Transfer pricing, abuso del diritto e libertà fondamentali: la Corte di Giustizia pone un altro tassello verso la sistematizzazione

Di Silvia Giorgi -

Abstract (*)

La Corte di Giustizia sembra contraddire i propri precedenti sui rapporti tra le discipline nazionali sui prezzi di trasferimento e il principio europeo di abuso del diritto. A ben vedere, tuttavia, le conclusioni contribuiscono a completare la “visione” del Giudice europeo su tale tema, chiudendo il cerchio delle possibili contestazioni dell’Amministrazione finanziaria, in fattispecie in cui la piena conformità al benchmark di piena concorrenza non è sufficiente ad escludere che l’operazione celi una finalità abusiva.

Transfer pricing, abuse of rights and fundamental freedoms: the Court of Justice takes another step towards a comprehensive framework – The ECJ seems to contradict its own case-law on the relationship between national transfer pricing rules and the European principle of abuse of rights. On closer inspection, however, the conclusions help to complete the European Court’s “vision” on this issue, closing the circle of possible challenges by the tax authorities in cases where full compliance with the arm’s length benchmark is not sufficient to exclude that the transaction conceals an abusive purpose.

Sommario: 1. Il caso – 2. Lo scenario internazionale. – 3. L’evoluzione della Cassazione. – 4. La giurisprudenza della Corte di Giustizia. – 5. La dicotomia tra forma e sostanza. – 6. Considerazioni conclusive.

1. La pronuncia della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024 (C-585/22, X BV) aggiunge qualche elemento al quadro europeo dei rapporti tra prezzi di trasferimento e abuso del diritto, spingendo nella – non scontata – direzione per cui, a livello unionale, si tratti di istituti autonomi. Implicitamente, si potrebbe anche farne discendere che l’autonomia operi in senso biunivoco: se il primo non implica il secondo, la determinazione di un corrispettivo conforme a quello che avrebbero convenuto imprese indipendenti non esclude la possibilità di limitare la deduzione dei costi dell’impresa, ancorché in linea con il “mercato”, se l’operazione sottostante costruisce una costruzione puramente artificiosa. La conclusione, apparentemente inaspettata alla luce dei precedenti della stessa Corte, sollecita talune brevi riflessioni, anche con uno sguardo al contesto internazionale ed alle ricadute dell’affermata “autonomia”.

La domanda di pronuncia pregiudiziale investe disposizioni di diritto olandese, con chiara ratio antielusiva, secondo cui il fatto che un soggetto passivo contragga un debito nei confronti di un’entità collegata – a fini di acquisizione o ampliamento di una partecipazione in un’altra società che diventi, a sua volta, collegata al gruppo a seguito di detta acquisizione – fonda la presunzione di abusività dell’operazione, concepita per erodere la base imponibile nei Paesi Bassi. Ne consegue il divieto di deduzione degli interessi infragruppo a meno che il contribuente non sia in grado di confutare la presunzione di artificiosità.

Nella fattispecie, la società olandese X, parte di un gruppo multinazionale, contraeva un prestito con la collegata belga C, peraltro soggetto ad un regime fiscale forfettario che non prevedeva alcuna imposizione sugli interessi attivi. Il prestito era finalizzato all’acquisto delle azioni di F, società olandese che, per effetto di detta operazione, era partecipata al 72% da X e per il restante 28% da altra società belga del medesimo gruppo. L’Amministrazione finanziaria olandese negava la deducibilità degli interessi passivi sulla base di una disciplina antielusiva che, a fronte di prestiti infragruppo finalizzati all’acquisto o all’ampliamento delle partecipazioni in una società che divenga collegata al soggetto passivo successivamente a detta acquisizione o all’ampliamento di tale partecipazione precludeva, per l’appunto la deducibilità tout court del costo. Il contribuente poteva, comunque fornire la prova di non artificiosità dell’operazione, dimostrando, alternativamente a) il fondamento economico del prestito b) un’imposizione ragionevole, sulla base del livello impositivo vigente nei Paesi Bassi, sugli interessi attivi pagati all’erogante ed individuata nell’aliquota del 10%.

Il contribuente ravvisava in tale disciplina una restrizione alla libertà di stabilimento, sottoforma di discriminazione indiretta, perché, di fatto, volta a colpire per lo più fattispecie transfrontaliere: la seconda esimente era certamente soddisfatta nel caso in cui l’erogante fosse residente, essendo, invece, più difficoltoso al cospetto di un soggetto erogante non residente la prova di equivalenza del livello impositivo con quello olandese.

Il giudice riteneva tale disciplina conforme al diritto europeo, essendo finalizzata a contrastare costruzioni artificiose giacché la disciplina olandese negava la deducibilità degli interessi, pur conformi a quelli che sarebbero stati convenuti tra imprese indipendenti, ma creati artificiosamente. Dunque non interessi eccessivi e sproporzionati ma giustificati unicamente da ragioni di ordine fiscale.

