Sull’imputazione a periodo delle sopravvenienze attive derivanti da sentenze civili

Di Alessandro Zuccarello -

(commento a/notes to Cass., sez. trib., 6 maggio 2025, n. 11917 e Cass., sez. trib., 4 settembre 2025, n. 24485)

Abstract (*)

La Corte di Cassazione si è di recente pronunciata sul tema della imputazione a periodo delle componenti reddituali che emergono da sentenze civili. In particolare, nella prima pronuncia di maggio, la Cassazione ritiene che ai fini dell’imputazione a periodo sia sufficiente il deposito della sentenza e non il suo passaggio in giudicato. Tuttavia, viene esclusa l’imputazione a periodo nel caso in cui l’efficacia esecutiva della sentenza sia stata sospesa. Si tratta di una soluzione condivisibile ma che va collegata alle innovazioni intervenute in tema di determinazione del reddito d’impresa, di cui la Corte non ha potuto tenere conto, e in ogni caso è bene mettere in luce alcuni passaggi della motivazione che non convincono. Di segno opposto è, invece, la più recente pronunzia di settembre, ma le motivazioni addotte a sostegno del mutato orientamento non risultano affatto convincenti.

The Periodic Allocation of Income Surpluses from Civil Court Rulings – The Supreme Court has recently ruled on the recognition of income items arising from civil court rulings. The Court affirms that for the purpose of attributing income to a specific period, the filing of the ruling is enough, even if it has not become final. However, allocation by period is excluded when the enforceability of the judgment has been suspended. This is a reasonable solution, but it should be connected with the recent innovations in the determination of business income that the Court couldn’t consider moreover certain different aspects of the ruling deserve closer scrutiny, cause they are not persuasive.

Sommario: 1. Il caso deciso e la innovativa decisione della Corte di Cassazione. – 2. L’imputazione a periodo dei componenti positivi e negativi nel reddito di impresa. – 3. L’imputazione delle componenti reddituali derivanti da sentenze. – 4. L’imputazione a periodo in rapporto con la efficacia esecutiva delle sentenze civili. – 5. Considerazioni a margine di un recentissimo arresto della Cassazione. – 6. Alcune critiche e possibili sviluppi alla luce anche della derivazione rafforzata.

1. L’ordinanza della Cassazione 6 maggio 2025, n. 11917 che qui si commenta, si è pronunciata, fra l’altro, sul tema dell’imputazione a periodo delle sopravvenienze che derivano da una sentenza civile.

In particolare, si tratta di interessi anatocistici che, in virtù di una sentenza civile di primo grado, una banca era stata condannata a restituire a una società. A quanto è dato intendere dai fatti esposti, in sede di proposizione dell’appello la banca chiedeva ed otteneva la parziale sospensione della efficacia esecutiva della sentenza impugnata. La Corte d’appello rigettava l’appello della banca e la società dichiarava gli importi a lei dovuti nel periodo di imposta del passaggio in giudicato della sentenza d’appello. Sennonché, l’Agenzia delle Entrate, spiccava avvisi d’accertamento nei confronti della società e dei soci, sul presupposto che gli importi dovuti in base alla sentenza d’appello avrebbero dovuto essere dichiarati nel periodo d’imposta di deposito di tale sentenza e non in quello del suo passaggio in giudicato.

Gli avvisi d’accertamento venivano impugnati dinanzi al giudice tributario ed ivi i contribuenti risultavano vittoriosi sia in primo, sia in secondo grado. L’Agenzia, dunque, propone ricorso per Cassazione, e qui le sue doglianze trovano accoglimento. La sentenza in commento richiama l’attenzione poiché la Corte ha accolto, aggiornandola, la posizione da tempo sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, secondo cui l’alternativa fra i due diversi momenti di imputazione temporale, ossia il deposito della sentenza o il suo passaggio in giudicato, andava risolta a favore del deposito (cfr., per tutte, Ris. min. fin., 27 aprile 1991, n. 9/174; Agenzia delle Entrate, Consulenza giuridica, 4 agosto 2020, n. 9). La Cassazione ha fatto tuttavia un passo ulteriore, specificando che l’imputazione della sopravvenienza non debba avvenire se, nonostante il deposito, sia stata disposta la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza.

Quest’ultima è una puntualizzazione tutt’altro che irrilevante e che non poteva darsi certo per scontata.

Molteplici sono, infatti, i settori disciplinari coinvolti: la disciplina della competenza tributaria affonda le radici nella disciplina civilistico-economica e il richiamo della efficacia delle sentenze rimanda inevitabilmente agli studi di diritto processuale civile. Si impone, dunque, un discorso approfondito, che richiede ricostruzioni e digressioni che potrebbero sembrare sproporzionate dinanzi alla stringatezza dell’ordinanza e che forse appesantiscono l’esposizione. Ciò è tuttavia necessario al fine di comprendere meglio la decisione ed il commento che si rassegna.

