Dovere di collaborazione, preclusioni istruttorie e (confini oggettivi del) diritto al silenzio nelle indagini amministrative tributarie. Prime riflessioni su Corte cost. n. 137/2025

Di Roberto Iaia -

Abstract (*)

Con la sentenza n. 137 del 28 luglio 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’infondatezza delle questioni di costituzionalità, relative alle preclusioni istruttorie, sancite dall’art. 32, comma 4 del D.P.R. n. 600/1973, con una interpretazione della norma allineata al diritto al silenzio, quale articolazione del diritto “inviolabile” alla difesa (art. 24, comma 2 Cost.) e riconducibile al principio del “giusto processo” (artt. 6 CEDU e 14, par. 3, lett. g) del “Patto di New York”).

La pronuncia dischiude prospettive di particolare interesse in ordine alla definizione del contenuto e dei confini oggettivi della garanzia in rapporto al dovere di collaborazione del destinatario di richieste istruttorie nell’ambito dei procedimenti amministrativi di accertamento tributario.

The Duty to Cooperate, Evidential Preclusions, and (the Objective Boundaries of) the Right to Silence in Tax Administrative Proceedings: Initial Reflections on Constitutional Court Judgment No. 137/2025 – In its judgment no. 137 on 28th July 2025, the Constitutional Court declared the unmeritorious nature of the constitutional challenges about the evidential preclusions stipulated by Article 32, par. 4 of Presidential Decree no. 600/1973. This ruling involved an interpretation of the provision that aligns with the right to silence, conceptualised as a fundamental component of the “inviolable” right to defence (Article 24, par. 2 of the Constitution) and referable to the principle of “fair trial” (Article 6 ECHR and Article 14, par. 3(g) of the International Covenant on Civil and Political Rights).

This pronouncement opens up particularly interesting avenues regarding the definition of the content and objective boundaries of this guarantee, especially in relation to the duty to cooperate incumbent upon the recipient of investigative requests within the sphere of tax assessment administrative proceedings.

Sommario: 1. La fattispecie concreta e le questioni di costituzionalità. – 2. Il diritto al silenzio nelle fonti internazionali. – 3. I “passanti” costituzionali. – 4. Il precedente di Corte cost. n. 84/2021 e la sentenza della Corte. – 5. Lo status quo dell’ordinamento italiano. – 6. I confini oggettivi della garanzia e la De Legé doctrine.

1. La sentenza della Corte costituzionale n. 137 del 28 luglio 2025 risulta di peculiare rilievo (sulla pronuncia, Fransoni G., Inammissibilità di atti. La Consulta non risolve il tema proporzionalità, in “il Sole24Ore”, 30 luglio 2025, 27).

Da varie angolazioni, ha esaminato la controversa disciplina dell’art. 32, commi 4-5 del D.P.R. n. 600/1973, la quale, al comma 4, preclude l’utilizzo, nel corso del procedimento amministrativo di accertamento e dell’eventuale processo, di dati, notizie, informazioni e documenti favorevoli non tempestivamente addotti e/o prodotti all’autorità fiscale, dal destinatario dei provvedimenti istruttori, indicati dal comma 1 della medesima disposizione (inviti a comparire, a produrre documenti, questionari, etc.; v., ex multis, Vanz G., Commento all’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, in AA.VV., Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di F. Moschetti, Padova, 2011, II, 179 ss.; Amatucci F., Il superamento delle preclusioni probatorie e l’ampliamento del diritto di difesa del contribuente, in Riv. trim. dir. trib., 2014, 275 ss.; Marcheselli A., Omessa risposta ai questionari: la sanzione della preclusione probatoria deve essere giustificata e proporzionata, in Corr. trib., 2014, 1695 ss.).

In particolare, la fattispecie concreta, oggetto dell’ordinanza di rimessione della Corte di giustizia tributaria di I grado di Roma, sez. XXVIII, 8 luglio 2024, n. 165 (in Gazz. Uff., 18 settembre 2024, n. 38), riguardava la ripresa erariale di un reddito diverso, consistente nella plusvalenza ritratta dalla cessione di un terreno edificabile (art. 67, comma 1, lett. b) del D.P.R. n. 917/1986; sull’ordinanza, Cociani S.F., Il diritto del contribuente a non collaborare alla propria incolpazione all’esame della Corte Costituzionale. Noterelle a Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma, Ord., 8 luglio 2024, in Tax News, 11 giugno 2025).

L’Agenzia delle Entrate notificava alla contribuente un invito a produrre documenti (art. 32, comma 1, n. 3) del D.P.R. n. 600 cit.), relativi a “eventuali spese sostenute, incrementative del valore del terreno edificabile e/o perizia giurata e copia degli atti di provenienza del medesimo immobile” (così, l’ord. cit., § 1). A seguito del mancato riscontro da parte dell’interessata, l’Ufficio fiscale pretendeva l’IRPEF sulla plusvalenza, commisurata quale (mera) differenza fra corrispettivo di cessione e costo di acquisto.

Con il ricorso introduttivo del giudizio di prime cure, la contribuente produceva i documenti dimostrativi del sostenimento di costi incrementativi del valore del cespite, a decurtazione della plusvalenza, oggetto della richiesta istruttoria erariale, disattesa dalla stessa parte privata nella fase pre-accertativa.

In sede contenziosa, il fisco eccepiva l’inutilizzabilità di tali documenti, ai sensi dell’art. 32, comma 4 del D.P.R. n. 600/1973, in mancanza della dimostrazione dell’esistenza di un impedimento oggettivo ed incolpevole al tempestivo e completo deposito della documentazione richiesta (comma 5).

La quaestio juris sollecitava la Corte capitolina alla redazione di una estesissima ordinanza di promovimento del giudizio di costituzionalità afferente alle preclusioni dell’art. 32, “nella parte in cui dispone la non utilizzabilità in giudizio degli elementi informativi che, in sede procedimentale, l’amministrazione finanziaria ha richiesto al contribuente e che questi non ha esibito o trasmesso” (Corte cost., 28 luglio 2025, n. 137, § 1 del “Ritenuto in fatto”).

