Criptomoneta e valute digitali di Stato: considerazioni al confine tra diritto tributario e scienza delle finanze

Di Stefano Maria Ronco -

Abstract (*)

Lo scritto analizza, in un’ottica tributaria e di scienza delle finanze, gli sviluppi monetari recenti, con particolare attenzione alle implicazioni derivanti dall’adozione su larga scala di valute digitali di Stato e criptovalute. Tale analisi tiene conto delle esperienze in corso negli Stati Uniti e in Europa, valutando le possibili ripercussioni sulla dinamica tributaria e sulle prospettive di finanza pubblica.

Cryptocurrencies and Central Bank Digital Currencies: Considerations at the Intersection of Tax Law and Public Finance. – This publication examines, from a tax and public finance perspective, recent monetary developments, with particular focus on the implications arising from the large-scale adoption of state-backed digital currencies and cryptocurrencies. This analysis takes into account ongoing experiences in the United States and Europe, assessing the potential impacts on tax dynamics and public finance prospects.

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Intermezzo: verso l’abbandono del “contante” nel quadro della cashless society. – 3. Valute digitali di Stato e ricadute nell’ottica tributaria: un passo più in là della cashless society. – 3.1. Valute digitali di Stato: i risvolti sull’assetto generale del nostro sistema impositivo. – 3.2. Valute digitali di Stato: la fusione tra politica monetaria e politica tributaria. – 4. Valute digitali di Stato e stablecoins: l’alternativa statunitense. – 5. Considerazioni conclusive: valute digitali di Stato, “società del controllo” e prospettive future.

1. Quando nel 1965 Salvator Dalì realizzava l’opera L’apoteosi del dollaro il dollaro rappresentava la valuta dominante negli scambi economici globali e, in forza degli “Accordi di Bretton Woods”, si poneva quale valuta di riserva “universale”, idonea a garantire una piena convertibilità con l’oro ad un valore prefissato (per una prima introduzione, ex multis, Amato M. – Fantacci L., Back to which Bretton Woods? Liquidity and clearing as alternative principles for reforming international money, in Cambridge Journal of Economics, 2014, 1431 ss.; Cesarano F., Monetary Theory and Bretton Woods: The Construction of an International Monetary Order, Cambridge, 2006).

La dichiarazione del Presidente Nixon di sospendere la convertibilità del dollaro in oro nel 1971 ha, come noto, portato a termine tale epoca, aprendo ad un periodo, nel quale viviamo tuttora, in cui la moneta non ha valore intrinseco, ma costituisce essenzialmente una passività di banca centrale, accettata come mezzo di pagamento in quanto dichiarata a corso legale dallo Stato ed il cui valore, in ultima istanza, si basa sulla fiducia che le persone hanno nelle prospettive di sviluppo dell’economia del Paese emittente in un contesto di stabilità dei prezzi.

Nell’ottica della scienza delle finanze, il venir meno del vincolo del gold exchange standard ha avuto conseguenze di grande portata, aprendo la strada, tra le altre cose, alla possibilità degli Stati di adottare politiche monetarie espansive e di accrescere lo stock del debito pubblico (ex multis, cfr. Oddenino A., Il QE della Banca Centrale Europea fra politica monetaria, politica economica e dinamiche dei mercati finanziari internazionali, in Biblioteca della libertà, gennaio-aprile 2015, 212, 9).

Ed è altresì noto come in tale mutato assetto si è progressivamente rafforzato il ruolo di autonomia delle banche centrale quali istituzioni che, in forza del loro status di indipendenza dai governi, operano al fine di indirizzare le scelte di politica monetaria con l’obiettivo principe di assicurare la stabilità dei prezzi e, di conseguenza, contrastare gli effetti di quella che è nota essere la più iniqua e regressiva delle imposte, cioè l’inflazione, esacerbata nell’epoca post Bretton Woods dall’espansione della massa monetaria e dagli effetti delle fluttuazioni delle valute in un contesto di cambi flessibili (gli studi in ordine al fenomeno dell’inflazione ed alla relazione tra dinamica del prelievo tributario e moneta sono molteplici; senza pretesa di completezza si confrontino Tanzi V. tra cui, per tutti, Inflazione e imposta personale sul reddito: una prospettiva internazionale, Bologna, 1986; Antonini L., Vicende del diritto tributario tra inflazione e ‘crepuscolo’ della legge, in Jus, 1993, 131 ss.; Marongiu G., Inflazione e imposta sulle aree fabbricabili, in Dir. prat. trib., 1991, 936 ss.; Granelli A.E., Ancora sull’imponibilità dei plusvalori inflazionistici, in Boll. trib. inf., 1977, 871 ss.; Falsitta G., Contributo alla discussione sulla disciplina legale delle rivalutazioni monetarie dei beni e del capitale dell’impresa, in Rass. trib., 1984, 67 ss.; Visco V., Imposizione personale, struttura della progressività ed effetti dell’inflazione, in Bancaria, 1975, 1112 ss.).

In tale complesso quadro d’insieme, l’evoluzione della tecnologia e, in particolare, l’ascesa delle criptovalute desta interesse, in quanto pare apparentemente mettere in questione il modello incentrato sul ruolo delle banche centrali nella gestione della politica monetaria e nella regolazione prudenziale delle istituzioni finanziarie e, più in generale, lo stesso predominio delle valute fiat, in primis il dollaro, quali mezzo di scambio e riserva di valore.

