria (ossia dinanzi al solo giudice tributario) a fronte di eventuali lesioni delle prerogative difensive del contribuente (laddove – a legislazione vigente – una soluzione differente sarebbe stata forse possibile: cfr. Di Siena M., Illegittimità istruttorie, tutela del contribuente e giurisdizione amministrativa: un primo tentativo di inquadramento sistematico alla luce dell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, in Rass. trib., 2005, 4, 1293 ss.).
Ed ugualmente depongono nel senso di una progressiva contrazione delle prerogative difensive del privato la sostanziale abrogazione implicita dell’art. 7, comma 4, L. n. 212/2000 con la contestuale elisione di ogni potenziale controllo da parte del giudice amministrativo dei vizi dell’istruttoria (un’ipotesi a cui forse potrebbe attribuire nuovo spazio l’introduzione dell’art. 10-ter L. n. 212/2000 e il necessario esercizio di discrezionalità amministrativa nell’individuazione dell’intensità del potere ispettivo da dispiegare alla luce delle caratteristiche del caso concreto; una tematica per cui si rinvia a Vanz G., I principi della proporzionalità e della ragionevolezza nelle attività conoscitive e di controllo dell’Amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 2017, 5, I, 1912 ss.). Ma si inscrive nel medesimo trend anche la rimozione giurisprudenziale di un effettivo controllo della Autorità giudiziaria sui gravi indizi di violazione legittimanti l’accesso nel domicilio privato del contribuente così come l’ampliamento oltre misura della categoria delle semplici irregolarità procedurali inidonee, ex se, a determinare una qualche forma di invalidità anche parziale del provvedimento conclusivo del procedimento di accertamento.
Si potrebbe proseguire. Ciò che è certo è che questo variegato (ma di fatto pressoché unidirezionale) moto di progressiva erosione delle prerogative difensive del contribuente è stato determinato principalmente dalla giurisprudenza di questi ultimi venticinque anni. E ciò a legislazione (sostanzialmente) immodificata in tema di poteri ispettivi (non di certo poco invasivi come dimostra agevolmente una qualsiasi comparazione a livello internazionale). Anzi – se è possibile dire – a fronte di un assetto normativo che, proprio in ragione dell’emanazione (dopo lunga attesa) dello Statuto dei diritti del contribuente in apertura di secolo, avrebbe dovuto ove mai determinare un rafforzamento della posizione del contribuente (anche) nel corso della fase istruttoria e non un suo arretramento.
Si badi bene. Che il Fisco sia un creditore speciale e debba quindi essergli consentito di riequilibrare la propria carenza informativa di base con una particolare pervasività dei poteri istruttori è una soluzione coerente e costituzionalmente legittima e che non può essere posta in discussione se non in malafede. Ciò che appare del tutto incongruo, invece, è che in questo secolo la giurisprudenza (principalmente di legittimità) abbia dato vita ad un assetto interpretativo in cui un eventuale erroneo impiego dei poteri ispettivi non risulta effettivamente sanzionato in termini giuridici od in cui l’eventuale tutela per il contribuente finisce per risultare solo eventuale e cronologicamente dilatata. Ciò significa, quindi, che – come detto – non è tanto (o non solo) l’assetto normativo dell’istruttoria ex se ma soprattutto l’interpretazione giurisprudenziale che ne è stata data ad avere alterato il piano delle relazioni fra le parti dell’obbligazione tributaria; e ciò è avvenuto in modo progressivo soprattutto in questo secolo allorquando sarebbe invece stato ragionevole attendersi un moto in direzione contraria.
Ma v’è dell’altro. Perché se la giurisprudenza è, senza meno, l’autore principale del lento scivolamento pro Fisco del punto di equilibrio fra poteri e diritti nel corso dell’istruttoria tributaria, anche la prassi interpretativa erariale si è dimostrata molto selettiva ed attenta a non concedere troppo alla platea dei contribuenti. Infatti, la costantemente timida applicazione in via amministrativa delle innovazioni – pure introdotte nel tempo a livello legislativo – ha segnato un ulteriore elemento di accelerazione del rilevato squilibrio. Non è un caso che l’obbligo di rendere note le ragioni giustificative della verifica – pure previsto sin dalla formulazione originaria dell’art. 12 L. n. 212/2000 – sia stato presto ridotto in via pratica a mera clausola lessicale decorativa (tanto da dovere essere rivitalizzato dal recente richiamato intervento normativo) o ancora che la permanenza dei verificatori in loco (art. 12, comma 5, L. n. 212/2000) abbia sin da subito assunto una connotazione da calendario che forse non era l’effettiva intenzione del legislatore dello Statuto dei diritti del contribuente (perché una permanenza, se del caso poliennale perché diluita nel tempo, non è di certo meno ostativa di altre situazioni). D’altronde, a tali levigature delle prerogative del contribuente introdotte (anche) in via amministrativa si sono poi accompagnate (vere e proprie) amnesie secondarie come l’omessa adozione del codice di comportamento dei verificatori (pure disciplinato dall’art. 15 L. n. 212/2000) od il carattere abbastanza esangue dell’attività del Garante del contribuente di cui all’art. 13 L. n. 212/2000. In breve, a fronte del tentativo legislativo del rafforzamento dei diritti del contribuente (di cui la L. n. 212/2000 ha rappresentato senz’altro lo sforzo principale) si è spesso riscontrata anche una frizione amministrativa di segno contrario evidentemente generata dal timore di un affievolimento della capacità preventiva e repressiva del sistema ispettivo nel suo complesso.