L’opportunità di tale analisi è ancora maggiore se si considera, da un lato, che la decisione in commento è stata reiterata, per quanto consta, dalla stessa Corte in ulteriori giudizi riguardanti la medesima vicenda (cfr. Cass., ord. 6 maggio 2025, n. 11919; Id., ord. 6 maggio 2025, n. 11923; Id., ord. 20 maggio 2025, n. 13361; Id., ord. 20 maggio 2025, n. 13369; Id., ord. 25 maggio 2025, n. 13867); dall’altro, che le statuizioni fondate sulla provvisoria esecutività delle sentenze civili possono avere un potenziale elevato di applicazione, potendo essere riferite a sentenze diverse, comunque dotate di efficacia esecutiva, quali ad esempio quelle tributarie (in base all’art. 67-bis D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) o anche quelle amministrative (ex art. 33, comma 2, D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104), con le opportune specificazioni.

2. Dall’impostazione del TUIR emerge una precisa scelta di campo del legislatore circa la determinazione del reddito di impresa.

Trattandosi di una attività economica tipicamente complessa, il legislatore ha impiegato dei criteri di determinazione del reddito in grado di rispecchiare al meglio l’effettiva ricchezza prodotta: per tale ragione, il punto di partenza per la determinazione della base imponibile nel reddito d’impresa è il bilancio d’esercizio, e in particolare il risultato del conto economico. Le variazioni in aumento e diminuzione che vengono apportate al risultato di bilancio servono, poi, a consentire il perseguimento degli interessi propri della materia fiscale, quali, ad esempio, la prevenzione dell’elusione o dell’evasione ovvero l’interesse alla certezza del rapporto tributario (sul punto cfr. Zizzo G., Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa, in Aa.Vv., Imposta sul reddito delle persone fisiche, Torino, 1994, 478 ss.; Crovato F., L’imputazione a periodo nelle imposte sui redditi¸ Padova, 1996, 135; e, più di recente, Grandinetti M., Il principio di derivazione nell’IRES, Padova, 2016, 63 ss.).

Del meccanismo di dipendenza parziale così delineato dal legislatore fiscale risente anche l’imputazione a periodo dei componenti del reddito d’impresa, di cui qui vengono in rilievo alcuni profili particolari.

In sede di redazione del bilancio di esercizio, il legislatore civilistico ha previsto l’applicazione del principio di competenza (art. 2423-bis c.c.), in luogo dell’alternativa rappresentata dal principio di cassa. Simmetrica è stata storicamente la scelta del legislatore fiscale (cfr., per tutti, Falsitta G., Il problema dei rapporti tra bilancio civile e bilancio fiscale nella riforma dell’imposta sulle società [IRES], in Rinaldi R., a cura di, Il reddito d’impresa tra norme di bilancio e principi contabili, Milano, 2004, 28), prevedendo, come regola generale, l’imputazione a periodo dei componenti di reddito in base al principio di competenza economica (art. 109, comma 1, TUIR), e il principio di cassa come eccezione riservata a taluni, tassativi componenti positivi e negativi (v., ad esempio, gli artt. 59 e 89 TUIR in materia di imputazione temporale dei dividendi, e l’art. 95, comma 5, in merito alla imputazione dei compensi degli amministratori).

Oltre a dettare specifiche regole per l’individuazione del momento in cui si considerano conseguiti i corrispettivi e sostenute le spese (comma 2), la normativa fiscale – a differenza di quella civilistica – subordina l’imputazione del componente di reddito nel periodo di competenza alla certezza dell’esistenza e alla obiettiva determinabilità dell’ammontare dello stesso, diversamente prevedendo lo spostamento in avanti al periodo di imposta in cui le due condizioni sono entrambe verificate (cfr. sul punto Crovato F., L’imputazione a periodo nelle imposte sui redditi¸ cit., 133; Del Federico L., Per una concezione restrittiva della regola sulla certezza ed obbiettiva determinabilità delle componenti reddituali, in Rass. trib., 1998, 4, 1094). Ad avviso di alcuni Autori, si sarebbe così realizzato un sistema di imputazione temporale degli elementi attivi e passivi del reddito proprio della disciplina tributaria (in tal senso, Poddighe A., Il principio di competenza tra diritto contabile e diritto tributario nella prospettiva interna e sovranazionale, Milano, 2021, 115). Secondo altri, invece, le regole fiscali non sono destinate a sostituire quelle civilistico-economiche ma ad interagire con esse al fine di apportare al risultato determinato in base a queste ultime le variazioni funzionali al soddisfacimento degli interessi propri del sistema fiscale (cfr. in tal senso Zizzo G., Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa, cit., 528).