Se così è, ad una prima analisi, tali questioni paiono di scarso interesse per il cultore del diritto tributario: la gestione della moneta ed i suoi riflessi sull’economia sarebbero appannaggio delle banche centrali, i cui obiettivi, come accennato, in teoria non si intersecano con le scelte di politica economica che invece rimangono saldamente nel controllo del potere esecutivo e di quello legislativo.

Tale prospettazione pare, tuttavia, semplicistica. Come efficacemente osservato dai sostenitori della teoria della public choice, i rapporti tra politica monetaria e diritto tributario sono sempre stati strettamente interconnessi: basti pensare al fatto che, insieme all’indebitamento sui mercati ed all’imposizione fiscale, la c.d. currency inflation costituisce la terza via a disposizione dello Stato per finanziare la spesa pubblica (cfr. Buchanan J.M., The Collected Works of James M. Buchanan, in Public Principles of Public Debt: A Defense and Restatement, vol. II, Indianapolis, Liberty Fund, 1999; Tanzi V., Questione di tasse. La lezione dell’Argentina, Milano, 2007).

Alla luce di ciò, merita quindi interrogarsi sul crescente rilievo delle criptovalute nel dibattito odierno, quale “cartina di tornasole” di un tema da tempo sopito, ovvero la relazione tra moneta fiat e potere sovrano con specifico riguardo alla dinamica impositiva. Se infatti è indubbio la moneta fiduciaria rappresenta, in ultima istanza, una forma di debito pubblico – ed un titolo di debito particolarmente pregiato in quanto l’unico capace di assolvere al debito tributario del contribuente nei confronti dello Stato (cfr. Guazzarotti A., Debito e democrazia. Per una critica del vincolo esterno, Milano, 2024, 10) – l’adozione progressiva delle criptovalute nei traffici economici rischia di immutare tale relazione, aprendo la strada all’abbandono della “fede” nel potere satisfattivo della valuta fiat qualora l’espansione della base monetaria e le sue ricadute in termini inflattivi rendano sempre meno solida la convinzione circa la capacità dell’autorità emittente di mantenere gli obiettivi di stabilità dei prezzi e, di conseguenza, contribuire alle prospettive di crescita economica stabile di tale Paese.

In tale frangente, come si osserverà a breve, sono in atti mutamenti epocali, che vedono gli Stati Uniti prendere convintamente una direzione che mira a liberalizzare in maniera significativa lo sviluppo del c.d. “ecosistema crypto” (si veda l’Executive Order 23 gennaio 2025 del Presidente Trump “Strengthening American leadership in digital financial technology”) e che, soprattutto, apre le porte ad un utilizzo delle criptovalute aventi natura di stablecoin allo scopo di mantenere l’attuale posizione del dollaro quale valuta di riserva a livello mondiale (si veda il comunicato della Casa Bianca, 18 luglio 2025, intitolato “Fact Sheet: President Donald J. Trump Signs GENIUS Act into Law”).

Di converso, a livello europeo, permane un approccio improntato ad una certa diffidenza nei confronti del mondo delle criptovalute, che, da un lato, si riflette in una regolamentazione restrittiva, molto attenta ai possibili profili di rischio per la stabilità finanziaria e per la platea dei consumatori (si veda il Regolamento 2023/1114/EU – c.d. ‘Regolamento MiCAR’ – per un primo approfondimento si confrontino la testimonianza del 1° agosto 2024 al Senato della Repubblica di Massimo Doria [Banca d’Italia] in relazione all’Atto del Governo n. 172 Adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento (UE) 2023/1114, relativo ai mercati delle cripto-attività, 8 ss. e l’intervento di Fabio Panetta, “Le banche e l’economia: credito, regolamentazione e crescita”, 9 luglio 2024 all’Assemblea degli Associati dell’Associazione Bancaria Italiana) e, da un altro lato, aspira alla creazione di una valuta digitale di Stato – un vero e proprio euro digitale emesso e garantito dall’Autorità pubblica (si confronti il documento della BCE, Progress on the preparation phase of a digital euro Third progress report, disponibile sul sito della BCE al seguente link https://www.ecb.europa.eu/euro/digital_euro/progress/html/ecb.deprp202507.it.html) – in luogo dell’impiego di criptovalute di tipo stablecoins in una relazione di simbiosi con la valuta fiat, sulla scia delle sperimentazioni che già da tempo sta portando avanti la Cina con riguardo all’introduzione su vasta scala di un Yuan digitale.

Così accennate le evoluzioni cui stiamo assistendo in questi mesi – i cui effetti non tarderanno a manifestarsi nel prossimo futuro – merita allora provare a formulare qualche considerazione “a caldo” con l’obiettivo di interrogarsi sulle possibili ricadute dei processi in atto per quanto concerne la dinamica tributaria e di segnalare le prospettive di sviluppo e, se del caso, i possibili aspetti di criticità che potrebbero palesarsi all’orizzonte.

2. È indubbio che l’ascesa delle criptovalute non rappresenta che l’ultima evoluzione di un processo di digitalizzazione che ha progressivamente investito la dimensione monetaria degli scambi interni ed internazionali.

