EDITORIALE – Quali insegnamenti trarre per il diritto tributario europeo dalla vicenda dell’accordo sui dazi doganali UE – USA
Di Francesco Farri
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La vicenda del negoziato fra Stati Uniti e Unione Europea in materia di dazi doganali e l’accordo raggiunto all’esito di esso offrono indicazioni particolarmente rilevanti per il dibattito in corso a livello continentale in merito alle prospettive del diritto tributario europeo.
Come noto, la parte maggioritaria della dottrina tributaristica europea individua i principali ostacoli alla soluzione dei problemi di equità, giustizia ed efficienza dei sistemi tributari del continente in due aspetti, di cui auspica il superamento:
da un lato, il persistente principio dell’unanimità che l’Unione deve seguire, a Trattati vigenti, per adottare decisioni in materia tributaria (artt. 113 e 115 TFUE): si ritiene, infatti, indispensabile una modifica dei Trattati per estendere alla materia tributaria la procedura legislativa ordinaria e, a Trattati vigenti, si ritiene indispensabile esplorare tutte le possibili soluzioni utili a ricondurre la materia tributaria a basi giuridiche che consentono di adottare decisioni prescindendo dal requisito dell’unanimità (artt. 116, 192 e 194 TFUE e varie altre possibili clausole passerella);
dall’altro lato, le persistenti limitazioni previste dai Trattati all’introduzione di tributi propri europei: si ritiene, infatti, indispensabile che l’Unione possa dotarsi di tributi propri per finanziare le proprie spese, senza dover necessariamente passare dal consenso degli Stati attualmente previsto dall’art. 311 TFUE.
Si è argomentato, in altra sede (cfr. Farri F., Considerazioni critiche e profili ricostruttivi in materia di potestà impositiva dell’Unione Europea, in Rass. trib., 2022, 2, 418 ss.), che tali misure appaiono di difficile realizzazione, non solo de iure condito, ma anche de iure condendo, almeno fino a quando l’Unione Europea si caratterizzi strutturalmente come una istituzione sovranazionale fra Stati, per quanto complessa e peculiare, e risulti priva di un momento fondativo di matrice popolare idonea a dotarla di quella sovranità necessaria per imporre tributi nei contesti democratici.
Lo svolgimento e l’esito del negoziato sui dazi doganali fra Unione Europea e Stati Uniti d’America dimostra che, in verità, i due predetti aspetti, non soltanto risultano di dubbia compatibilità con l’architettura giuridica di fondo dell’Unione Europea, ma in verità non risultino dirimenti neppure sul piano pratico.
I dazi doganali, infatti, sono allo stato gli unici veri tributi propri dell’Unione Europea e, per assumere le decisioni in materia, non è richiesta l’unanimità degli Stati (art. 31 TFUE).
L’Unione Europea, quindi, in questa vicenda ha potuto operare nel contesto che la dottrina maggioritaria ritiene ideale e ottimale per consentire al Continente di godere dei migliori frutti dell’integrazione europea in materia tributaria.
Una sorta di “calcio di rigore” che la storia ha concesso all’Unione per dimostrare che quella dei tributi propri, slegati da vincoli di unanimità, è la strada giusta e necessaria da percorrere per garantire il benessere attuale e futuro dei popoli europei.
Sennonché il risultato, a detta della maggioranza dei commentatori a livello continentale, è stato ampiamente insoddisfacente. Il “calcio di rigore” è stato fallito.
L’esistenza di un tributo proprio europeo e il superamento del principio dell’unanimità non sono stati utili a produrre risultati apprezzabili sul piano tributario. Né si dica che ciò è dovuto al carattere essenzialmente negoziale e internazionale della “partita” dei dazi e alla spregiudicatezza negoziale dell’interlocutore. Infatti, nella dimensione sovranazionale in cui intende muoversi l’Unione tutte le “partite” che possono giocarsi in materia tributaria scontano la medesima rilevanza internazionale e negoziale, con i più diversi interlocutori. Lo dimostra il fatto che proposte e decisioni di diritto interno europeo in materia di tassazione delle multinazionali (proposte di web tax europee, invocazione del divieto di aiuti di Stato come strumento di surrettizio ravvicinamento delle imposte sui redditi, direttive sulla global minimum tax) sono state comunque alla base di ritorsioni di altri Stati, in particolare degli Stati Uniti d’America.
Si potrebbe dire, dunque, che due delle più diffuse proposte del diritto tributario europeo, ossia l’attribuzione all’Unione di tributi propri e il superamento dell’unanimità, si sono rivelate fallaci. Per certi versi, si potrebbe finanche dire che esse hanno provocato effetti controproducenti.
Invero, la concentrazione di competenza a livello unitario europeo ha impedito ai singoli Stati di far valere fino in fondo le proprie potenzialità negoziali e, anzi, ha esteso a tutti gli effetti negativi delle tensioni diplomatiche riguardanti soltanto alcuni di tali Stati. È lecito ritenere che, se alcuni Stati membri avessero potuto condurre trattative autonome, anziché centralizzate, il risultato sarebbe stato migliore. I cinque punti percentuali che separano il livello dei dazi concordato dal Regno Unito e quelli imposti all’Unione Europea danno la misura del danno patito dagli Stati membri per effetto dell’affidamento delle competenze in materia a livello centralizzato europeo. Tali cinque punti percentuali, infatti, pesano notevolmente in termini di incidenza sul PIL e non solo.
