EDITORIALE – San Filippo Neri ora pro nobis: la forza e il diritto nei tributi, dazi e finanza pubblica

Di Alberto Marcheselli -

I. È esperienza condivisa che il principio di autorità, nel mondo occidentale, è in grave crisi. Non si riesce più a comandare nulla, da nessuna parte. I genitori sono ostaggi dei figli, i sindaci della collettività, minoranze aggressive tendono a equivalere, o qualche volta a sopravanzare, la ragionevolezza della maggioranza delle persone miti.

Il modello “assemblea condominiale” sembra pervadere ogni livello.

Con l’unica eccezione dei cooking show, dove, per qualche strana ragione, tende ancora ad essere esaltata la brutalità dell’esercizio del potere da parte degli chef, l’autorità pare morta.

Sarebbe certamente un progresso, un grande progresso, se l’autorità bruta fosse stata sostituita dalla razionale ed evangelica condivisione di un bene comune, trasparentemente, pacificamente e democraticamente individuato.

Credo che ci siano buone ragioni per dubitare che sia così, ovunque, almeno.

E la cosa appare particolarmente nitida e grave in materia tributaria.

In effetti, il diritto tributario è singolarmente compromesso e intrecciato con rapporti di forza.

In un primo senso, fondamentale, poiché il tributo è una prestazione coattiva, qualcosa che si è costretti a pagare.

Ed è una espressione evidente del potere statuale e della forza, come risulta plasticamente evidente nella attualità, dove le aliquote (dei dazi) hanno sostituito i cannoni e le navi da guerra della politica internazionale, di aggressione o di difesa. O dove la discussione sulle aliquote della progressività ha progressivamente sostituito gli altri strumenti della lotta di classe.

Sono tutti indiscutibili progressi, rispetto a certi sanguinari strumenti del passato: sono pur sempre meglio le aliquote che le pallottole, ma strumento diverso, finalizzato agli stessi obiettivi, questo va tenuto fermo.

E, lungo la strada del progresso, sarebbe bello non perdere la bussola.

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II. Nel bilanciato disegno costituzionale la particolare forma di uso della forza immanente al tributo doveva poggiare su quattro assi portanti e interdipendenti.

Il primo, è che la spesa pubblica serve a realizzare gli obiettivi democraticamente determinati.

Il secondo, è che il tributo serve a reperire gli strumenti per sostenere la spesa pubblica.

Il terzo è che come e quanto contribuire alla spesa pubblica deve essere stabilito democraticamente.

Il quarto è che, se, come e quanto contribuire non può prescindere dal parametro, oggettivo, della effettiva ricchezza, intesa come disponibilità dei mezzi con cui pagare, tendenzialmente in modo progressivo.

In sintesi, lo Stato, per fare il bene comune, e comunemente stabilito e condiviso, determina, con la partecipazione di tutti al processo decisionale, quanto ciascuno deve pagare, in relazione alla ricchezza posseduta oggettivamente.

Con ancora maggiore sintesi, gli altri rami del diritto (e la politica) stabiliscono ciò che è bene, e il diritto tributario, procura i mezzi necessari, sulla base della oggettiva ricchezza di ciascuno.

Come a teatro, l’Autore scrive la piéce, il trovarobe trova gli arredi.

Il diritto tributario è un umile servitore del bene, con un mandato limitato dal rispetto del principio di capacità contributiva: si può spendere, in generale, quanto consentito dalla ricchezza complessiva disponibile, e, dai singoli, in rapporto a ciò che ciascuno ha, per il raggiungimento dei fini democraticamente stabiliti.

Vista dal punto di vista del contribuente, la formula si traduce in un: “devi pagare ciò che è giusto per la realizzazione del bene condiviso democraticamente”.

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III. Come si vede, o almeno i miei occhi vedono, al fenomeno tributario è estranea ogni connotazione etica: non c’è nessuna connotazione etica, perché non c’è bisogno di alcuna connotazione etica.