Come evidenziato da più parti è da tempo in atto un percorso di progressivo abbandono dell’utilizzo del denaro contante quale mezzo di pagamento per le transazioni economiche, anche di minor rilievo. Ciò ha portato a ritenere che l’evoluzione verso una cashless society – cioè un modello di società improntato alla riduzione al minimo, se non alla totale eliminazione, del mezzo di pagamento tradizionale del denaro contante (i.e. banconote e monete) a favore di strumenti di pagamento di tipo “innovativo” che sfruttano la tecnologia digitale (dai pagamenti a mezzo bonifico o carta di credito agli e-payments e m-payments) e si basano sul supporto tecnologico degli intermediari finanziari e degli altri operatori autorizzati ad emettere moneta elettronica – sia un esito ineluttabile, questione ormai di qualche anno o decennio al più (per un primo approfondimento si permetta di rinviare a Contrino A. – Ronco S.M., Cashless Society and Central Bank Digital Currencies: Tax Aspects and Taxpayer Protection, in International Tax Studies, 2023, 6, 1 ss.)

Sia come sia, è indubbio che l’adozione “spontanea” di strumenti di pagamento di tipo digitale sia stata convintamente perseguita da parte di alcuni governi, in primis quello italiano, nella convinzione che il “contante” costituisca un “veicolo” principe che facilita l’evasione fiscale, oltre che le transazioni relative a molte attività illecite. Quindi si argomenta che eliminando il “contante” – cioè usando solo strumenti di pagamento digitali tracciabili – si limiterebbe l’evasione fiscale, in quanto è grazie all’anonimato e alla non tracciabilità del contante che l’evasione fiscale “prospera” (si confronti, per un’analisi in merito, Boria P., L’evasione fiscale. Ricerca su natura giuridica e dimensione quantitativa, Roma, 2022).

Per quanto un tale approccio regolatorio non sia esente da svariate criticità – in primis sotto l’aspetto del rispetto del principio di proporzionalità e della protezione dei dati personali, ma poi anche per ragioni tecniche e non ultimo per considerazioni legate al fatto che la “moneta bancaria” rimane una passività dell’intermediario finanziario che espone il detentore ad un rischio di credito – pare indiscutibile che la digitalizzazione dei pagamenti risponda ad una strategia di policy che origina in obiettivi di contrasto agli illeciti economici, ma che trova altresì sempre più favorevole accoglienza negli utenti.

In tale modello di cashless society le criptovalute si collocano con una certa difficoltà. Alcune di esse hanno natura speculativa e, in considerazione delle loro fluttuazioni, sono maggiormente assimilabili a strumenti finanziari che non a vere e proprie valute private, difettando, quindi, di un grado di stabilità sufficiente a renderle idonee quali strumenti di pagamento (altre ancora sono utility tokens, cioè cripto-attività che hanno la funzione di fornire l’accesso a un bene o a un servizio prestato dal loro emittente e, per l’effetto, rispondono ancora meno alle funzioni tipiche della moneta). Ma anche rispetto a quelle criptovalute – quali le stablecoins – che sono ancorate ad una valuta fiat (c.d. electronic money tokens) oppure mirano a riflettere l’andamento di un bene sottostante (c.d. asset-referenced tokens) traspare una certa ritrosia nel riconoscerne un ruolo positivo per lo sviluppo di un’economia fondata su scambi digitali (per una critica all’universo delle criptovalute si veda, da ultimo, l’intervento del Presidente della CONSOB Paolo Savona all’incontro annuale con il mercato finanziario del 20 giugno 2025, in particolare parr. 3 eseguenti). A tacer d’altro, si argomenta come l’utilità di tali monete private non sia effettivamente necessaria in un sistema di matrice cashless che già può trovare compimento tramite l’infrastruttura tecnologica offerta dagli intermediari finanziari e dagli istituti di moneta elettronica che operano esclusivamente in moneta fiat (tuttavia, come si argomenterà meglio nel prosieguo, le perplessità nei confronti delle stablecoins – in specie se sotto forma di electronic money tokens – celano criticità di altro tipo, essenzialmente riconducibili al depotenziamento degli impulsi di politica monetaria governati dalle banche centrali e, più in generale, all’indebolimento progressivo di alcune valute fiat (in primis l’euro nei confronti del dollaro) quali strumenti di pagamento – e, in ultima istanza, riserva di valore – di rilievo nel contesto de traffici internazionali e, in prospettiva, anche nel quadro dei flussi finanziari intra-europei).

3. In tale quadro, così brevemente tratteggiato, in cui il percorso verso una cashless society è quasi realtà, l’eventuale introduzione di una valuta digitale di Stato (appunto un euro digitale emesso da una istituzione quale la Banca centrale europea) non pare possa essere interpretato quale mero progresso “incrementale” – limitato, cioè, a realizzare con maggiore compiutezza gli obbiettivi sottesi al modello della cashless society – ma rappresenterebbe, per le ragioni di seguito esposte, un vero e proprio “cambio di passo”, capace di ridisegnare i rapporti tra politica monetaria e politica fiscale e delineare uno stretto legame tra moneta ed imposizione fiscale, idoneo a modificare in maniera significativa alcune consolidate acquisizioni della dinamica tributaria (cfr. Scarcella L., The implications of adopting a European Central Bank Digital Currency: A Tax Policy Perspective, in EC Tax Review, 2021, 177 ss).

3.1. Nell’ottica fiscale, si potrebbe a prima impressione ritenere che la realizzazione di una cashless society mediante il mero utilizzo di strumenti di pagamento elettronici gestiti dagli intermediari finanziari oppure tramite l’implementazione delle vere e proprie valute digitali di Stato sia indifferente.