Il presente contributo mira ad offrire una prima analisi della pronuncia, focalizzando l’attenzione in ordine al delicatissimo rapporto fra dovere di collaborazione e diritto al silenzio del soggetto compulsato da provvedimenti istruttori tributari (fra i primi contributi sul tema, del Federico L., Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea. Contributo allo studio della prospettiva italiana, Milano, 2010, passim e in I principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in materia tributaria, in AA.VV., Studi in onore di E. De Mita, Napoli, 2012, I, 269 ss.; Marcheselli A., p. es. in Il “giusto procedimento” tributario. Principi e discipline, Padova, 2012, 415 ss.; Marchese S., Diritti fondamentali europei e diritto tributario dopo il Trattato di Lisbona, in Dir. prat. trib., 2012, I, 241 ss.; Iaia R., Le garanzie del contribuente nel sub-procedimento innestato dal questionario, in GT-Riv.giur.trib., 2013, 478 ss.).

In particolare, verranno individuati i fondamenti e il raggio operativo della garanzia, in rapporto alla questioni di costituzionalità che hanno superato il vaglio processuale di ammissibilità del c.d. Giudice delle leggi.

Peculiare rilievo presenterà la definizione dei confini del diritto al silenzio, in rapporto al dovere di collaborazione del destinatario di provvedimenti istruttori dell’autorità fiscale, presidiato da svariate disposizioni che contemplano misure afflittive in caso di mancata, inesatta o intempestiva collaborazione dell’interessato (v., anzitutto, artt. 11 e 9, comma 2 del D.Lgs. n. 471/1997).

Si tratta di uno snodo molto problematico, alla ricerca di un “equo contemperamento fra gli interessi in gioco”. Da un lato, rileva l’interesse all’esatto e tempestivo accertamento dei tributi nell’orizzonte dell’intercettazione della specifica manifestazione della attitudine alla contribuzione alle spese pubbliche, palesata dalla fattispecie concreta, quale primario dovere di solidarietà sociale (artt. 53, comma 1 e 2 Cost.: cfr. Corte cost., 25 luglio 2000, n. 351). Dall’altro, entra in gioco il diritto “inviolabile” alla difesa del soggetto indagato (art. 24, comma 2 Cost.), di cui il right to silence rappresenta peculiare articolazione, come rilevato dalla stessa pronuncia in commento.

Difatti, il soggetto attinto da richieste investigative potrebbe trovarsi di fronte dell’alternativa fra adempiere al proprio obbligo collaborativo e, così, auto-accusarsi di violazioni amministrative tributarie o, al contrario, non ottemperarvi per non auto-incolparsi, esponendosi in tal modo a una violazione del dovere di cooperazione, colpito (anche) con le preclusioni che ci occupano.

2. La sentenza della Corte muove dalla premessa che le preclusioni rivestano natura para-afflittiva, di “sanzione impropria” o “anomala” (v., p. es., Marcheselli A, Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali, cit., ivi, 541 ss.).

Si tratta di una controversa categoria dogmatica che identifica “ ‘situazioni di svantaggio’ (…) non (…) annoverabili tra le sanzioni propriamente dette, in quanto non edittalmente previste quale conseguenza della violazione di una norma tributaria”, che si traducono in una “penalizzazione del contribuente comunque riconducibile ad una tale violazione” (v., p. es., Cass., sez. trib., 17 dicembre 2014, n. 26475, che riprende il pensiero di De Mita E., voce Capacità contributiva, in Dig. disc. priv., sez. comm., 1987, II, 454 ss., spec. 460-461; sulle sanzioni improprie, del Federico L., Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 276 ss. e in Le sanzioni improprie nel sistema tributario, in Riv. dir. trib., 2014, I, 693 ss.; Marcheselli A., Le attività illecite tra fisco e sanzione, Padova, 2001, 310 ss.).

Lo stesso può affermarsi anche per le analoghe preclusioni sancite dalla disciplina delle verifiche in loco (art. 52, commi 5 e 10 del D.P.R. n. 633/1972 in ambito IVA, applicabile anche per l’accertamento delle imposte sui redditi, in base all’art. 33, comma 1 del D.P.R. n. 600/1973).

Oltre all’art. 24, comma 2 Cost., fra le questioni che hanno superato il vaglio di ammissibilità, merita speciale attenzione quella, assolutamente cardinale, afferente alla rilevanza dell’art. 6 CEDU, che enuncia il principio del “giusto processo” (“fair trial”), come declinato dall’esegesi della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU). In proposito, si impongono alcune riflessioni, onde valutare correttamente la soluzione adottata dalla pronuncia della Corte costituzionale qui in esame.

Con la nota sentenza Ferrazzini c. Italia, la Corte di Strasburgo ha concluso che la materia fiscale costituisce parte fondamentale delle prerogative delle pubbliche autorità degli Stati contraenti della CEDU, in relazione alla quale la natura gius-pubblicistica del rapporto fra il contribuente e la comunità statale nazionale di riferimento rimane predominante. Tanto non ne consentirebbe la sussunzione all’art. 6 CEDU, giacché non riguarderebbe “controversie (…) di carattere civile”, alle quali la norma convenzionale allude (Corte EDU, 12 luglio 2001, n. 44759/98, Ferrazzini c. Italia, § 29; v. anche Corte EDU, 19 ottobre 2023, n. 35648/10, Locascia e a. c. Italia, § 154).

Da qui, si dovrebbe concludere de plano per una esclusione in thesi del diritto al silenzio, quale guarentigia del “giusto processo”, se riferita alla materia tributaria.

Non si entra nel merito delle riflessioni critiche che sono state mosse dalla letteratura internazionale e italiana su tale posizione (in proposito, si rinvia, p. es., a Baker P., Should Article 6 ECHR (Civil) Apply to Tax Proceedings?, nonché in The Decision in Ferrazzini: Time to Reconsider the Application of the European Convention on Human Rights to Tax Matters, ambedue in Intertax, 2001, 205 ss. e 360 ss.; Greggi M., Giusto processo e Diritto tributario europeo: applicazione e limiti del principio (il caso Ferrazzini), in Riv. dir., trib., 2002, II, 529 ss.).