La regola non è “paghi perché devi essere buono” (e nemmeno “paghi perché sei stato cattivo”, perché quelle sono le sanzioni) ma, molto più umilmente e semplicemente è “stabiliamo tutti insieme cosa vogliamo ottenere e poi contribuiamo, ciascuno come può, per ottenerlo”.

I giudizi di valore, insomma, stanno prima e dopo del tributo, ma non nel tributo: stanno prima: il tributo serve a finanziare un bene democratico condiviso, e stanno dopo, all’estremo opposto: chi non paga si sta comportando male.

Nelle scienze economiche e politiche, tradizionalmente, si contrappongono due giustificazioni per il pagamento del tributo: una sarebbe il pagare perché si ottiene un vantaggio (principio del beneficio), l’altra sarebbe pagare per contribuire al gruppo e aiutare gli altri (principio di solidarietà). Una sorta di contrapposizione tra giustificazione egoistica e altruistica.

Tale contrapposizione, in realtà, è utile concettualmente e astrattamente, forse corrisponde a realtà morali e sociologiche, ma non trova, a umilissimo parer mio, alcuna cittadinanza nel disegno, quantomeno in quello originario, della Costituzione italiana.

Nella nostra Carta costituzionale tutto era magnificamente armonizzato: l’appartenenza al gruppo comporta la determinazione democratica e condivisa degli obiettivi, che costituiscono la migliore approssimazione dell’ottimo comune, nei limiti della concreta sostenibilità. A fronte di questa trasparente e democratica determinazione del bene comune scatta l’obbligo di essere solidali (pago le spese per attuare le decisioni comuni).

Non ha alcuna cittadinanza, mi sembra, un principio di solidarietà astratto dalla corrispondenza a obiettivi trasparentemente condivisi e democraticamente decisi, da un lato.

Non si pagano i tributi perché pagare i tributi è un bene ipostatizzato, ma si pagano i tributi che servono a finanziare il bene, democraticamente determinato.

Né, simmetricamente, ha alcuna cittadinanza un principio del beneficio meramente individuale, dall’altro. L’unico beneficio individuale è la quota riflessa di quello comune, partecipato e condiviso. Non potrei sottrarmi a un tributo che serve al bene comunque semplicemente facendomi scudo del fatto che “non mi serve” o “non mi piace” quello che lo Stato fa.

Non solo, viene poi nettamente distinto il momento della realizzazione degli obiettivi da quello della loro determinazione: deciso ciò che è bene e stabilito quanto costa, va verificato che si tratta di un costo sostenibile e, quando si tratta di reperire i mezzi per pagare, entra in gioco un parametro oggettivo di giustizia: ciascuno paga in relazione a quanto ha, in modo tendenzialmente progressivo.

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IV. Tale disegno, nitido e bilanciato, ha cominciato, però, ad offuscarsi.

È difficile stabilire, per certi versi, come decidere se è nato prima l’uovo o la gallina, da dove si sia cominciata a sfilacciare la trama del disegno, ma i sintomi paiono chiari e il risultato è un pasticcio, mi pare.

I sintomi si sono manifestati a diversi livelli.

Una ipotesi verosimile è che, aumentando il benessere, collettivo, sia avvenuto il connubio tra due amanti un po’ viziosi. Da un lato, l’illusione che lo Stato possa permettersi una spesa illimitata (e, quindi, soddisfare tutti e comunque), dall’altro la consapevolezza che dire di sì a tutti, in politica, senza scegliere, è una linea assai seducente, in termini di consenso elettorale.

Sia come sia, si è, semplicemente, prima smesso di riflettere a priori su quanto costano le cose (tanto possiamo permettercele tutte) e, poi, di conseguenza, smesso di discutere su quali siano gli obiettivi da raggiungere. Così come, secondo Frank Zappa, ogni stecca ripetuta è l’inizio di un nuovo arrangiamento, ogni nuovo filone di spesa tende a trasformarsi in un rigido diritto acquisito, uno status difficile da modificare.

Scompare dai radar la sana discussione su “quanto siamo disposti a spendere”, e in “quale ordine di priorità vadano collocate le spese” e ciò comporta la completa deresponsabilizzazione del decisore politico (o, a pensar male a volte ci si azzecca, è il decisore politico che voleva avere le mani libere e ha fatto sparire il dibattito?).