In realtà, non è proprio così: è vero che nell’ottica dell’attività di controllo fiscale poco muta, in quanto, in ciascuna delle due ipotesi, l’Amministrazione finanziaria può utilizzare la massa completa di dati relativi a ciascun contribuente e svolgere così analisi di intelligenza artificiale per valutare se e come sottoporlo ai singoli a controlli, ecc. (peraltro, già oggi il Fisco ha la disponibilità delle informazioni relative alle operazioni regolate tramite strumenti di pagamento diversi dal contante, grazie all’Archivio dei rapporti finanziari: si tratterebbe di un mero ampliamento di questa impalcatura con gli opportuni adattamenti).

Tuttavia, la strada della digitalizzazione delle transazioni tramite la creazione di un apposito euro digitale – cioè una vera e propria valuta digitale di Stato – ha conseguenze ulteriori in ottica tributaria sotto (almeno) tre profili.

A) In primo luogo, una valuta digitale di Stato potrebbe modificare la struttura del procedimento di accertamento e di riscossione dei tributi, rendendo più snelle attivazioni che oggi richiedono tempi lunghi ma che, sia pur indirettamente, “tutelano” la posizione del contribuente. Si rafforzerebbero, così, le prerogative del Fisco in quanto l’evoluzione tecnologica garantirebbe un’accelerazione pro-fisco delle fasi procedimentali (si confrontino, ex multis, Contrino A., Digitalizzazione dell’Amministrazione finanziaria e attuazione del rapporto tributario: questioni aperte e ipotesi di lavoro nella prospettiva dei principi generali, in Riv. dir. trib., 2023, 2, I, 105 ss.; Farri F., Digitalizzazione dell’amministrazione finanziaria e diritti dei contribuenti, in Riv. dir. trib., 2020, 6, I, 115 ss.; Marcheselli A. – Ronco S.M., Dati personali, Regolamento GDPR e indagini dell’Amministrazione finanziaria: un modello moderno di tutela dei diritti fondamentali?, in Riv. dir. trib., 2022, 2, I, 97 ss.).

Ciò, tuttavia, a prezzo di una tutela effettiva del contribuente, affidata alla giurisdizione, che difficilmente potrebbe “tenere il passo”, in termini di rapidità, con la velocità e immediatezza delle attivazioni fiscali, in assenza di adeguate riforme. Ancora più netti sarebbero, inoltre, gli effetti sul duplice piano del procedimento di riscossione e della esecuzione forzata: a fronte di una pretesa ormai definitiva, la riscossione potrebbe essere immediata in presenza di giacenze liquide su wallet digitali del contribuente, senza passare da soggetti terzi, banche ed altri intermediari. La stessa esecuzione forzata presso il debitore potrebbe divenire automatizzata, con prelievo diretto a valere sul wallet digitale del contribuente.

Addirittura, stante il percorso di digitalizzazione di tutte le operazioni economiche, il legislatore potrebbe “vincolare” il wallet del contribuente-debitore fino al definitivo soddisfacimento del credito erariale: ogni pagamento che il contribuente debitore dovesse nel tempo ricevere per qualsivoglia ragione verrebbe automaticamente e istantaneamente “girato” all’Erario, in toto o pro quota, senza che il contribuente debitore nulla possa opporre.

B) In secondo luogo, una valuta digitale di Stato potrebbe incidere sulla libera disponibilità da parte del contribuente della propria ricchezza, se l’operazione non risulta giustificata.

Ad esempio, si potrebbe prevedere che, in assenza di fattura digitale accompagnatoria, le transazioni su wallet digitali non possano essere regolate, dovendo le parti dell’operazione giustificare ciascuna operazione che viene posta in essere in euro digitale.

Tale meccanismo, a prima vista complesso, si potrebbe attuare su base sistematica con appositi meccanismi con QR code da generare per ciascuna operazione economica. Così facendo, per poter regolare ogni singola transazione non collegata ad una fattura o ad altro documento giustificativo avente valenza fiscale, il contribuente sarebbe tenuto a dare giustificazione del pagamento (nel QR code, ad esempio, basterebbe (i) racchiudere un codice numerico che corrisponde agli elementi essenziali della fattura digitale/scontrino; (ii) segnalare le controparti dell’operazione; (iii) indicare il controvalore dell’operazione per cui si chiede l’utilizzo della valuta digitale su wallet).

Volendo estremizzare, i pagamenti privi di richiamo ad una fattura potrebbero essere tenuti in sospeso fino a che l’Amministrazione finanziaria (magari con un software di intelligenza artificiale) non li abbia convalidati, oppure potrebbero venire effettuati con riserva (magari con applicazione di ritenuta in acconto eventualmente scomputabile a conclusione dei controlli) o, ancora, segnalati per successivi controlli. Ma effetti di rilievo potrebbero individuarsi anche con riguardo all’applicazione dell’IVA ed alle agevolazioni fiscali: lo Stato potrebbe direttamente accreditare valuta digitale in relazione a determinate operazioni “agevolate” in luogo di prevedere complessi meccanismi di detrazione/deduzione subordinati a adempimenti dichiarativi.