Piuttosto, si impone l’assorbente considerazione che la stessa giurisprudenza della Corte EDU permette di valicare la Ferrazzini doctrine proprio in riferimento al diritto al silenzio, oggetto della pronuncia che ci occupa.

La garanzia è tradizionalmente accreditata in riferimento alle indagini e ai processi penali ed è desunta dal principio del “fair trial” dell’art. 6, par. 1 CEDU e/o, in seno ad esso, da quella esplicazione del principio costituita dalla presunzione di innocenza del par. 2, sebbene né l’una né l’altra previsione contemplino apertis verbis il diritto a non auto-accusarsi (per un recentissimo es., Corte EDU, 17 luglio 2025, n. 46673/18, Opalenko c. Ucraina, § 34).

Ciò precisato, da tempo, i giudici di Strasburgo valorizzano un accostamento delle garanzie proprie dell’area formalmente penalistica alle sanzioni amministrative (pure tributarie), dotate di natura penale. Il riferimento è ai noti Engel e Bendenoun criteria, che, rispettivamente, accreditano rilievo a profili quali, tra l’altro, la natura e la severità della sanzione e, proprio con riferimento all’area della fiscalità, l’esistenza di previsioni destinate a categorie generali di soggetti e dotate di carattere dissuasivo e repressivo di illeciti (Corte EDU, 8 giugno 1976, nn. 5100/71 e a., Engel e a. c. Paesi Bassi, §§ 81 ss.; Corte EDU, 24 febbraio 1994, n. 12547/86, Bendenoun c. Francia, § 47).

Di solito, si afferma che l’estensione delle garanzie penalistiche ai procedimenti amministrativi, attinenti a violazioni amministrative, nei confini precisati, sarebbe funzionale a contrastare (le conseguenze del-)la c.d. “truffa delle etichette”. I “processi di decriminalizzazione avviati da alcuni Stati aderenti” alla CEDU, non possono provocare“l’effetto di sottrarre gli illeciti, così depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dalla” stessa convenzione (Corte cost., 11 maggio 2017, n. 109, § 3.1).

Appare esservi molto di più a fondamento di simile, consolidato approccio. Affiora, nitidamente, la presa d’atto di una comune morfologia funzionale tra indagini penali e quelle mirate all’accertamento di illeciti amministrativi, ambedue orientate alla ricerca della “verità” di atti e/o di fatti normativamente rilevanti.

Per conseguire tale obiettivo, le autorità investigative sono normativamente dotate di poteri d’imperio, che si esplicano in provvedimenti amministrativi, incisivi sulla sfera giuridica del destinatario, giacché gli impongono ex lege prestazioni personali (art. 23 Cost.), che si riverberano in obblighi di dare, di facere o di pati (Vanz G., Commento all’art. 32, cit., ivi).

Sono tali affinità strutturali e funzionali che si collocano alla base della dilatazione delle tutele penalistiche anche ai procedimenti amministrativi sanzionatori (per considerazioni similari, dalla prospettiva italiana, v., p. es., Muleo S., Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, 113 ss. e 402; Basilavecchia M., voce Accertamento (dir. trib.), in Diz. dir. pubbl., dir. da S. Cassese, Milano, 2006, I, 45 ss., in part. 50).

In senso contrario, si potrebbe obiettare che la stessa Corte di Strasburgo ha ragionato più volte dell’esistenza di un “nocciolo duro” (“hard core”) di garanzie penalistiche che non si trasmetterebbero, tout court e necessariamente, con la stessa estensione e intensità alle sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale (cfr., ex multis, Corte EDU, 23 novembre 2006, n. 73053/01, Jussila c. Finlandia, § 43; Corte EDU, 4 ottobre 2022, n. 58342/15, De Legé c. Paesi Bassi, § 62).

Tuttavia, la nozione di “nocciolo duro” appare di oscura connotazione, di incerta delimitazione (Andrijauskaitè A., Exploring the penumbra of punishment under the ECHR, in New Journal of European Criminal Law, 2019, 1 ss.; Van Drooghenbroeck S. – Rizcallah C., The ECHR and the Essence of Fundamental Rights: Searching for Sugar in Hot Milk?, in German Law Journal, 2019, 904 ss.) e, in quanto tale, desta perplessità sul piano della certezza del diritto (Weyembergh A. – Joncheray N., Punitive Administrative Sanctions and Procedural Safe-guards: A Blurred Picture That Needs to Be Addressed, in New Journal of European Criminal Law, 2016, 190 ss.).

Di certo, ogniqualvolta la Corte EDU individua un potenziale pericolo per i diritti fondamentali, attraverso qualsiasi tipo di misura punitiva, mantiene elevato il livello di protezione, al di là della problematica questione della riferibilità o meno della misura stessa al “nocciolo duro” del diritto penale o alla fumosa area di “penombra” delle sanzioni che sarebbero, al contempo, formalmente amministrative, sostanzialmente penali, ma estranee a detto “nocciolo duro” (Andrijauskaitè A., Exploring the penumbra of punishment, cit., 10).

Proprio il case law maturato in relazione al diritto al silenzio ne offre lampante dimostrazione. Difatti, da almeno trentadue anni, la Corte riconosce l’operatività della garanzia in riferimento alle richieste istruttorie nell’ambito di procedimenti amministrativi tributari (p. es., Corte EDU, 25 febbraio 1993, n. 10828/84, Funke c. Francia; Corte EDU, 3 maggio 2001, n. 31827/96, J.B. c. Svizzera; Corte EDU, 5 aprile 2012, n. 11663/04, Chambaz c. Svizzera, sulla quale v. Piantavigna P., Il diritto del contribuente a non collaborare all’attività accertativa, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2013, II, 81 ss.; Marullo di Condojanni F., “‘Nemo tenetur se detegere’: possibili ripercussioni della recente giurisprudenza CEDU sul sistema tributario, in Riv. dir. trib., 2013, II, 26 ss. oltre alla più recente sent. De Legé c. Paesi Bassi, cit.). Pertanto, il limite del “nocciolo duro” non esclude affatto la veicolazione del right to silence all’area di nostro interesse.

Vi è di più.