Ancorché la disciplina fiscale rilevante nel caso oggetto dell’ordinanza in commento sia quella sopra sintetizzata, occorre evidenziare che l’imputazione a periodo dei componenti positivi e negativi del reddito d’impresa ha subito una profonda trasformazione con l’introduzione – mediante modifica dell’art. 83 TUIR – del principio di derivazione “rafforzata”, dapprima nei confronti dei soli soggetti IAS adopter (art. 1 L. 24 dicembre 2007, n. 244) e poi nei confronti di tutti i soggetti che redigono i bilanci in base alle disposizioni del codice civile, ivi comprese le microimprese che redigono il bilancio in forma abbreviata (art. 13-bis D.L. n. 244/ 2016, conv. con mod. dalla L. n. 19/2017; per l’ultimo ampliamento, v. L. n. 111/2023 e successivi decreti attuativi, compreso lo schema di D.Lgs. 14 luglio 2025), il quale in materia di imputazione temporale prevede, in deroga alla normativa fiscale, l’applicazione anche in sede di dichiarazione delle regole previste dai principi contabili (sul tema, cfr. Fransoni G., L’imputazione a periodo nel reddito d’impresa dei soggetti Ias/Ifrs, in Corr. trib., 2008, 39, 3145 ss. e Crovato F., Il principio di competenza dopo la riforma degli OIC, in Riv. dir. trib., 2020, 2, 153 ss.).

Occorre ora raccordare le regole generali sopra illustrate alla fattispecie vagliata dalla Corte di Cassazione.

3. Nel caso deciso dalla Corte vengono in rilievo due diverse soluzioni al fine di imputare a periodo i componenti reddituali che emergono dall’ordinanza: imputare le relative somme al periodo di imposta del deposito della sentenza ovvero attendere il periodo in cui tale sentenza sia passata in giudicato. In particolare, i contribuenti ritenevano necessario il passaggio in giudicato della sentenza, l’Agenzia, viceversa, riteneva sufficiente il mero deposito.

Per risolvere il problema è indispensabile partire dal dato normativo. E ciò è proprio quello che ha fatto la Cassazione, che ha richiamato anzitutto i requisiti della «certezza dell’esistenza ed obbiettiva determinabilità» del componente reddituale, cui l’art. 109 TUIR subordina in via generale l’imputazione a periodo.

Dei due requisiti è proprio quello della certezza a giocare un ruolo di primo piano nel caso deciso, posto che sul requisito della determinabilità non si fa questione. Nello specifico, trattandosi di una sentenza di primo grado, la certezza della pronuncia potrebbe essere messa in discussione, potendo quest’ultima essere ribaltata in appello. Sul punto però è bene essere cauti.

In via generale, il requisito della certezza nell’esistenza non deve essere inteso quale sinonimo di definitività, che implica la immodificabilità di un dato evento (cfr. Falsitta G., La tassazione, cit., 219 ss.; Crovato F., L’imputazione, cit., 137; Poddighe A., op. cit., 126). E se si guarda al TUIR, è già la previsione delle sopravvenienze attive e passive ad ammettere implicitamente l’imputazione a periodo di componenti che in esercizi successivi sono suscettibili di variazioni (cfr. Tinelli G., Il reddito d’impresa, cit., 239 ss.). Inoltre, è bene ricordare che da più parti si è sostenuto sia che la componente di reddito debba essere certa, e non probabile o possibile (cfr. Zizzo G., op. cit., 542; Del Federico L., op. cit., 1095) sia che la certezza, salve specifiche deroghe normative, vada intesa «in senso giuridico, cioè quale attribuzione di rilevanza fiscale a fatti economici giuridicamente certi (n.d.r. enfasi nostra)» (così si esprime Tinelli G., op. cit., 242; nello stesso senso si vedano, anche per ulteriori riferimenti, Zizzo G., op. cit., 542; Crovato F., L’imputazione, cit., 139).

Di conseguenza, in dottrina si è coerentemente sostenuto che per l’imputazione a periodo delle componenti reddituali che emergono da sentenza non sia necessario attendere il passaggio in giudicato, essendo sufficiente il mero deposito (cfr. Crovato F., Somme pagate in base a provvedimento di autorità pubbliche [giurisdizionali o amministrative] e principio di competenza, in Rass. trib., 2001, 2, 356 ss.). Estendendo quanto previsto dall’art. 64 TUIR (ora art. 99), quest’ultimo Autore ritiene che quello del deposito non sia un momento inderogabile di imputazione a periodo, ma meramente facoltativo. Sarebbe invece definitivo il momento segnato dal pagamento di quanto dovuto in base al provvedimento definitivo (soglia oltre la quale la deduzione non spetta più). E in questa prospettiva tale posizione dovrebbe considerarsi «paradigmatica del comportamento da tenere ai fini dell’imputazione a periodo di tutti gli elementi negativi di reddito conseguenti ad atti di autorità amministrative o giurisdizionali».

Anche nell’ordinanza in commento si ritiene che ai fini della imputazione a periodo non sia necessario attendere il passaggio in giudicato della sentenza civile.