Addirittura, lo Stato potrebbe essere in grado di calcolare tutto l’ammontare delle imposte e tributi, a qualsiasi titolo versati dal contribuente fino a quel momento della sua vita, così da definire, sulla base del patrimonio complessivo, se l’imposizione fiscale è stata “adeguata” oppure se è necessaria “un’imposizione aggiuntiva”, tramite applicazione di tributo patrimoniale o di altra imposta idonea a ripristinare le condizioni di uguaglianza rispetto ad altre categorie di contribuenti nella medesima situazione.

C) Da ultimo, non vanno poi sottaciuti i rischi che le valute digitali di Stato pongono a livello di controllo sociale da parte degli Stati. La questione chiama in causa i sistemi di c.d. “credito sociale”, che già sono in voga in Cina e potrebbero espandersi anche in Europa. Si consideri, al riguardo, l’ipotesi in cui lo Stato decida di “sanzionare” dal punto di vista “sociale” i contribuenti che non hanno pagato le tasse: per l’effetto, se non si pagassero le tasse, lo Stato potrebbe limitare il godimento di alcuni servizi pubblici quali palestre, biblioteche pubbliche e simili, semplicemente intervenendo sul wallet in euro digitale ed impostandolo da remoto in modo da non rendere possibile la regolazione del pagamento se i beni o servizi in questione sono tra quelli la cui fruizione è stata “interdetta”.

3.2. Ma gli scenari in cui si potrebbe concretizzare un mutamento dei rapporti tra politica monetaria e politica tributaria con l’introduzione di una valuta digitale di Stato aprono, a ben vedere, a prospettive ancora ulteriori.

Basti pensare che secondo alcune posizioni dogmatiche non appartenenti al mainstream della teoria economica, ma in grande risalto nel dibattito pubblico (si fa riferimento alla linea di pensiero della c.d. “modern monetary theory”; si confronti a tale riguardo Kelton S., The Deficit Myth: Modern Monetary Theory and How to Build a Better Economy, John Murray Press, 2020), la leva tributaria avrebbe proprio una funzione “interna” al meccanismo di trasmissione degli indirizzi di politica economica ed agirebbe quale strumento principe, in luogo dei tassi d’interesse, per ridurre – o espandere – la quantità di moneta in circolazione al fine di governare la dinamica inflazionistica (sulla relazione tra politica monetaria e politica tributaria si confrontino Goodhart C. – Pradhan M., The great demographic reversal. Ageing societies, waning inequalities, and an inflation revival, Palgrave Macmillan, 2020, in particolare 189-190; si vedano anche D’Angelo G. – Brighi P. – Nanni B., National Windfall Taxes on EU Banks: Legal Aspects and Interplay with Monetary Policy, in World Tax Journal, 2025, 3, in particolare par. 4).

In questo senso, l’introduzione di una valuta digitale di Stato – quale l’euro digitale – porrebbe, infatti, le condizioni per la definitiva eliminazione del denaro contante e rafforzerebbe così la relazione, già assai stretta, tra politica monetaria e dinamica tributaria, rendendo immediata e diretta, grazie all’ausilio della variabile tecnologica, la trasmissione degli obiettivi di politica monetaria tramite il ricorso alla leva tributaria.

Si pensi, per fare un esempio fra i tanti, all’impiego dei tassi d’interesse negativi per stimolare l’economia: ebbene, non vi è chi non veda come sostituendo al tasso d’interesse negativo un diretto prelievo a valere sui conti correnti dei risparmiatori si avrebbe l’effetto di intensificare eventuali obiettivi di stimolo alla domanda aggregata, utilizzando lo strumento, ben noto, dell’imposizione patrimoniale.

In tale quadro, peraltro, l’introduzione di una valuta digitale di Stato rafforzerebbe “all’ennesima potenza” le ricadute di policy: il ricorso alla valuta digitale di Stato permetterebbe infatti di “superare” la problematica data dal raggiungimento del c.d. limite inferiore effettivo che, come noto, costituisce il livello di tasso “negativo” al di sotto del quale l’azione espansiva della politica monetaria si ritiene diventi inefficace e, addirittura, controproducente.

Come da più parti si osserva, l’inefficacia di una politica di tassi marcatamente negativi al di là del c.d. limite inferiore effettivo è conseguenza diretta del fatto che una volta che il tasso d’interesse si inoltra troppo in territorio negativo – agendo sempre di più come un’imposta “non irrisoria” sul controvalore della giacenza – i correntisti valutano più conveniente prelevare la valuta per tesaurizzarla in contanti e, così, sottrarla agli effetti dell’“imposizione”. È chiaro quindi che, eliminata – o fortemente ridotta – la possibilità di ricorrere al prelievo in contanti grazie alla digitalizzazione della valuta di Stato, verrebbe finalmente meno l’ultimo ostacolo reale ad un rafforzamento dei meccanismi di trasmissione degli stimoli di politica monetaria a mezzo di un meccanismo di imposizione tributaria.

Volendo stimolare l’economia, in altre parole, lo strumento tributario si paleserebbe più efficiente dei tradizionali strumenti di politica monetaria: non occorrerebbe più intervenire sui tassi o porre in essere politiche di quantitative easing, ma si potrebbe direttamente applicare, ad esempio, una imposta sulle giacenze liquide inoperose al di sopra di determinati livelli complessivi. Allo stesso modo, in presenza di una dinamica inflazionistica indesiderata, si potrebbe disincentivare la crescita dei prezzi, applicando direttamente ed immediatamente un tributo a valere sul controvalore di valuta digitale messo in circolazione o, più radicalmente, sottraendo liquidità dalla giacenza di conto corrente, esattamente come in una forma di imposizione di tipo patrimoniale (si permetta di rinviare al riguardo a Ronco S.M., Imposizione tributaria, debito pubblico e politica monetaria: equità inter-generazionale e tutela del risparmio tra politica economica e governance economica europea, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2022, 1, I, 44 ss.).