La Corte, citando propri precedenti e sposando le conclusioni dell’Avvocato generale, conclude che senza dubbio la disciplina olandese implica una disparità di trattamento tale da pregiudicare l’esercizio della libertà di stabilimento, in quanto tale da dissuadere una società madre stabilita nei Paesi Bassi dal costituire un’entità collegata in altro Stato membro in cui sarebbe soggetto ad un minor carico fiscale.

Così, dopo aver ritenuto comparabili prestiti interni e transfrontalieri, la Corte si sofferma sulla sussistenza di motivi imperativi di interesse generale che possano giustificare il trattamento discriminatorio a discapito del soggetto collegato non residente e conclude che nella fattispecie la ratio antielusiva della disciplina valga a garantire l’obiettivo di prevenire condotte artificiose consistenti nella presentazione di fondi propri poi trasformati in capitale di debito. E ciò nel rispetto del principio di proporzionalità, sia perché sussistono parametri oggettivi e verificabili per determinarne la natura artificiosa, sia perché al contribuente e consentito fornire la prova contraria circa la sussistenza di eventuali ragioni commerciali. In definitiva, la disciplina restrittiva e discriminatoria è giustificata e, dunque, compatibile con il diritto europeo, perché volta a contrastare fenomeni abusivi. La conformità delle condizioni di prestito al principio di concorrenza non è di per sé sufficiente ad escluderne la natura abusiva.

2. La commistione tra transfer price e abuso del diritto, lungamente perpetrata (e poi superata) dalla giurisprudenza interna, si riaffaccia carsicamente in taluni lavori internazionali, nonché in talune pronunce della stessa Corte di Giustizia.

Da questo punto di vista, dunque, la pronuncia in commento sembra aver sistematizzato i concetti, sposando la tesi della non sovrapponibilità (sulle difficoltà di sistematizzazione, è evocativo il titolo del contributo sistematico di Sacchetto C., Il transfer pricing internazionale: una normativa alla ricerca della propria identità, in Rass. trib., 2016, 4, 886 che suggeriva di distinguere la prospettiva interna, allora prevalentemente orientata sulla natura elusiva, da quella internazionale).

Volendo ripercorrere brevemente lo scenario di riferimento, si può in parte individuare l’origine del dibattito sulla natura giuridica delle norme sul transfer pricing nell’eccentricità dell’art. 9 del Modello di Convenzione OCSE rispetto alle altre norme del Modello che hanno, per lo più, funzione distributiva regolando il potere impositivo in fattispecie connotate da elementi di estraneità per prevenire il rischio di doppia imposizione giuridica internazionale. L’art. 9, invece, non individua lo Stato che può esercitare il potere impositivo rispetto ad una determinata categoria reddituale, ma quantifica la porzione di reddito tassabile nei due Stati di residenza delle imprese associate in relazione alle operazioni infragruppo intercorse tra le stesse, così scongiurando il rischio di doppia imposizione economica.

Per quanto anche la determinazione del corrispettivo implichi, comunque, una ripartizione del potere impositivo tra gli Stati di residenza delle imprese coinvolte nella rettifica, probabilmente l’appannamento – quanto meno prima facie – della funzione distributiva “pura” dell’art. 9 del Modello ha innescato il dilemma giuridico circa la natura della disciplina sui prezzi di trasferimento. Tanto che anche lo scenario comparato registra una disomogeneità di approccio in quanto alcuni Stati vedono una sovrapponibilità tra la disciplina transfer pricing e l’abuso (Dourado A.P., Tax Avoidance Revisited in the EU BEPS Context, in Aa.Vv., Tax Avoidance Revisited in the EU BEPS Context, Amsterdam, 2017).

Le più risalenti esternazioni ufficiali in ambito internazionale indubbiamente sconfessavano ogni legame della disciplina transfer pricing con i temi dell’elusione e, a maggior ragione, della frode. Basti ripercorrere le più risalenti versioni delle Linee Guida, OECD (Report of the OECD Committee on Fiscal Affairs on Transfer Pricing and Multinational Enterprises, OECD, Paris, 197) in cui nitidamente si sancisce che: «The consideration on transfer pricing should not be confused with the consideration of problems of tax fraud or tax avoidance, even though transfer pricing policies may be used for such purposes». Proclama rimasto inalterato anche nelle più recenti edizioni delle Linee Guida, in cui, in ogni caso si ribadisce che la rettifica conseguente all’applicazione della disciplina dei prezzi di trasferimento è funzionale a correggere eventuali distorsioni e ad assicurare che il principio di libera concorrenza sia soddisfatto.

Anche le line programmatiche del progetto BEPS hanno, poi, ribadito che «trasfer pricing rules serve to allocate income earned by a multinational enterprise among those countries in which the company does business», così confermando la ratio della normativa quale regola di ripartizione della materia imponibile fra giurisdizioni concorrenti (OECD, Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting, OECD Publishing, 2013, 19). E le Guidelines 2017 hanno ulteriormente affermato che eventuali rettifiche da transfer pricing possono prescindere da un eventuale intento elusivo/evasivo.