In stretta correlazione con la norma convenzionale, l’ordinanza dei giudici romani si riferiva, in modo apprezzabile, all’art. 14, par. 1, lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR) del 16 dicembre 1966, in ambito ONU (c.d. “Patto di New York”), che annovera apertis verbis la garanzia “a non essere costretto a deporre contro se stesso o a confessarsi colpevole” a favore dell’“individuo accusato di un reato”.

La formula normativa è da intendersi secondo l’accezione che amplia il concetto di “criminal charge” alle violazioni amministrative “euro-penali”, alla stregua dei menzionati Engel e Bendenoun criteria, maturati dalla Corte EDU in rapporto all’art. 6 CEDU (quale es. delle correlazioni fra il “Patto di New York” e la CEDU, cfr. Corte cost., 30 luglio 1997, n. 288, § 7; riguardo al diritto al silenzio, Corte cost., 30 aprile 2021, n. 84, § 3.5, su cui, v. amplius, infra, il par. seg.).

Da questo punto di vista, non è ancora tutto.

Vi è ragione per escludere che tali disposizioni internazionali siano confinate ai soli procedimenti amministrativi istruttori attinenti a violazioni amministrative, sostanzialmente penali.

Difatti, nella nostra legislazione, almeno per gli illeciti amministrativi sostanziali, l’accertamento della violazione è inscindibile da quello del tributo cui la violazione stessa si riferisce (v., p. es., Marchese S., Diritti fondamentali europei, cit., ivi, 330; Iaia R., Le garanzie del contribuente, cit., ivi, 482; Piantavigna P., Il diritto del contribuente a non collaborare, cit., ivi, 84; Marcheselli A., Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali, cit., ivi, 536, nt. 26).

Si pensi, per esempio, alle violazioni di omessa o infedele dichiarazione ai fini delle imposte dirette (art. 1 del D.Lgs. n. 471/1997). Nel procedimento amministrativo, mirato ad appurare l’eventuale perfezionamento di tali illeciti, è (sul piano ontologico, prima e oltre che giuridico) letteralmente impossibile separarne l’accertamento da quello del relativo tributo, sia per l’an del riscontro della violazione stessa sia per il quantum di determinazione della misura afflittiva, perché calibrata sull’“ammontare delle imposte dovute” (comma 1), “della maggior imposta dovuta” (comma 2).

D’altronde, ne ha preso atto la stessa Corte EDU, in svariate occasioni, proprio in rapporto all’art. 6 CEDU. “Non è infrequente che le procedure combinino elementi diversi e potrebbe non essere possibile separare le parti del procedimento che determinano un’ ‘accusa penale’ da quelle che non lo determinano. La Corte deve pertanto considerare il procedimento in questione nella misura in cui ha determinato un’ ‘accusa penale’ a carico del ricorrente, sebbene tale considerazione implichi necessariamente, in una certa misura, la valutazione ‘pura’ dell’imposta” (così, p. es., Corte EDU, sent. Jussila cit., § 45, trad. d. a.).

Pertanto, appare corretto affermare che l’applicabilità della garanzia del “giusto processo” alla materia tributaria, in riferimento al diritto al silenzio, sia uscita dalla porta, per effetto della Ferrazzini doctrine, ma sia rientrata da una finestra grande quanto la porta da cui era uscita, movendo dalla consolidata applicazione che la Corte EDU ha fatto degli Engel e Bendenoun criteria in relazione al right to silence.

3. Tanto chiarito, i riflessi che ne scaturiscono appaiono significativi.

Con tale esegesi ed estensione, le norme internazionali si irradiano nel nostro ordinamento giacché integrano il contenuto del parametro dell’art. 117, comma 1 Cost. Difatti, gli artt. 6 CEDU e 14, par. 3, lett. g) del “Patto di New York” scolpiscono “obblighi internazionali”, che vincolano la “potestà legislativa” dello Stato (Corte cost., 24 ottobre 2007, nn. 348-349, commentata da Cartabia M., Le sentenze “gemelle”: diritti fondamentali, fonti, giudici ([Osservazione a] Corte cost., sent., 24 ottobre 2007 n. 349), in Giur. cost., 2007, 3564 ss.),

Al parametro dell’art. 117, comma 1 Cost., il giudice a quo avrebbe potuto e dovuto aggiungere un puntuale e argomentato riferimento all’art. 10 Cost. (invece, solo vagamente accennato a tutt’altro proposito, nell’ordinanza di rimessione). Difatti, anche e proprio in riferimento al right to silence nell’alveo dell’istruttoria tributaria, la Corte EDU ha ravvisato nell’art. 6 CEDU il precipitato di una preesistente norma internazionale generalmente riconosciuta, al cuore della nozione di “giusto processo” (p. es., sent. Chambaz c. Svizzera, cit., § 52). La garanzia è, dunque, oggetto di una consuetudine internazionale che l’art. 6 CEDU avrebbe semplicemente “fotografato”, peraltro neppure in modo esplicito, in seno al proprio articolato.

Ora, l’art. 10, comma 1 Cost. prevede che “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” e opera quale vero e proprio “trasformatore permanente” del nostro sistema domestico (secondo la felice, celebre espressione di Perassi T., La Costituzione italiana e il diritto internazionale, Milano, 1952, anche in Scritti giuridici, Milano, 1958, 430).

Pertanto, l’esistenza di un diritto internazionale consuetudinario al silenzio, riferibile anche ai procedimenti amministrativi sanzionatori in materia tributaria, come affermato dalla Corte EDU, provoca già di per sé l’automatico adeguamento dell’ordinamento (tributario) italiano e, per l’effetto, il recepimento di quella norma consuetudinaria internazionale quale fattispecie integrativa (del parametro) dell’art. 10, comma 1 Cost. esattamente come l’art. 6 CEDU integra l’art. 117, comma 1 Cost.

Tanto precisato, passiamo ad analizzare le statuizioni della Corte costituzionale.

4. In materia di diritto al silenzio nei procedimenti amministrativi sanzionatori, il precedente della Corte costituzionale più rilevante è senz’altro quello oggetto della nota pronuncia del 30 aprile 2021, n. 84, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del D.Lgs. n. 58/1998 (c.d. Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), relativo all’accertamento di fattispecie di market abuse, “nella parte in cui” la norma “si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”.