In particolare, la Corte muove dal presupposto per cui la tassazione delle componenti positive debba avvenire nell’esercizio in cui esse acquistano certezza (vengono citati i seguenti precedenti: Cass., 23 gennaio 2020, n. 1508; Id. 9 agosto 2022, n. 24580; Id. 9 febbraio 2023, n. 3901; nello stesso senso si veda anche la più recente: Cass., 11 giugno 2025, n. 15617). E in tale prospettiva richiama i lavori preparatori del Testo Unico – con riferimento al previgente art. 75 TUIR – e precisa che la certezza dell’esistenza dei componenti di reddito, di cui all’art. 109 TUIR, andrebbe accertata sulla base di «criteri essenzialmente economici» (nel medesimo senso già in Agenzia delle Entrate, Consulenza giuridica n. 9/2020). Sulla base di tali premesse la Cassazione giunge ad affermare che ai fini della imputazione a periodo non rileverebbe la possibilità che la statuizione giudiziale possa essere ribaltata in seguito, dal momento che «un’eventuale modifica della decisione nei successivi gradi di giudizio realizzerebbe una sopravvenienza passiva, idonea anch’essa a concorrere alla formazione del reddito ai sensi dell’articolo 101 del TUIR». Rilevante è poi il passaggio in cui la Corte afferma che ai fini della imputazione di una sopravvenienza attiva, derivante del venir meno di una posta passiva, «rileva il momento in cui si è acquisita la giuridica certezza della inesistenza della posta passiva, e cioè il momento in cui si è verificato il fatto di gestione che ha prodotto il venir meno della posta passiva» (il virgolettato è tratto da Cass., 17 luglio 2023, n. 20608, che viene citata nell’ordinanza in commento).

Come si può notare, vi sono importanti punti di contatto tra le posizioni della dottrina e della giurisprudenza (oltre che dell’Amministrazione), e ciò potrebbe indurre a chiudere subito l’indagine sul tema.

Nell’ordinanza c’è tuttavia dell’altro. La Corte di Cassazione si occupa, infatti, anche dell’incidenza che la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza civile (l’inibitoria) possa avere sulla imputazione a periodo.

Quest’ultimo è un profilo interessante, che tuttavia impone delle digressioni: occorre mettere a fuoco, infatti, il regime della efficacia esecutiva delle sentenze civili.

Ciò può essere utile sotto due diversi punti di vista: perché tale analisi può fornire una ulteriore conferma della posizione che si è sostenuta circa la imputazione a periodo; e perché essa permette di vagliare l’incidenza che su tale imputazione possa avere l’inibitoria.

4. Secondo la disciplina dettata dal codice di procedura civile, sia le sentenze di primo grado, sia quelle d’appello acquistano efficacia esecutiva al momento del deposito. Tale assetto di disciplina è il risultato di una evoluzione sviluppatasi nel corso degli anni e della quale è bene esaminare i passaggi principali, distinguendo il regime delle sentenze di primo grado da quello previsto per le sentenze d’appello.

Rispetto alle sentenze di primo grado, l’art. 282 c.p.c. prevede che esse siano in via generale «provvisoriamente esecutive tra le parti». Tale previsione è stata introdotta nel codice di procedura civile dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, che ha determinato un significativo cambio di rotta rispetto alla disciplina previgente. Ivi l’esecutività delle medesime sentenze veniva subordinata ad una istanza di parte ed era legata a presupposti specifici. Si tratta di una riforma importante che può essere apprezzata appieno solo ampliando l’orizzonte d’indagine.

In generale, l’emissione di un provvedimento dichiarativo da parte del giudice fa sorgere quello che la dottrina ha felicemente definito come «conflitto esecutivo» ossia quella tensione che esiste fra le contrapposte esigenze di tempestività e stabilità. L’esigenza alla tempestività fa capo all’attore che abbia ottenuto una pronunzia favorevole della quale intenda ottenere l’esecuzione forzata. La contrapposta esigenza alla stabilità fa invece capo al convenuto (che abbia ottenuto una pronuncia sfavorevole), e si tratta di quella esigenza di attendere un provvedimento passato in giudicato, allo scopo di evitare destabilizzazioni dell’eventuale esecuzione (sul “conflitto esecutivo” si veda Andolina I., “Cognizione” ed “esecuzione forzata” nel sistema della tutela giurisdizionale, Catania, 1979, 25 ss.).

È evidente che nel dettare le discipline normative il legislatore può decidere di privilegiare ora l’una ora l’altra esigenza.

Con riferimento alle sentenze di primo grado, se si guarda alla disciplina della provvisoria esecutività attualmente in vigore non sembra insensato affermare che grazie alla riforma del 1990, di cui si è detto, il legislatore abbia inteso privilegiare l’interesse alla tempestività, dal momento che la provvisoria esecutività da eccezione diventa regola generale (sul tema si rinvia anche per i riferimenti a Impagnatiello G., La provvisoria esecuzione e l’inibitoria nel processo civile, Milano, 2010, 295 ss.). Il contrapposto interesse alla stabilità non è stato comunque obliterato dal legislatore, posto che rimane fermo il potere del giudice d’appello di sospendere, su istanza di parte, «in tutto o in parte l’efficacia esecutiva o l’esecuzione della sentenza impugnata». Prevalenza dell’interesse alla tempestività si riscontra anche rispetto alle sentenze d’appello che erano generalmente dotate di efficacia esecutiva già prima dell’intervento della L. n. 353/1990. E anche qui il legislatore non trascura l’interesse alla stabilità, prevedendo all’art. 373 c.p.c. la possibilità di chiedere al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata di sospendere l’esecuzione.