Alla luce di ciò, come si intuisce, la relazione tra moneta e diritto tributario cela grandi incognite e, nel momento in cui si concretizzassero i progetti delle valute digitali di Stato (cfr. la pagina dedicata del sito web della BCE per una panoramica aggiornata: https://www.ecb.europa.eu/paym/digital_euro/html/index.en.html) si porrebbero le basi per rivalutare la perdurante utilità dei principali strumenti di politica monetaria così come degli stessi presupposti teorici che hanno portato a sancire l’autonomia ed indipendenza delle Autorità monetarie rispetto al legislatore nazionale in questi ultimi decenni (si veda, a tale riguardo, Pistor K., Rethinking the Politics of Money, in Project-Sydincate.org, 23 luglio 2025).

In questo senso, infatti, la “separatezza” dei ruoli tra Autorità monetaria e decisore politico perderebbe progressivamente rilievo, posto che gli strumenti classici di politica monetaria tesi alla stabilità dei prezzi si fondano su una relazione tra banca centrale ed istituzioni finanziarie che, in un’architettura basata su una valuta digitale di Stato, non sarebbe più in grado di esercitare un impulso significativo. Ciò, di converso, metterebbe in evidenza la natura essenzialmente tributaria degli interventi di policy che influiscono sulla circolazione della valuta digitale di Stato con la conseguenza che le relative competenze non potrebbero che essere, a ben vedere, riacquisite in capo al potere politico (i.e. ai Ministeri dell’Economia e delle Finanze). Un tale esito, in ultima istanza, aprirebbe le porte al definitivo superamento dell’istituzione della banca centrale quale ente tecnico a carattere indipendente, facendo riemergere la posizione di primazia del Ministero dell’Economia al cui servizio tornerebbe ad operare l’autorità di banca centrale in vista degli obiettivi di emissione o roll-over di titoli di debito pubblico sui mercati finanziari (esito che, nella cornice attuale del diritto dell’UE, potrebbe darsi solo ove venisse superato il divieto di monetizzazione del debito tramite l’ausilio della Banca centrale europea).

4. A fronte di quanto fin qui esposto merita allora soffermarsi sulla prospettiva di sviluppo che pare invece trovare accoglimento negli Stati Uniti, che mira ad “incorporare” le stablecoins il cui valore è legato a quello del dollaro all’interno del sistema finanziario e, di converso, contrasta esplicitamente l’adozione a livello internazionale di valute digitali di Stato (si veda, a tale ultimo riguardo, l’Executive Order 23 gennaio 2025 del Presidente Trump “Strengthening American leadership in digital financial technology”).

Il disegno perseguito dagli Stati Uniti, seppure ad oggi non compiutamente definito, presenta più aspetti di interesse che chiamano in causa la relazione tra politica monetaria e dinamica tributaria, seppure sulla base di presupposti e con ricadute significativamente differenti rispetto al modello delle valute digitali di Stato.

In specie, l’obiettivo dell’adozione su vasta scala di stablecoins ancorate al dollaro, in luogo della creazione di “dollaro digitale”, risponde alle preoccupazioni, prima esposte, di evitare un’intrusione eccessiva del potere statuale nell’esercizio di libertà fondamentali, quali l’impiego del denaro per il soddisfacimento di bisogni ed interessi personali. In specie, come espressamente evidenziato nell’Executive Order 23 gennaio 2025 del Presidente Trump “Strengthening American leadership in digital financial technology”, tra le ragioni di opposizione alla creazione di un dollaro digitale si pone la consapevolezza che tale strumento ponga rischi nei confronti dell’“individual privacy” della popolazione. Ciò, a ben vedere, corrobora le considerazioni prima esposte, che danno evidenza del mutamento nei rapporti cittadino-Stato che potrebbe conseguire all’introduzione su larga scala di una valuta digitale di Stato; mutamenti le cui ricadute anche sul versante Fisco-contribuente paiono, come argomentato, potenzialmente molto significative.

D’altra parte, non vi è chi non veda come il rifiuto di mettere in atto un progetto di valuta digitale di Stato non ostacoli, di per sé, un’evoluzione in senso cashless degli scambi economici, se accompagnata ad una regolazione dell’ecosistema crypto attenta ai rischi per la stabilità finanziaria e per i consumatori, sulla base di principi analoghi a quelli già oggi invalsi nei confronti degli intermediari finanziari e degli istituti di moneta elettronica. Infatti, in assenza di una valuta digitale di Stato, la valorizzazione di un’architettura finanziaria che permetta l’impiego di una pluralità di strumenti di pagamento – anche basati su istituti di criptomoneta di tipo stablecoin – non determina pregiudizi al ruolo “cardine” della valuta fiat nel sistema finanziario (stante l’obbligo in capo all’emittente privato di mantenere una riserva pari alla criptovaluta emessa in valuta fiat o in strumenti finanziari assimilabili quali i titoli di debito pubblico), impedendo così che soggetti privati (gli emittenti criptovaluta) esercitino effettive prerogative monetarie, che permangono così saldamente nel controllo del potere pubblico (in questo senso si confronti l’intervista sul quotidiano Milano Finanza del 22 agosto 2025 a Ardoino P., CEO di Thether). Questa considerazione va tuttavia contestualizzata e meglio spiegata, al fine di comprendere come, anche a tale riguardo, la posizione che sta trovando accoglimenti negli Stati Uniti porti a esiti radicalmente differenti rispetto a quelli insiti nei processi di creazione di valute digitali di Stato, quali l’euro digitale.