Dopo i primi, pionieristici contributi del decennio scorso (§ 1), la decisione del 2021 ha determinato una nuova attenzione della letteratura tributaristica nazionale sul tema (v., p. es., Marcheselli A., Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali, cit., ivi; Giovannini A., Sui principi del diritto al silenzio in diritto sanzionatorio tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2022, 235 ss.; Perrone A., Il diritto al silenzio, riconosciuto dalla Consulta negli illeciti finanziari, rileva in ambito fiscale?, in Giur. comm., 2022, II, 107 ss.; Marinello A., Diritto al silenzio e sistema tributario: il processo di osmosi tra Corti europee e Corti nazionali innalza lo standard di tutela del contribuente, in Dir. prat. trib. internaz., 2022, 629 ss.; Cociani S. F., Sul diritto del contribuente al silenzio e a non cooperare alla propria incolpazione. Dal giusto processo al giusto procedimento?, in Riv. trim. dir. trib., 2022, 419 ss. e in Silenzio del contribuente e accertamento del fatto controverso nel processo tributario, in Riv. dir. trib., 2024, I, 127 ss.)

Tuttavia, la pronuncia, per quanto pregevole, avrebbe dovuto assecondare una conclusione più equilibrata e affermare che la norma non prevedeva, ma non escludeva un diritto al silenzio e, da qui, additare un’interpretazione conforme nel senso dell’applicabilità della sanzione ivi prevista, salva l’ipotesi in cui l’adempimento del dovere collaborativo comportasse l’ammissione di una violazione amministrativa (ed “euro-penale”) da parte del soggetto indagato.

Difatti, è consolidato insegnamento quello che ravvisa nella declaratoria di incostituzionalità una extrema ratio, cui ricorrere solo ed esclusivamente qualora l’esperimento di un tentativo di interpretazione conforme non sortisca esito positivo (Sorrenti G., L’interpretazione conforme a Costituzione, Milano, 2006). Ne è chiaramente sotteso un “principio della conservazione dei valori giuridici”, “degli atti giuridici” normativi (v., p. es., Corte cost., 28 marzo 1996, n. 89; Corte cost., 27 luglio 1992, n. 368; Corte cost., 19 dicembre 1984, n. 292; in materia tributaria, v. Corte cost., 31 gennaio 2023, n. 10, in tema di indagini finanziarie, di cui all’art. 32, comma 1, n. 2) del D.P.R. n. 600/1973).

D’altronde, in apicibus, questo era stato il condivisibile percorso seguito dalla Corte di giustizia dell’Unione nella stessa controversia da cui ha preso le mosse la sentenza n. 84/2021 della Corte costituzionale. In particolare, i giudici sovranazionali avevano concluso proprio nel senso che la corrispondente disciplina europea di diritto secondario (artt. 14, par. 3 della Direttiva 2003/6/CE e 30, par. 1, lett. b), del Reg. (UE) n. 596/2014), alla base di quella domestica, dovesse essere letta in modo conforme al diritto al silenzio, di rango sistematicamente primario, siccome riconducibile agli artt. 47 e 48 della “Carta dei diritti fondamentali” (c.d. “Carta di Nizza”) che riflettono le garanzie dell’art. 6 CEDU.

Anche l’ordinamento europeo, infatti, conosce la necessità della ricerca di una interpretazione conforme prima di dichiarare la “invalidità” di norme di diritto secondario rispetto a quelle primarie dell’Unione (Corte di giustizia UE, 2 febbraio 2021, causa C‑481/19, DB c. Consob, §§ 50 ss.; sulla decisione, Ciarcia A. R., Ancora sul diritto al silenzio (brevi note alla luce della recente sentenza della Corte di giustizia UE, in Dir. prat. trib. internaz., 2021, 941 ss.; Lovisolo A., Il “diritto al silenzio”, riconosciuto in sede comunitaria, e i suoi effetti in materia tributaria nazionale, con particolare riferimento alla preclusione di una successiva produzione documentale, in Dir. prat. trib., 2022, I, 825 ss.).

Ora, con la sentenza n. 137 in esame, la Corte ha seguito quest’ultimo, condivisibile approccio. L’art. 32, comma 4 del D.P.R. n. 600/1973 non è incostituzionale in relazione a tale specifico profilo, ma la “norma” (ossia la disposizione come interpretata) deve allinearsi ai principi costituzionali (artt. 24, comma 2, 111 e 117, comma 1 Cost.), arricchiti da quelli internazionali, e, così, esclude elementi auto-accusatori dal raggio operativo delle preclusioni a carico del destinatario delle richieste istruttorie (sul rapporto fra la norma ordinaria e la garanzia, Marcheselli A., Il diritto al silenzio, cit., ivi, 540 ss.; Lovisolo A., Il “diritto al silenzio”, cit., ivi, 833 ss.; Cociani S. F., Sul diritto del contribuente al silenzio, cit., ivi, 440-441 e in Silenzio del contribuente, cit., ivi, 136).

Pertanto, in relazione al diritto al silenzio, la sentenza delimita un nuovo e più circoscritto perimetro della preclusione che, così, riguarderebbe la ritardata produzione di elementi istruttori interamente favorevoli. Tali sono quelli ai quali si riferisce il caso oggetto della cognizione del giudice rimettente, consistenti in documenti dimostrativi di costi che avrebbero ridotto l’entità della plusvalenza imponibile e, dunque, dell’imposta dovuta per legge.

In generale, se la garanzia opera per documenti “misti”, ossia sia favorevoli che sfavorevoli, a fortiori si impone per quelli totalmente sfavorevoli.

Vi è di più.

Se l’esito, cui la Corte è approdata, riguarda “sanzioni improprie” quali quelle recate da norme istitutive di preclusioni istruttorie, deve a fortiori (e anzitutto) riguardare pure le disposizioni che statuiscono “sanzioni proprie” per l’inottemperanza all’obbligo di collaborazione (in primis, i citt. artt. 11 e 9, comma 2 del D. Lgs. n. 471/1997).