La uniforme prevalenza dell’interesse alla tempestività ben supporta la tesi che collega l’imputazione delle componenti reddituali al deposito della sentenza, condivisa dall’ordinanza in commento.

Tuttavia, ciò non è ancora sufficiente per prendere posizione sull’ulteriore passaggio contenuto nella motivazione dell’ordinanza, ossia quello che esclude l’imputazione del componente reddituale nel caso in cui sia stata disposta la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza.

A tal fine è infatti necessario tenere conto di recenti modifiche normative che hanno inciso significativamente sul potere di sospensione in discorso.

Con riferimento alle sentenze di primo grado, l’art. 283 c.p.c., come modificato dall’art. 34 L. n. 353/1990, prevedeva che il giudice di secondo grado su istanza di parte potesse sospendere l’efficacia esecutiva in presenza di “gravi motivi”. Tale disposizione ha subito delle modifiche nel corso degli anni; in questa sede rilevano più che altro quelle apportate all’art. 283 c.p.c. dall’art. 3, comma 22, lett. a), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, grazie alle quali si prevede ora che la sospensione possa essere disposta quando «l’impugnazione appare manifestamente fondata o se dall’esecuzione della sentenza può derivare un pregiudizio grave e irreparabile». Insomma, i presupposti per l’inibitoria sono stati resi alternativi (sul tema si veda, anche per ulteriori riferimenti, Violante V. – Barone S., Provvedimenti sull’esecuzione provvisoria in appello, in Tiscini S., a cura di, La riforma Cartabia del processo civile, Pisa, 2025, 619).

A ciò deve aggiungersi che il D.Lgs. n. 149/2022 ha altresì introdotto la possibilità chiedere l’inibitoria non solo in sede di impugnazione principale o incidentale ma di proporla o di riproporla nel corso del giudizio di appello, anche se soltanto ove ricorrano «mutamenti nelle circostanze», e ciò circoscrive l’ambito della riproposizione (o della proposizione) in corso di giudizio, nonostante di tale formula siano state proposte letture estensive. Non sono state previste forme di controllo (revoca/modifica/reclamo) contemplate invece nel rito cautelare uniforme (sui tali profili cfr. Violante V. – Barone S., Provvedimenti sull’esecuzione provvisoria in appello, cit., 621 ss.; 624 ss.).

In relazione alle sentenze d’appello, l’inibitoria è invece disciplinata dall’art. 373 c.p.c., che la subordina alla circostanza per cui «dall’esecuzione possa derivare grave e irreparabile danno». Tale disposizione è stata oggetto di letture rigorose sia da parte della dottrina (cfr., ad esempio, Carpi F., La provvisoria esecutorietà della sentenza, Milano, 1979, 287 ss.), sia da parte della giurisprudenza (cfr., ad esempio, Corte d’Appello, Roma, ord. 30 maggio 2018; Id., ord. 13 novembre 2019; Id., ord. 1° settembra 2023) e si tratta di letture che si giustificano alla luce dei limiti entro i quali può essere sindacata la sentenza d’appello (cfr. Impagnatiello G., La provvisoria esecuzione e l’inibitoria nel processo civile, cit., 508). In particolare, si è affermato, fra le altre cose, sia che la cognizione del giudice in sede di inibitoria debba essere circoscritta alla valutazione del periculum in mora (ma non sono mancate letture che attribuiscono rilievo anche al fumus boni iuris cfr. ad esempio, Impagnatiello G., op. cit., 507 ss. cui si rinvia per ulteriori riferimenti sul tema), sia che l’irreparabilità richiesta dall’art. 373 c.p.c. ricorra ove il pregiudizio sia irreversibile (cfr., ad esempio, le ordinanze citate supra).

In definitiva, grazie alle recenti riforme risultano meglio definiti i presupposti per accedere alla inibitoria, e ciò supporta l’impostazione fatta propria dall’ordinanza che si commenta, posto che l’imputazione temporale viene allineata alla soluzione del conflitto fra interesse alla tempestività ed interesse alla stabilità illustrato in precedenza.

In particolare, secondo la condivisibile prospettiva della Cassazione, nelle ipotesi in cui prevalga l’interesse alla tempestività le componenti reddituali che emergono da una sentenza dovranno essere imputate a periodo; se, viceversa, grazie all’inibitoria dovesse prevalere il contrapposto interesse alla stabilità, non dovrà procedersi alla imputazione a periodo.