Ciò che è certo è che il combinato disposto di elaborazione giurisprudenziale, da un lato, e prassi interpretativa erariale di natura conservativa, dall’altro lato, è all’origine di quello scivolamento di cui si è detto con la progressiva affermazione del primato dei poteri ispettivi sulle garanzie individuali. Il che rappresenta esattamente il punto di sostanza colto dalla sentenza Italgomme e con cui occorre confrontarsi.
5. Nel concludere queste riflessioni (in libertà) e in attesa di comprendere se i movimenti indotti dalle considerazioni della CEDU saranno effettivamente in grado di scuotere la foresta pietrificata – vale a dire tali da riequilibrare in concreto il rapporto fra poteri pubblici e diritti privati – resta un quesito a cui occorre cercare di rispondere.
Quale la ragione profonda dell’asimmetria che in questo quarto di secolo (pure apertosi in una prospettiva legislativa con l’emanazione dello Statuto dei diritti del contribuente e quindi con le migliori intenzioni) ha finito per caratterizzare la vigente disciplina dell’istruttoria tributaria che, non a caso, è incorsa poi nelle censure dalla CEDU?
La risposta non è semplice e non è necessariamente univoca come spesso avviene quando si cerca di ridurre a sistema la law in action.
V’è un punto tuttavia che traspare in controluce dall’analisi della realtà concreta; ed è (ragionevolmente) la comunicazione talvolta bellicista con cui – ormai da tempo – viene presentato (rectius interpretato) il rapporto pubblico rispetto alla devianza tributaria, che – s’intende – è un problema assai grave e di cui il sistema si deve fare carico in maniera efficace. Guerra e lotta sono due termini impiegati spessissimo nella narrazione pubblica (va detto, oggettivamente, soprattutto da parte dei non tecnici); e si tratta di due termini che finiscono per dare corpo ad una sensazione collettiva che (con una metafora da letteratura pop) può definirsi da notti e nebbie. Si ha cioè la sensazione, sulla base del dibattito pubblico, di trovarsi in una sorta di scontro di civiltà, spesso analizzato con approccio più eticizzante che giuridico (su questo aspetto appaiono sempre valide le considerazioni di Lupi R., Evasione fiscale. Paradiso ed inferno, Milano, 2008).
Ed è ragionevolmente proprio questo approccio che, in questo quarto di secolo, ha finito forse per condizionare gli interpreti della materia fiscale (principalmente, come evidenziato, la giurisprudenza) conducendoli a privilegiare in maniera strutturale (sebbene forse inconsapevole) la posizione della parte pubblica del rapporto d’imposta anche in una fase delicatissima come quella ispettiva; una parte pubblica giudicata (a torto o a ragione) più debole rispetto a quella privata, soprattutto se considerata fisiologicamente incline alla devianza, e quindi meritevole (nei limiti del consentito) di essere supportata. Se si è in guerra, infatti, maiora premunt e tutta la collettività deve fare in modo che prevalga il bene ed una compressione delle prerogative individuali può bene giustificarsi in una prospettiva emergenziale. Di qui, pertanto, il progressivo scivolamento interpretativo di cui si è detto e l’affermazione implicita del primato dei poteri pubblici sui diritti privati.
Questo atteggiamento bellicista, tuttavia, non aiuta la riflessione perché l’evasione è una cosa seria e va affrontata di conseguenza evitando atteggiamenti interpretativi (di fatto) emozionali e che non possono certamente giustificarsi perché si sarebbe in guerra contro l’evasione.
Fare prevalere (peraltro in modo implicito ed in via essenzialmente interpretativa) i poteri sui diritti in corso di ispezione e rendere quindi il sistema sbilanciato (come traspare in modo chiaro dall’iter argomentativo della sentenza Italgomme) non contribuisce ad una gestione razionale dell’ordinamento. Perché se il contrasto alla devianza fiscale deve rappresentare senz’altro un obiettivo prioritario da perseguire a livello di tax policy e giustifica quindi sicuramente i poteri forti che l’ordinamento italiano attribuisce al Fisco, non per questo le corrispondenti prerogative individuali del contribuente devono essere deboli od evanescenti.
Al contrario la simmetria e l’equilibrio – a maggiore ragione nella fase istruttoria in cui le posizioni delle due parti del rapporto d’imposta tendono a confrontarsi talvolta in maniera ruvida – sono l’epifenomeno di un sistema maturo in grado di garantire il giusto confronto fra pubblico e privato. Altrimenti i principi di collaborazione e buona fede (pure previsti in modo solenne dall’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente) restano una petizione di principio sprovvista di concretezza, un argomento utile per le dissertazioni accademiche e poco altro.
(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
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