In specie, se è vero che la valorizzazione di stablecoin ancorate al dollaro, di per sé, non porta alla “privatizzazione” di competenze in materia monetaria, è altresì indiscutibile che il meccanismo di funzionamento delle stablecoin depotenzia l’efficacia delle leve tradizionali di governo della politica monetaria nella disponibilità di una banca centrale (che si basano sulla fissazione di tassi di interesse che mirano ad influenzare, a cascata, i tassi offerti dagli intermediari finanziari alla clientela), mano a mano che cresce l’utilizzo di stablecoin ancorate al dollaro quali mezzi di pagamento nelle transazioni domestiche ed internazionali.

Sotto questo aspetto, invero, valute digitali di Stato e stablecoin ancore a valute fiat sono accomunate: il depotenziamento del ruolo degli impulsi di politica monetaria da parte degli istituti di banca centrale trova riscontro sia nell’“opzione americana” sia in quella che mira alla creazione di valute digitali di Stato, posto che anche nel contesto di un modello finanziario basato su una valuta digitale pubblica il ruolo delle banche centrali nella fissazione dei tassi di interesse è grandemente ridotto, stante la possibilità per l’utenza di utilizzare nei pagamenti direttamente la valuta digitale di stato in luogo della moneta bancaria, con conseguente perdita di efficacia degli stimoli di politica monetaria che si basano sui canali “bancari”.

Tuttavia, ciò non deve nascondere la diversità di fondo che persiste tra le due ipotesi: la strada della valuta digitale di Stato potenzialmente porta, come argomentato, alla “fusione” tra politica monetaria e politica economica, con la trasformazione della moneta in uno strumento regolatorio, utilizzabile, come richiamato dai sostenitori della “modern monetary theory” al pari di una vera e propria leva tributaria. Nel quadro della prospettiva statunitense, invece, tale rischio “totalizzante” – che rischia di trasformare la moneta in una leva tributaria ben al di là degli effetti impositivi propri del fenomeno inflattivo cui siamo tradizionalmente abituati – non pare effettivamente postulabile. Osta a ciò, da un lato, la circostanza che l’utente non detiene direttamente valuta fiat “digitale”, ma una criptovaluta emessa da un soggetto privato e, da un altro lato, soprattutto, la considerazione che l’emittente criptovaluta deterrà riserve pari all’emissione complessiva in titoli di debito pubblico statunitense e, solo in minima parte, in valuta fiat “liquida”.

Come già evidenziato, va inoltre richiamato il fatto che il modello fondato su valute digitali di Stato rende particolarmente “invitante” la prospettiva di espansione della massa monetaria al fine di finanziarie l’emissione di nuovo debito pubblico, al pari di un “quantative easing”; circostanza che, se letta insieme alla riduzione del ruolo delle istituzioni di banca centrale nel quadro di un ecosistema basato su valute digitali di Stato, favorisce il ritorno a comportamenti “imprudenti” da parte degli Stati sovrani, improntati, cioè, ad utilizzare la leva monetaria per conseguire obiettivi politici di breve periodo, sebbene al prezzo di un’esplosione della dinamica inflazionistica nel medio-lungo termine (per una disamina del rapporto tra debito pubblico, politica economica e monetaria nel quadro della finanza pubblica europea si confronti Mondini A., a cura di, Lezioni di diritto della finanza pubblica europea, Padova, 2025).

Tale rischio non pare possa invece verificarsi con la stessa facilità nell’ipotesi di un’evoluzione del sistema finanziario basato su stablecoins: ciò per l’essenziale considerazione che, affinché in tale scenario la massa monetaria in valuta fiat possa aumentare (o, analogamente, lo Stato possa emettere nuovo debito pubblico senza ricorrere ad un processo di monetizzazione), è comunque necessario che gli utenti siano interessati ad acquisire più criptovaluta da impiegare negli scambi quotidiani. In altre parole, in tale contesto, l’espansione della valuta fiat (o, analogamente, la facoltà dello Stato di emettere nuovo debito pubblico senza ricorrere a logiche di monetizzazione) è possibile in ragione di un’esigenza promanante dall’economia privata, giustificata da ragioni di stabilità ed utilità della sottostante valuta fiat cui è ancorata la stablecoin, che ne favorisce la spontanea accettazione ed utilizzo negli scambi commerciali (come osservato, ex multis, da Davies P.J., Bessent Is Deluded About Stablecoins Funding the Deficit, in Bloomberg, 22 agosto 2025).