5. Con la recentissima sentenza 4 settembre 2025, n. 24485 che è stata pubblicata mentre il presente saggio era in corso di stampa, la Corte di Cassazione è ritornata a pronunciarsi, fra le altre cose, sull’imputazione temporale dei componenti reddituali derivanti da sentenze civili. E non è possibile prescindere dal commentare anche tale pronunzia, dato che viene predicata una soluzione diversa da quella fatta propria dalla prima ordinanza di maggio, in commento.

Limitando il discorso all’essenziale, nel caso deciso dalla sentenza n. 24485/2025 una azienda speciale attendeva la sentenza civile di secondo grado per imputare a periodo – secondo l’ammontare determinato da quest’ultima sentenza – le somme che essa era stata condannata a versare alla controparte già in primo grado. La sentenza d’appello aveva, infatti, riformato la sentenza di primo grado e riconosciuto altresì alla contribuente il risarcimento dei danni indiretti. Ma tali ultimi importi non venivano contabilizzati fra le poste attive del periodo di pubblicazione della sentenza, perché la controparte aveva proseguito il contenzioso in base a ragioni che, per la contribuente, dovevano ritenersi non pretestuose. Ambedue le scelte sull’imputazione temporale vengono condivise dalla Cassazione, e ciò in virtù di una interpretazione dell’art. 109 TUIR che è bene ripercorrere nelle sue linee essenziali.

Secondo la Corte, nel caso di «debito litigioso» affinché possano essere soddisfatte le due condizioni della certezza, relativa alla sussistenza, e della determinabilità, relativa all’ammontare, richieste dall’art. 109 TUIR, occorre che la lite sia conclusa. Se questa affermazione è, in linea di principio, condivisibile, non altrettanto lo sono, gli ulteriori passaggi della motivazione.

Nello specifico, secondo la Corte ove gli elementi costitutivi di costi e ricavi sino incerti nell’an o nel quantum «debbono essere imputati all’esercizio nel quale si manifestano nella loro oggettiva certezza, sia quanto all’an che con riferimento al quantum». Sulla base di queste premesse, la Corte afferma poi che la certezza di un costo «si ha nel momento in cui quell’elemento passivo acquisisce una fisionomia definitiva []», affermando, infine, il principio di diritto per cui il contribuente non è tenuto a contabilizzare i componenti attivi e passivi che emergono da provvedimenti emessi in seguito ad un giudizio, ove essi siano «messi in discussione mediante la proposizione di mezzi di impugnazione ammissibili e non manifestamente infondati, dovendo la contabilizzazione essere effettuata solo quando quegli elementi siano divenuti ragionevolmente certi sia nell’an che nel quantum».

Più motivi inducono a ritenere il ragionamento della Corte non convincente.

Con riferimento alla affermata esigenza che il componente reddituale assuma una fisionomia definitiva, si è già visto che la dottrina, in più occasioni, ha ribadito la necessità di non intendere la certezza dell’esistenza come sinonimo di definitività. E, analogamente, non è persuasivo l’assunto per cui debba ricorrere «oggettiva certezza» sia dell’esistenza, sia della determinabilità dei componenti reddituali: ne è una conferma il fatto che l’art. 109 TUIR si limita a richiedere che ai fini dell’imputazione dei componenti reddituali debba essere solamente «certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare».

Sebbene gli effetti dei ragionamenti della Cassazione non si siano riflessi del tutto sul caso deciso, in essi si annida una elevata forza espansiva.

Scendendo più nel dettaglio, la sentenza di primo grado era stata destinataria di inibitoria e, dunque, la mancata imputazione nel periodo di deposito si sarebbe potuta sostenere anche alla luce di quanto affermato nell’ordinanza n. 11917/2025 in commento. Diverse considerazioni devono svolgersi circa il risarcimento dei danni indiretti, riconosciuto in favore della contribuente dalla sentenza di secondo grado. Di quest’ultimo, non sembra giustificabile la mancata imputazione per via della prosecuzione del contenzioso, anche se sulla base di ragioni che secondo la contribuente non erano pretestuose. Qui, piuttosto, sarebbe opportuno conformarsi alla gestione normativa del conflitto esecutivo, di cui si è detto in precedenza. Trattandosi di una sentenza d’appello, fermo restando quanto si è già argomentato, ci si limita a richiamare, a conferma, le differenze che a livello testuale separano l’art. 283 c.p.c. dall’art. 373 c.p.c.: il primo subordina l’inibitoria della sentenza impugnata in appello alla manifesta fondatezza dell’impugnazione ovvero al pregiudizio grave e irreparabile che può derivare dall’esecuzione della sentenza impugnata; il secondo, invece, esclude anzitutto l’efficacia sospensiva del ricorso per Cassazione e fa dipendere l’inibitoria solamente dalla possibilità che dall’esecuzione della sentenza impugnata possa derivare un grave ed irreparabile danno.