Tale evoluzione ha una (casuale?) corrispondenza istituzionale: sparisce il Ministero delle Finanze (il Libro della Realtà), inglobato da quello della Economia (il Libro dei Sogni) e il primo è, in parte, sostituito da una Agenzia figlia del mito, in sé condivisibilissimo, della efficienza.

La sostituzione, però, non è stata affatto neutrale: da un organo politico, e politicamente responsabile, chiamato a gestire i cordoni della borsa e a mettere a terra, nel mondo reale, le elucubrazioni astratte e, a volte, i sogni deliranti, si passa a un magnifico esecutore, di elevatissimo sapere tecnico, il cui compito non è presidiare la equità e proporzionalità, ma esigere “gettito a ogni costo”, per finanziare una spesa elevata a priori Kantiano, postulato indiscutibile, quasi che fosse il cielo stellato sopra di noi (o, come vedremo più avanti, la legge morale dentro di noi).

Solo così, lo notiamo en passant, si spiegano approdi giuridicamente mostruosi del presente – e passati sotto il silenzio generale di una allarmante assuefazione al peggio – come l’inserimento del ricavato delle sanzioni tributarie nelle scelte di politica finanziaria: eterogenesi dei fini tale da giustificare, a logica, il fatto di punire perché “rende”, e non perché “si è fatto il male”, e in proporzione al male fatto. Premessa potenzialmente alquanto pericolosa: se si può addirittura punire perché la multa dà gettito, quali freni restano al pretendere?

Ancora, tale evoluzione finisce per avere una malefica sponda sovranazionale, in un Diritto UE che, non essendo espressione politica democratica e rappresentativa, finisce a riflettersi in una Corte di Giustizia pronta a presidiare (a volte, ad adorare, quasi) “concorrenza” e “interesse finanziario”, con una attenzione sempre minore per i valori e le libertà economiche (anch’esse, in realtà, fattori di crescita, per chi preferisca la valuta ai valori).

Un circuito vizioso di astrazione e distacco da giustizia e quotidianità concreta.

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V. La conseguenza di tali premesse è che finiscono per sfilacciarsi tutti e quattro i postulati costituzionali di cui si trattava sopra.

Se si perde di vista il punto di partenza della determinazione responsabile, realizzabile e sostenibile della spesa pubblica, essa finisce fuori controllo, come nel pullman della canzone di Edoardo Bennato.

Se il tributo è solo il reperimento della fonte di finanziamento, una sorta di rimborso a piè di lista della spesa pubblica, questo, specie quando il debito pubblico ha esaurito la sua capacità di assorbirla in modo parallelo e complementare, può facilmente esondare e apparire insostenibile o sproporzionato rispetto alla ricchezza disponibile, o alla quota di ricchezza esigibile dal singolo.

Comincia a diventare difficile giustificare il prelievo: visto che nessuno più lo rapporta al bene comune, a scelte condivise e a priorità fondamentali, concrete e previamente concordate, prelevare quote di ricchezza individuali finisce per risultare sempre più odioso e incomprensibile.

E, in una sorta di teratogenesi a cascata, da mostro nasce mostro.

Ecco, da un lato, il sorgere di teoriche su “nuove forme di capacità contributiva”: se non riesco a giustificare il tributo sulla base della ricchezza (o la ricchezza la sto tassando troppo), provo a inventarmi nuovi presupposti.

Presupposti fini e affascinanti ma, al mio modestissimo avviso di “mugik del diritto”, inconsistenti, da un lato, e pericolosi, dall’altro.

Inconsistenti, perché il tributo serve a “dare soldi per pagare spese” e, se il presupposto non è economicamente monetizzabile, non riesco a comprendere come possa giustificare il pagamento. Per fare un esempio eclatante, anche chi condivida la teoria (effettivamente avanzata da teorici della imposizione, per giustificare alcune forme di prelievo ipotetiche) secondo cui i biondi avrebbero mediamente maggior benessere economico, non riesce a convincermi su come un fortunato Riccioli d’Oro nullatenente potrebbe pagare i tributi: con una ciocca di capelli? O con il lavoro forzato?