In altri termini, queste devono essere interpretate nel senso di escludere conseguenze afflittive, in caso di esercizio del diritto al silenzio, ove l’adempimento del dovere comportasse l’ammissione di responsabilità dell’obbligato, per violazioni amministrative di natura sostanzialmente “euro-penale” (Lovisolo A., Il “diritto al silenzio”, cit., ivi, 836-837).

Così, ad esempio, a seguito di un invito a comparire dinanzi all’autorità fiscale (artt. 32, comma 1, n. 2) del D.P.R. n. 600/1973 e 52, comma 2, n. 2) del D.P.R. n. 633/1972), il destinatario potrebbe fisiologicamente rifiutarsi di rendere risposte auto-accusatorie, senza incorrere (non solo in preclusioni, ma anche) nell’irrogazione di sanzioni amministrative per la mancata collaborazione.

5. La portata e i riflessi dell’affermazione della Corte costituzionale in ordine al diritto al silenzio assumono ancora più rilievo a fronte di un quadro d’insieme, di certo tutt’altro che confortante in seno all’ordinamento tributario italiano.

La riforma del c.d. Statuto dei diritti del contribuente, ad opera, del D.Lgs. n. 219/2023, ha avuto il pregio di ampliare i presidi di garanzia e di definire in modo più puntuale quelli già esistenti. Si è persa probabilmente l’occasione almeno per un riferimento ricognitivo esplicito circa l’esistenza del diritto al silenzio, anzitutto in seno al procedimento amministrativo di accertamento, quale contrappeso e possibile limite del dovere di collaborazione.

Tuttavia, a ben vedere, sono comunque ravvisabili disposizioni normative ordinarie su cui la garanzia riposa anche nel nostro ambito disciplinare. Si allude, segnatamente, agli artt. 75, comma 1 del D.P.R. n. 633/1972 e 70, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973, i quali rinviano, fra l’altro, al c.p.p. “in materia di accertamento delle violazioni e di sanzioni” ai fini, rispettivamente, dell’IVA e delle imposte reddituali, “per quanto non diversamente disposto” dagli stessi testi normativi (Muleo S., Contributo allo studio, cit., 118).

Il rinvio al c.p.p. appare, quantomeno, sintomatico della ricordata concezione dell’accertamento delle violazioni amministrative tributarie in termini affini a quella propria delle indagini penali, sulla base delle stesse coordinate sistematiche, sottese alla prima affermazione della Engel doctrine di pochi anni più tardi.

Si ritiene che, già de jure condito, tali disposizioni autorizzassero e autorizzino l’ingresso di norme processual-penalistiche attuative del right to silence, a partire dalla c.d. “triplice informativa all’Americana” dell’art. 64, comma 3 c.p.p., in apertura dell’interrogatorio dell’indagato, che ben si potrebbero attagliare alla comparizione personale, su invito erariale, nel procedimento amministrativo di accertamento tributario (artt. 32, comma 1, n. 2) del D.P.R. n. 600/1973 e 51, comma 2, n. 2) del D.P.R. n. 633/1972).

Tuttavia, la giurisprudenza è approdata a una sorta di interpretazione abrogativa di dette previsioni, in contrasto con il principio ermeneutico di conservazione delle norme giuridiche, attraverso il commodus discessus di mere, apodittiche (e, dunque, non puntualmente dimostrate) affermazioni circa una non meglio identificata incompatibilità fra le norme processual-penalistiche e quelle dell’accertamento di imposte autonomamente regolate (p. es., Cass., sez. trib., 31 agosto 2022, n. 25560, § 7.2).

Al contrario, in seno a tali atti normativi (D.P.R. nn. 600/1973 e 633/1972), non si ravvisa alcuna disposizione ostativa alla descritta etero-integrazione con le previsioni del c.p.p.

Se non bastasse, da un opposto crinale di analisi, è da almeno cinquant’anni che la stessa giurisprudenza tributaristica di legittimità afferma che le dichiarazioni auto-accusatorie rese da un soggetto, non assistito da un difensore, nell’ambito di controlli tributari, avrebbero rango di confessione stragiudiziale e, dunque, di prova legale (artt. 2735 e 2733, comma 2 c.c.), idonea, di per sé sola, a supportare contestazioni di violazioni tributarie amministrative (v., p. es., Cass., sez. I, 9 giugno 1990, n. 5628, e, da ultimo, Cass., sez. trib., 23 giugno 2025, n. 16707, § 1.1).

Si tratta di posizioni di retroguardia, proprie di una concezione esclusivamente autoritativa del rapporto tra autorità fiscali e soggetti indagati, molto radicate quanto assai fragili e in aperto contrasto, anzitutto, con l’operatività della garanzia, alla luce delle illustrate coordinate sovranazionali.

A quanto consta, una sola, rilevante pronuncia di legittimità ha riconosciuto l’esistenza del diritto al silenzio in capo alle persone fisiche, senza addentrarsi in particolari approfondimenti e, da tale riconoscimento, ne ha negato comunque l’applicazione alle dichiarazioni del legale rappresentante in riferimento a illeciti amministrativi tributari, ascritti alla società dal medesimo rappresentata (Cass., sez. trib., 1° marzo 2022, n. 6786; Marinello A., I primi echi del diritto al silenzio in materia fiscale. La Corte di Cassazione riconosce in via di principio il nemo tenetur de detegere nei procedimenti tributari, in Riv. tel. dir. trib., 2022, 1, III, 109 ss.).

Inoltre, l’esegesi amministrativa appare tutta protesa all’affermazione del (pur fondamentale e imprescidibile) dovere di collaborazione senza adeguatamente considerarne la possibile interazione dialettica con il right to silence. Pertanto, la pronuncia in commento è sicuramente da salutare con favore dal momento che segna un significativo passo in avanti da questo punto di vista. Tuttavia, sollecita talune, ulteriori osservazioni che passiamo a considerare.

6. Un aspetto di notevole rilievo riguarda l’individuazione dei possibili confini del diritto al silenzio.

In proposito, è spiccata la tendenza a valorizzare enfaticamente una sorta di “Europa di soli diritti” contrapposta a un “Italia di soli doveri” se non anche di vessazioni. É un approccio tanto diffuso quanto scientificamente errato, sul piano del metodo e dei contenuti.