In definitiva, occorre evitare la possibile diffusione di temibili letture, oltremodo restrittive dei requisiti della certezza e della obiettiva determinabilità dei componenti di reddito, che potrebbero originare dalle affermazioni contenute nella sentenza della Cassazione n. 24485/2025. Quanto al principio di diritto affermato in conclusione dalla Corte, si possono anche comprendere le ragioni di fondo che lo hanno ispirato, ma, in ogni caso, ai fini dell’imputazione sembra proficuo cercare dei parametri normativi di riferimento. E in questa prospettiva è utile il richiamo alla chiave di lettura che si è proposta supra, la quale fa leva sulla disciplina positiva del conflitto esecutivo. Da questo punto di vista sembra certamente più equilibrata l’ordinanza n. 11917/2025 che qui si commenta.

6. A completamento di quanto osservato sino ad ora, a mo’ di conclusioni, si vogliono svolgere due ordini considerazioni, per segnare una presa di distanza da un passaggio dell’ordinanza n. 11917/2025 che potrebbe passare inosservato, da un lato; e per completare il ragionamento condotto, adeguandolo a mutati contesti normativi, dall’altro.

Quanto al primo ordine di considerazioni, nell’ordinanza in commento viene instaurato un singolare parallelismo fra l’imputazione a periodo dei componenti che emergono da sentenza civile e l’imputazione dei rimborsi d’imposta spettanti ai contribuenti. In ambedue i casi, ad avviso della Cassazione, potrebbero esserci fatti che impediscono al contribuente di conseguire il provento (cfr. Cass., 28 maggio 2008, n. 13948 che viene citata nell’ordinanza). Più precisamente, secondo la Cassazione, nel caso di rimborsi d’imposta l’imputazione a periodo del relativo componente reddituale dovrebbe avvenire al «termine del procedimento diretto all’emissione del provvedimento di rimborso» dal momento che occorre verificare l’inesistenza di debiti d’imposta del contribuente, in presenza dei quali «l’ammontare del rimborso già riconosciuto potrebbe ridursi» (cfr. Cass. n. 11917/2025 cit.).

Sul punto si nutrono perplessità.

In primo luogo, difficilmente potrebbe ammettersi l’imputazione a periodo di un credito d’imposta del contribuente dinanzi ad una “attestazione dei crediti tributari” resa in favore dell’intestatario di un conto fiscale. Se non altro, perché l’art. 10 D.L. 30 settembre 2003, n. 269, prevede, da un lato, che con tale atto l’Agenzia è «autorizzata ad attestare la certezza e la liquidità del credito, nonché la data indicativa di erogazione del rimborso»; e, dall’altro, esclude che l’attestazione sia utilizzabile ai fini del processo di esecuzione o del procedimento di ingiunzione. La situazione qui è diversa: manca l’efficacia esecutiva su cui la stessa Cassazione impernia l’imputazione a periodo di somme che emergono da sentenze.

In secondo luogo, in un sistema tributario ove i rimborsi vengono ordinariamente eseguiti mediante bonifico su conto corrente, e in cui viene previamente richiesto ai contribuenti che abbiano presentato istanza l’indicazione delle coordinate bancarie per il pagamento, non può escludersi il rischio che il rimborso venga effettuato senza prima comunicare l’accoglimento dell’istanza. Ed è evidente che in ipotesi di questo genere, in assenza di un atto, sarebbe ben difficile applicare le statuizioni della Cassazione.

Quanto al secondo ordine di considerazioni, nell’ordinanza in commento la Corte non tiene conto dell’impatto che il principio di derivazione rafforzata ha avuto sulla disciplina della imputazione a periodo dei componenti del reddito d’impresa, in forza delle riforme del 2007 e del 2016, di cui si è già dato conto. E non potrebbe essere diversamente, visto che si tratta di discipline successive a quelle applicabili alla vicenda decisa.

Tuttavia, per l’assoluta rilevanza che assume oggi il principio di derivazione rafforzata, qualche considerazione va svolta al fine di verificare in astratto la decisione in esame rispetto al mutato contesto normativo, posto che, come si è già detto, il principio in questione ha radicalmente trasformato l’imputazione a periodo dei componenti positivi e negativi del reddito d’impresa.

L’attuale art. 83 TUIR prevede che per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali e nazionali, con esclusione delle micro-imprese di cui all’art. 2435-ter c.c. «valgono, anche in deroga alle disposizioni dei successivi articoli della presente sezione, i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti da detti principi contabili». Ciò comporta, come espressamente affermato dall’art. 2, comma 2, D.M. 1° aprile 2009, n. 48, di attuazione della citata disposizione, che ai predetti soggetti «devono intendersi non applicabili […] le disposizioni dell’articolo 109, commi 1 e 2, del testo unico, nonché ogni altra disposizione di determinazione del reddito che assuma i componenti reddituali e patrimoniali in base a regole di rappresentazione non conformi all’anzidetto criterio».