E presupposti pericolosi, molto pericolosi, perché se si sgancia il tributo dal dato neutro e obiettivo della ricchezza posseduta per passare a qualità o potenzialità, si spalanca la porta a qualsiasi possibile arbitrio: chi assicura che tra le qualità che giustificano il tributo, prima o poi, non entri qualche elemento discriminatorio (razziale, ideologico, religioso, sessuale, ecc.)?

È come aprire la porta sul vuoto nelle astronavi dei film di fantascienza, e lo svuotamento è quello dei principi fondamentali.

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VI. Poiché il sonno della ragione genera mostri, ecco allora l’esondazione dal suo alveo della giustificazione della solidarietà: dal “paga, in rapporto a quanto hai perché si è responsabilmente e democraticamente definita una serie di obiettivi essenziali a beneficio della collettività cui appartieni” (che era il disegno costituzionale originario) si passa a un molto semplice e brutale: “paga perché devi essere solidale”.

Dove potrebbe portare proseguire lungo questa strada?

Sostanzialmente alla regola paga, per dimostrare che sei buono”, laddove il bene è pagare il tributo e non l’obiettivo del tributo, cosicché la determinazione di ciò che è buono tende a diventare una cambiale in bianco, un rinvio a una sfera poco sondata, vaga come le stelle dell’Orsa, e tendenzialmente irresponsabile.

È una strada che fino a un certo tratto è sicuramente politicamente proficua e seducente: entro un certo limite chi vorrebbe essere etichettato come cattivo?

Ma, di nuovo, una strada potenzialmente pericolosa.

Intanto perché, per spararla subito grossa, storicamente, un luminoso (insomma …) esempio di istituzione che agiva per il bene e la salvezza delle anime era la Santa Inquisizione, che, a un certo punto e in certe sue per fortuna marginali perversioni, in virtù della dichiarata altezza dei fini, aveva finito per perdere di vista l’umanità degli strumenti e il rispetto dei limiti di civiltà fondamentali.

Poi, più realisticamente, perché l’obbligo tributario solidale a prescindere (con il solo vago limite della proporzionalità … ma proporzionalità a che cosa?) rischia di creare un analfabetismo finanziario di ritorno, in cui le masse non partecipano più al processo democratico, il potere finanziario diventa sempre più irresponsabile e riservato a Ottimati invisibili celati dietro clausole vuote, e il tributo resta un obbligo morale posticcio come una barba finta, e piacevolmente inadempiuto.

Infine, perché in questa delega in bianco si perde anche la dimensione morale e politica individuale: è uno Stato (o altra istituzione) lontano, vago e inafferrabile che decide ciò che è bene, e il ruolo del singolo è degradato solo ad adempiere ad un comando esterno e non interiorizzato.

Il rischio è quello di un rimbambimento finanziario collettivo che potrebbe preludere a … mare mosso, localmente agitato e venti di burrasca nel mare delle istituzioni politiche: in effetti, sono le ideologie totalitarie, non importa di quale colore e ispirazioni, a nutrirsi e nutrire tale disaffezione e mortificazione dell’individuo.

Al termine di questo climax dalle tinte un po’ funeree, cui manca solo, come ne “L’aereo più pazzo del mondo”, l’annuncio che “è finito il caffè”, però, credo si possa aggiungere una voce di speranza.

Credo che sia, ancora una volta, il caso di invocare due miti Numi tutelari a supporto delle nostre anime.

Il primo è Ezio Vanoni e il suo auspicio del 1954 per cui è giusto che il primo sforzo, il primo passo lo faccia lo Stato: perché può rettamente pretendere solo chi rettamente si comporta.

Il secondo è San Filippo Neri, di cui osiamo aggiornare il mite, saggio, rispettoso e incredibilmente propizio insegnamento: anche nel Fisco la provocatoria ma salvifica preghiera dovrebbe essere “State buoni, se potete (e volete)”.

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