Nessuna situazione giuridica soggettiva è illimitata. Se si afferma (come è corretto affermare) un diritto al silenzio, riconducibile alla CEDU (oltre che alla Costituzione a all’ordinamento europeo ratione materiae), è doveroso “aprire gli occhi” anche verso i limiti che la stessa elaborazione sovranazionale ha indicato in proposito.

Detto altrimenti, in materia, come non esistono doveri senza confini, non esistono diritti senza confini tanto in Italia come in Europa. D’altronde, non può e non poteva che essere così, dato che le Carte sovranazionali dei diritti non nascono improvvisamente da una No Man’s Land, ma affondano le proprie radici nelle tradizioni costituzionali degli Stati nazionali. Nel sistema multilivello, così costruito, è ravvisabile una reciproca alimentazione nella definizione del contenuto di doveri e garanzie del singolo nei rapporti con la pubblica autorità.

Per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti, è pacifico che l’emissione e registrazione di fatture, la cura e conservazione della contabilità in genere, la redazione e invio delle dichiarazioni tributarie, riguardino il corretto assolvimento di doveri formali e strumentali alla esatta ricostruzione della ricchezza imponibile.

Non rientrano, dunque, sotto l’egida del diritto al silenzio, il quale si innesta esclusivamente a seguito dell’avvio di controlli fiscali circa il corretto assolvimento degli obblighi tributari (formali e/o sostanziali) dell’indagato (artt. 53, comma 1 e 2 Cost.; Marcheselli A., p. es. in Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali, cit., ivi, 536 ss.; Giovannini A., Sui principi del diritto al silenzio, cit., ivi, 239 ss.; Marinello A., I primi echi del diritto al silenzio in materia fiscale, cit., ivi, 114; Cociani S. F., Sul diritto del contribuente al silenzio, cit., ivi, 435).

Insomma, la garanzia non può essere certo brandita come una sorta di generale (fonte di) “immunità” per evadere o eludere l’applicazione delle imposte e, in generale, per evitare l’adempimento doveri primari, essenziali per la stessa tenuta complessiva dei sistemi ordinamentali tributari degli Stati contraenti della convenzione (Corte EDU, 10 settembre 2002, n. 76574/01, Allen c. Regno Unito, § 1; v. anche Corte EDU, 23 marzo 2006, n. 38258/03, Van Vondel c. Paesi Bassi, § 1; Berger M., Europeanizing Self-Incrimination: the right to remain silent in the European Court of Human Rights, in Columbia Journal of European Law, 2006, 339 ss., in part. 365 e in Self-Incrimination and the European Court of Human Rights: Procedural Issues in the Enforcement of the Right to Silence, in European Human Rights Law Review, 2007, 514 ss., spec. 527 ss.).

Piuttosto, ad un secondo livello, occorre riflettere in ordine alle richieste istruttorie che, a seguito dell’innesco di un’istruttoria tributaria, riguardassero fatture, documenti contabili in genere, dichiarazioni fiscali, contratti, documenti bancari, etc.

Con la sentenza n. 137, la Corte costituzionale ha condivisibilmente escluso dalla preclusione (e, ab imis, dalla configurabilità del dovere di riscontro), dati, notizie, informazioni, documenti ove (e nella misura in cui) fossero già nel perimetro di disponibilità dell’autorità fiscale, per effetto dell’art. 6, comma 4 della L. n. 212/2000. Tanto vale per le fatture elettroniche e le dichiarazioni tributarie, proprio in quanto già nella disponibilità dell’autorità fiscale, una volta da essa telematicamente acquisite.

Lo stesso può affermarsi per atti e contratti registrati, i quali, proprio in ragione e per effetto della formalità della registrazione, ricadono senz’altro nell’orizzonte conoscitivo dell’ente accertatore.

Per la contabilità in genere, documenti bancari, contratti, non trasmessi in precedenza all’autorità fiscale, il percorso ricostruttivo appare decisamente più articolato.

In linea di principio, è innegabile che tali risultanze possano denotare un contenuto intrinsecamente accusatorio per l’indagato, come rivela proprio l’esempio riportato nella sentenza n. 137, ove include nello spettro del diritto al silenzio (e, perciò, esclude dalle preclusioni istruttorie) “un registro in cui figurassero annotazioni contra se” (§ 7.1).

Tuttavia, secondo la più recente giurisprudenza della Corte EDU, la garanzia non sarebbe fruttuosamente invocabile ove non ne fosse vulnerata la “vera essenza” (“very essence”). In particolare, non sussiste una lesione della prerogativa difensiva, a fronte di richieste puntuali e specifiche di documenti, sebbene auto-accusatori, formati in modo indipendente (“will-independent”) dalla volontà dell’indagato e/o in data anteriore rispetto alla richiesta istruttoria (“pre-existing documents”: sent. De Legé c. Paesi Bassi, cit., spec. §§ 67 ss. e 79 ss.).

La conclusione desta perplessità.

Quanto alla formazione dei documenti in modo indipendente dalla volontà dell’indagato, nasce da un contesto propriamente processual-penalistico in senso stretto e formale circa il rilievo probatorio di materiali organici dell’indagato, come frammenti di tessuto corporeo per l’esame del DNA, prelievi di sangue, etc. (per un risalente es., v. già Corte EDU, 17 dicembre 1996, n. 19187/91, Saunders c. Regno Unito, § 69).

Una volta applicato alla materia delle sanzioni amministrative tributarie, l’approccio non convince. Nel caso De Legé, i documenti accusatori, di formazione indipendente dalla volontà dell’indagato, erano estratti di conto corrente e sintesi di dossier di portafoglio bancari.

Tuttavia, si tratta di elementi istruttori (oltre che reperibili aliunde dall’ente accertatore, con facilità) potenzialmente rivelatori di illeciti amministrativi tributari. Il destinatario della richiesta investigativa, una volta da essa attinto, si trova al cospetto del rilevato dilemma se riscontrarla, auto-accusandosi, o di ignorarla, violando il dovere di riscontro, positivamente sanzionato.