Ciò determina, evidentemente, un significativo cambio di rotta, posto che l’imputazione temporale dei costi e dei ricavi effettuata sulla base dei principi contabili, notoriamente ispirati al principio di prevalenza della sostanza sulla forma (su tale, ultimo principio, Del Federico L., Forma e sostanza nella tassazione del reddito di impresa: spunti per qualche chiarimento concettuale, in Riv. dir. trib., 2017, 2, 139 ss.; Montanari F., La prevalenza della sostanza sulla forma nel diritto tributario¸ Milano, 2019, 37 ss.), va tenuta ferma ai fini della determinazione del reddito, con susseguente disattivazione delle regole fiscali di competenza dell’art. 109, commi 1 e 2, TUIR e quindi anche dei requisiti di certezza e di obbiettiva determinabilità. Com’è stato osservato, l’operatività dei principi contabili risulta comunque monca, e ciò in ragione delle numerose deroghe previste a livello normativo, che riattivano specifiche previsioni del TUIR (v. sul punto, Crovato F., Il principio di competenza dopo la riforma degli OIC, cit., 2, 166 ss.; 170 ss.).

Si tratta, dunque, di verificare se la soluzione rassegnata nell’ordinanza in commento possa ritenersi valida anche nei casi in cui trovi applicazione il principio di derivazione rafforzata.

Con riferimento ai soggetti che applicano i principi contabili nazionali, si trovano utili indicazioni nella Consulenza giuridica n. 9/2020 dell’Agenzia delle Entrate, già citata. Ivi vengono richiamati, fra l’altro, i principi OIC 15, par. 30, e OIC 19, par. 39 che si riferiscono rispettivamente ai crediti e ai debiti: il primo, riguardo ai crediti, subordina l’imputazione al fatto che i crediti «rappresentano effettivamente un’obbligazione di terzi verso la società»; il secondo, rispetto ai debiti, subordina l’imputazione al sorgere della «obbligazione della società al pagamento verso la controparte».

Nel citato atto di prassi si conferma la posizione già espressa nella ris. min. n. 9/174/1991, che è stata condivisa anche dalla Cassazione: in pratica si collega l’imputazione temporale dei componenti reddituali che emergono da sentenza al deposito della stessa e si estende tale soluzione anche alle ipotesi di sottoscrizione di lodi arbitrali (tale posizione è stata successivamente richiamata dall’Agenzia in più occasioni: cfr. le Risposte alle istanze di interpello n. 823 del 17 dicembre 2021 e n. 264 del 21 marzo 2023). E guardando ai principi OIC, di cui si è detto, tale esito trova conferma sul piano testuale: una sentenza che riconosca un diritto di credito verso un terzo e che sia dotata di efficacia esecutiva integra gli estremi di quella obbligazione cui i principi contabili subordinano l’imputazione a periodo di componenti reddituali. Del resto, la stessa Agenzia delle Entrate ha precisato in più occasioni che i principi contabili in discorso non richiedono il requisito della «immodificabilità dell’obbligazione sorta» (cfr. in tal senso Consulenza n. 9/2020 cit., nello stesso senso si vedano le Risposte alle istanze di interpello n. 823/2021 e n. 264/2023 citate).

Anche l’ulteriore passaggio argomentativo della Corte di Cassazione circa gli effetti della inibitoria sembra conforme alle indicazioni ricavabili dai principi OIC. A tal proposito si può richiamare quanto affermato dalla dottrina, per cui con l’attivazione dei principi OIC vengono ridefiniti i requisiti della certezza e della obbiettiva determinabilità in favore di una «valutazione realistica e attendibile del passaggio di rischi e benefici e delle probabilità di incasso del corrispettivo» (così, Crovato F., Il principio di competenza, cit., 181). E in ogni caso deve tenersi conto che la stessa Agenzia ha precisato che in virtù del principio di prevalenza della sostanza sulla forma il momento di imputazione segnato dal deposito della sentenza potrebbe essere traslato in esercizi successivi (cfr. Consulenza n. 9/2020 cit.). Non è difficile ammettere, quindi, che ove, ad esempio, la probabile fondatezza dell’appello abbia determinato la concessione della inibitoria potrà escludersi l’imputazione a periodo del relativo componente reddituale.

Considerazioni analoghe possono farsi mutatis mutandis guardando ai principi contabili internazionali. Viene in rilievo, in particolare, lo IAS 37 che al paragrafo n. 32 prevede quanto segue: «le attività potenziali solitamente sorgono in seguito al verificarsi di fatti non pianificati o non previsti che rendono possibile per l’entità un beneficio economico. Un esempio può essere un ricorso che l’entità sta intentando attraverso procedure legali e il cui risultato è incerto». Ma va considerato anche il successivo paragrafo 33, il quale, dopo aver escluso che i ricavi potenziali debbano essere rilevati, prevede che laddove l’esistenza di essi sia «virtualmente certa» la rilevazione possa essere disposta. E sembra difficile escludere la “virtuale certezza” di un credito riconosciuto da una sentenza dotata di efficacia esecutiva. Anche qui può trovare, dunque, conferma la posizione della Cassazione.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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