Ciò, d’altronde, non deve attribuirsi alla maggiore o minor capacità dei negoziatori scelti dalla Commissione. È proprio la pretesa di omogeneizzazione delle esigenze dei vari settori dell’economia europea (se non si vuol dire delle diverse economie dei vari Stati), che è insita nella concentrazione di competenze a livello unitario, che ha gravato strutturalmente i negoziatori di una zavorra pressoché impossibile da gestire, a tutto vantaggio della controparte negoziale.
Per effetto di ciò, all’atto pratico è risultato confermato che l’azione comune europea è diversa dalla somma delle azioni dei singoli Stati: però, contrariamente a quanto sovente si ritiene, è stata diversa, non già in quanto produttiva di risultati maggiori e migliori della mera sommatoria, bensì di risultati minori di quelli che i singoli Stati, o almeno la maggior parte o comunque alcuni di essi, avrebbero ragionevolmente potuto ottenere.
L’insegnamento di questa vicenda è, dunque, che l’Europa non ha bisogno di affidare maggiori competenze tributarie all’Unione o di superare il principio dell’unanimità in materia, ma, semmai, di recuperare il ruolo degli Stati, riducendo ulteriormente il ruolo dell’Unione in materia tributaria e, segnatamente, in materia di tributi doganali.
Sul piano più generale, vi sono crepe che affliggono l’edificio dell’Unione ancor più in profondità e che rendono controintuitiva la soluzione di aumentarne le competenze, nell’auspicio che aumentandole si risolvano i problemi già esistenti allo stato attuale. Al contrario, appare decisamente più razionale risolvere i problemi esistenti, prima di avventurarsi in nuove iniziative.
Anche al di fuori della materia dei dazi, quando ha agito in materia tributaria, l’Unione ha spesso denotato un approccio ideologico, che non ha soddisfatto gli interessi degli Europei. Ha spesso imposto vincoli scarsamente razionali e dai risultati fallimentari, come ad esempio la plastic tax, che la stessa Corte dei Conti europea ha definito premature e inefficaci (cfr. Special report, n. 16/2024). Ha gravato gli operatori economici di oneri e adempimenti talora gravosissimi, spesso bizantini e sovente inutili, che danno vita a veri e propri “dazi interni”, come sono stati definiti da illustri economisti europei. Ciò ha causato la riduzione della competitività delle imprese europee, la fuga di molti settori manufatturieri verso Stati a basso costo di manodopera e, in definitiva, la progressiva dipendenza del sistema industriale europeo da altri Stati.
In questo contesto, non appare provvido aumentare le competenze dell’Unione in materia tributaria per finanziare il gonfiamento del bilancio propugnato dalla Commissione, peraltro in relazione a scelte di spesa sulle quali è lecito nutrire seri dubbi, non solo di carattere economico e politico, ma anche etico.
La vicenda del negoziato dei dazi doganali fra Unione Europea e Stati Uniti d’America, dunque, conferma che le ricette tradizionalmente prospettate per la fiscalità continentale non risultano in verità idonee a garantire al Continente un sistema fiscale equo ed efficiente per realizzare gli interessi dei popoli europei. Per conseguire questo risultato, occorre ripensare profondamente la costruzione dell’Unione, non già per assegnare a essa sempre più competenze e poteri, nell’illusione irrazionale che un problema possa risolversi aumentandone la portata, quanto piuttosto al contrario per ripartire dall’Europa, dai suoi popoli e dai valori profondi che nel corso della storia ne hanno delineato l’identità.
Equità ed efficienza di un sistema tributario, infatti, sono valori che non conseguono agli aspetti procedurali, quanto piuttosto ai valori sostanziali che il sistema tributario rispecchia e attua. L’odierno approccio nichilista dell’Unione Europea complica l’individuazione di una prospettiva assiologica matura nella cui cornice inscrivere iniziative politiche, in generale, e attinenti alla materia tributaria, in particolare.
Come già rilevato in altra sede (F. Farri, Considerazioni critiche e profili ricostruttivi in materia di potestà impositiva dell’Unione Europea, cit., 447 ss.), “la forma deve essere accompagnata da una sostanza per conseguire buoni risultati. Si rischia, altrimenti, di dar vita a un guscio vuoto”. Così, la logica prettamente economicista tipica dell’acquis europeo è insufficiente a dar luogo a una solida integrazione della comunità, che a sua volta è il presupposto per una equilibrata estensione della vocazione politica della medesima e delle competenze attribuibili alle istituzioni che la rappresentano. Occorre dunque ripartire dai valori non negoziabili, dalla riduzione delle diseguaglianze, dalla sussidiarietà orizzontale, per ridare all’Europa quell’anima che, allo stato attuale, sembra aver smarrito. Soltanto su queste basi sarà possibile creare i presupposti per un diritto tributario europeo.
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