Allora, non appare essere rilevante chi ha formato il documento (l’istituto di credito nel caso De Legé), ma il contenuto di esso, che diventa auto-accusatorio nel momento in cui la sua produzione viene richiesta dalla pubblica autorità (non all’istituto di credito, ma) all’indagato che, se adempisse al dovere collaborativo, ammetterebbe un proprio illecito amministrativo tributario.

Desta riserve anche il secondo limite oggettivo, quello dell’anteriorità del documento rispetto alla richiesta istruttoria, il quale nasce dall’idea che esso si sia formato prima e a prescindere da una “improper compulsion”, cui costantamente guarda il case law di Strasburgo, giacché la garanzia si innescherebbe solo a fronte di una richiesta istruttoria, il cui corretto adempimento sia presidiato da sanzioni amministrative sostanzialmente penali (v. la stessa sent. De Legé c. Paesi Bassi, cit., § 63).

Nondimeno, si tratta di un affermazione molto discutibile. Sembra fraintendere e, per altri versi, mortificare la natura difensiva della garanzia stessa. Il documento, se auto-accusatorio, lo è sempre e prescinde dalla data di sua formazione. In altre parole, di nuovo, rileva il contenuto del documento (come di ogni dato, informazione, dichiarazione dell’indagato all’ente accertatore) non certo il periodo di sua formazione rispetto al giorno di notifica della richiesta istruttoria.

Al contrario, proprio a seguito della richiesta istruttoria, l’interessato si trova pur sempre nell’alternativa di rispondere, ammettendo una violazione con la produzione di tale documento, o non rispondere, per difendersi, ma così non collaborando con l’autorità. Insomma, è sempre la classica situazione di trade-off nella quale la garanzia dovrebbe intervenire quale eccezione che comprime l’operatività della regola generale del dovere di collaborazione.

Per quanto discutibile, occorre prendere atto di tale posizione, la più recente della Corte EDU in materia tributaria, la quale, in ordine al tema dell’anteriorità storica dell’elemento istruttorio rispetto alla richiesta dell’autorità pubblica, trova pure riflessi in obiter dicta delle pronunce della Corte di giustizia e della Corte costituzionale, nella ricordata vertenza D.B. c. Consob (in termini critici, in relazione a Corte cost. n. 84/2021, Marcheselli A., p. es. in Il diritto al silenzio tra diritti fondamentali e doveri fondamentali, cit., ivi, 537-538).

Se si invoca il diritto al silenzio, sulla base (anche) della CEDU, occorre muovere dalla consapevolezza che tale diritto è attualmente limitato da confini, come quelli descritti, che non possono essere comodamente messi da parte e ignorati come se nulla fosse, per quanto non siano condivisibili.

Difatti, quando l’art. 117, comma 1 Cost. statuisce l’assoggettamento della legislazione statale italiana agli obblighi dell’ordinamento internazionale e, dunque, anche a quelli della CEDU, si riferisce alla convenzione, arricchita dal case law della Corte EDU su di essa sedimentato (Cartabia M., Le sentenze “gemelle”, cit., ivi).

Sicché, “allo stato dell’arte”, su documenti auto-accusatori anteriori e/o will-independent, l’indagato non potrebbe invocare la garanzia, stando al più recente decisum della Corte di Strasburgo. Pertanto, si ridurrebbe sostanzialmente allo jus tacendi nel corso delle comparizioni personali dell’indagato ossia al diritto al silenzio in senso stretto e proprio (Giovannini A., Sui principi del diritto al silenzio, cit., ivi, 242, pur senza richiami alla De Legé doctrine, successiva a detto contributo).

In tale circoscritto ambito, il silenzio dell’indagato comporterebbe, naturalmente, la prosecuzione e l’approfondimento dell’attività istruttoria dell’autorità fiscale alla ricerca aliunde di elementi istruttori. In altre parole, per dirla con l’art. 64, comma 3, lett. a) c.p.p., l’indagato “ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso”.

Le conseguenze sono di non lieve momento.

Si supponga che un documento bancario nella disponibilità del soggetto indagato presentasse un contenuto “misto”, ad esempio, perché sfavorevole ove rivelasse un imponibile occultato in tutto o in parte a tassazione e, dall’altro lato, favorevole, ove attestasse la percezione di un altro reddito, in misura inferiore a quanto dichiarato (ad esempio, una plusvalenza, inferiore a quella dichiarata, ritratta da una cessione immobiliare o di partecipazioni, nelle ipotesi disegnate dall’art. 67, comma 1 del D.P.R. n. 917/1986). Si consideri, altresì, il caso considerato dalla pronuncia qui commentata del registro contabile con elementi favorevoli, accompagnati da annotazioni sfavorevoli al contribuente.

Ebbene, secondo la sentenza della Corte costituzionale, tali documenti sarebbero sottratti alla preclusione proprio perché di contenuto “misto” e , nella parte sfavorevole, beneficerebbero del diritto al silenzio.

Invece, alla cartina di tornasole della giurisprudenza della Corte EDU, la conclusione non sarebbe corretta, in quanto la garanzia convenzionale non riguarda documenti preesistenti ed etero-confezionati, quali, appunto, quelli bancari e, comunque, documenti anche solo preesistenti, come le scritture contabili.

Si tratta di aspetti, pressoché trascurati in letteratura e dalla stessa sentenza, invero, anche perché non sollecitata, verso simili direzioni, dall’ordinanza di rimessione e dal caso che i giudici di merito erano e sono chiamati a decidere.

Nondimeno, dalla fattispecie concreta, la Corte costituzionale ha colto l’occasione per formulare una affermazione di principio importante che muove dal riconoscimento (dell’operatività) del diritto al silenzio in seno ai procedimenti amministrativi di controllo fiscale.

Tuttavia, così statuendo, ha trascurato di considerare i limiti della garanzia, scolpiti dalla prospettiva convenzionale, cui la stessa sentenza guarda, e che, invece, dovevano e devono essere, giocoforza, rilevati nella costante, dinamica ricerca di un problematico punto di equilibrio fra doveri primari, ma non assoluti, e diritti fondamentali, ma non illimitati, del destinatario di provvedimenti istruttori tributari.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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