Da ciò si comprende, in ultima istanza, come l’adozione su larga scala di stablecoin basate sul dollaro, più che fondere politica monetaria e politica tributaria, mira a (i) sottrarre l’esercizio di prerogative discrezionali oggi svolte da Autorità amministrative quali le banche centrali (che già hanno ricadute di tipo impositivo) e (ii) consentire l’espansione della massa monetaria della valuta fiat cui è ancorata la stablecoin (e, di conseguenza, favorire l’emissione di titoli del debito pubblico denominati in tale valuta fiat) sulla base di un processo che non può essere completamente governato dal potere statale, ma che dipende dalla disponibilità dell’utenza a riconoscere l’utilità della stablecoin (e, quindi, della sottostante valuta fiat) quale moneta dotata di stabilità (i.e. riserva di valore nel tempo) ed di efficienza a livello di costi di transazione e di accettabilità negli scambi (i.e. idoneo mezzo di scambio).

5. Quanto si è argomentato nelle pagine precedenti permette di formulare alcune considerazioni conclusive.

In primo luogo, la prospettiva della cashless society secondo modelli ancorati a logiche fondate su valute digitali di Stato o ‘valute private’ non è neutra.

Nella prospettiva di una valuta digitale di Stato – accompagnata con l’abolizione progressiva del denaro contante – lo Stato incontra pochi limiti dal punto di vista operativo nel (i) realizzare percorsi di forte intrusione nella vita privata dei propri cittadini quali le misure di “credito sociale”, e (ii) impiegare la leva di politica monetaria con logiche tributarie e, più in generale, espandere la base monetaria e perseguire un processo di monetizzazione del debito pubblico in vista di obiettivi di politica economica.

In questo senso, quindi, l’introduzione di una valuta digitale di Stato permetterebbe di superare le remore oggi esistenti in merito all’eliminazione del denaro contante quale mezzo di pagamento (potrebbero infatti venire meno quelle riserve espresse dalla CGUE nella sentenza 26 gennaio 2021, procedimenti riuniti C-422/19 and C-423/19, caso Hessischer Rundfunk, per quanto riguarda l’imposizione di obblighi di pagamento esclusivamente in forma elettronica), ponendo le premesse per una sostanziale “fusione” tra politica monetaria e diritto tributario e delineando una prospettiva “totalizzante” del rapporto tra Stato e individuo-contribuente, in cui si rafforza la posizione di primazia dello Stato, scolora la funzione di garanzia del principio di capacità contributiva e, di converso, si restringono sempre più gli spazi di libertà (civile ed economica) dell’individuo.

A ben vedere, tale processo di evoluzione del sistema dei pagamenti verso un euro digitale di Stato renderebbe possibile la realizzazione “in pienezza” di una vera e propria “società del controllo” (su cui, in una prospettiva ampia, si confronti Zuboff s., The Age for Surveillance Capitalism. The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, New York, 2019) lo stesso utilizzo della moneta nella vita quotidiana, in ultima istanza, da basilare esercizio di libertà economica dell’individuo si tradurrebbe in una forma di libertà autorizzata, subordinata al riscontro positivo da parte dell’infrastruttura informatica, gestita dall’Autorità amministrativa preposta, alla richiesta dell’utente di poter disporre di valuta per effettuare un dato pagamento.

A fronte di ciò, pur nell’incertezza delle prospettive future sull’evoluzione del sistema monetario internazionale, la posizione che pare perseguita dagli Stati Uniti risulta maggiormente proporzionata ed atta a limitare “eccessi” da parte del potere statale; e ciò sia con riguardo alla dimensione della protezione dei dati personali ed alle prerogative di libertà economica e civile dell’individuo sia con riguardo all’utilizzo “improprio” della leva monetaria in vista del perseguimento di obiettivi di politica economica e fiscale.

In secondo luogo, le scelte cui si trova di fronte l’UE – che non potrà rimanere attendista a lungo – paiono invero non prive di criticità.

Se è vero che l’euro digitale presenta i rischi prima esposti, l’evoluzione tecnologica nei sistemi di pagamenti impone necessariamente una scelta da parte del regolatore. E in tale frangente non può dimenticarsi come la prospettiva statunitense, che tramite il sostegno all’ecosistema delle stablecoins ancorate al dollaro mira al mantenimento della propria valuta fiat quale moneta di riferimento nei traffici internazionali e, allo stesso tempo, riserva di valore affidabile (così da garantire l’afflusso di risorse al servizio del finanziamento dei titoli di debito pubblico statunitense), non è trasponibile nella prospettiva europea. Stante l’assenza di un mercato dei titoli di debito pubblico unionali (posto il permanere della responsabilità del debito pubblico in capo alle finanze dei singoli Paesi), il perdurare di una frammentazione del mercato finanziario europeo e lo scarso appeal dell’euro nei traffici internazionali, il rischio è quello di una progressiva colonizzazione del mercato dei traffici economici europei da parte di stablecoins ancorate al dollaro, con l’effetto di una “dollarizzazione” strisciante in danno delle prospettive di sviluppo dell’euro. Se fosse così, in ultima istanza, si potrebbe addivenire fino al punto di ritenere che l’euro, quale valuta fiat comune ai Paesi dell’eurosistema, non costituisca più un’istituzione così necessaria, potendo essere validamente sostituita nei traffici internazionali ed intra-unionali da stablecoins ancorate al dollaro (e risultando già oggi poco efficiente nel ‘tenere insieme’ le diverse dinamiche di sviluppo economico-finanziario dei vari Paesi membri, le cui prospettive di convergenza economica non si sono, come noto, tuttora verificate, come già pronosticava agli albori dell’euro Vanistendael F., Redistribution of tax law-making power in EMU?, in EC Tax Review, 1998, 74 ss.).

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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