Ciononostante, è innegabile l’intento di contrastare il conseguimento di vantaggi fiscali, attraverso le rettifiche transfer pricing, in quanto il progetto BEPS include tra le forme di pianificazione fiscale aggressiva anche quelle relative ai prezzi di trasferimento volte a localizzare gli utili in Paesi a bassa fiscalità (Cordeiro Guerra R., La normativa interna: l’art. 110, comma 7, TUIR, in Della Valle E. – Maisto G. – Miele L., a cura di, Il transfer pricing nell’ordinamento tributario italiano, Torino, 2024, 41). Tanto che il Rapporto finale BEPS sull’Azione 3 ha istituito una parziale complementarità tra disciplina CFC e disciplina transfer pricing in chiave antielusiva: «CFC rules are thus often referred to as “backstops” to transfer pricing rules. That terminology, however, is misleading, in that CFC rules do not always complement transfer pricing rules. CFC rules may target the same income as transfer pricing rules in some situations, but it is unlikely that either CFC rules or transfer pricing rules in practice eliminate the need for the other set of rules» (OECD [2015], Designing Effective Controlled Foreign Company Rules, Action 3 – 2015 Final Report, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/9789264241152-en). La disciplina CFC tampona, dunque, il rischio che alcune operazioni tra parti correlate producano effetti di erosione degli imponibili ma la complementarietà è solo parziale giacché, comunque, in via residuale altre disposizioni possono operare. Tra queste – non è detto espressamente ma nulla impedisce di desumerlo – anche eventuali norme antiabuso chiamate a chiudere il cerchio delle ipotesi erosive.

3. Le indicazioni non del tutto univoche sul piano internazionale, sono replicate a livello domestico (Della Valle E., Il Transfer price nel sistema di imposizione sul reddito, in Riv. dir. trib. 2009, I, 133; Cordeiro Guerra R., La disciplina del transfer pricing nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. trib., 2000, 4, I, 429) dalla nota confusa giurisprudenza che, nel tempo, ha visto – a tratti sovrapporsi, a tratti alternarsi – la tesi antielusiva e quella distributiva, che sembrerebbe, da ultimo, dominante.

Un filone della Suprema Corte considerava assodato che la tesi antielusiva costituiva «l’interpretazione più diffusa anche nella giurisprudenza di questa Corte, una clausola antielusiva in linea con i principi comunitari in tema di abuso del diritto» (cfr. Cass., sez. V, 25 settembre 2013, n. 22010). Il riconoscimento della natura antielusiva giustificava, poi, un’interpretazione estensiva a fattispecie “maggiormente elusive”, facendone discendere che «La finalità antielusiva [omissis] comporta che la disposizione debba trovare applicazione non solo quando i prezzi o i corrispettivi pattuiti siano inferiori a quelli mediamente praticati nel comparto economico di riferimento, ma anche quando per la cessione del bene (nella specie una determinata quantità di denaro) sia stato pattuito un corrispettivo nullo. Anche in tale ipotesi, ed a maggior ragione in tale ipotesi, si realizza una manovra di indebito trasferimento di ricchezza imponibile verso uno Stato estero, alla quale l’ordinamento giuridico reagisce sostituendo il prezzo contrattuale (nullo) con il prezzo di mercato» (Cass., sez. V, 30 giugno 2016, n. 13387).

Tale orientamento, invero “combattuto” anche nel periodo in cui la tesi antielusiva poteva dirsi prevalente (ad esempio, Cass. civ., sez. V, 8 maggio 2013, n. 10739 in GT – Riv. giur. trib., 2013, 10, 772 con nota di Della Valle E., Il Fisco non deve provare l’elusione nel “Transfer Pricing”), sembra superato dal più recente riconoscimento della natura distributiva. Così è ora consolidata la statuizione della Cassazione secondo cui la normativa sui prezzi di trasferimento «non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del ‘transfer pricing’ (spostamento d’imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti) in sé considerato» (Cass., 16 gennaio 2019, n. 898).

Il disconoscimento della natura antielusiva “complica”, quanto a impatto, la posizione del contribuente giacché alleggerisce l’onere probatorio gravante sull’Amministrazione finanziaria (Marcheselli A., Onere della prova e diritto tributario: una catena di errori pericolosi e un case study in materia di transfer pricing, in Riv. tel. dir. trib., 2020, 1, 220 ss.; per possibili “aperture” alla luce dell’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992, Marinello A., Processo tributario e controversie in materia di transfer pricing, in Riv. trim. dir. trib., 2022, 4, 791) rispetto a quanto, invece, una contestazione di abuso del diritto imporrebbe; non esclude automaticamente la rilevanza penale della condotta; non risolve il problema di fondo: l’efficacia e la coerenza della disciplina rispetto all’obiettivo ritenuto oggi prevalente di garantire un equo riparto degli imponibili tra le giurisdizioni interessate ed evitare la doppia imposizione economica (per considerazioni critiche sul penalizzante recupero a tassazione a livello di gruppo, sommato all’irrogazione delle sanzioni e su possibili correttivi, Cordeiro Guerra R., La normativa interna: l’art. 110, comma 7, TUIR, cit., 42).

4. In tale contesto, la conclusione cui perviene la Corte non poteva dirsi scontata, nemmeno analizzando la sua stessa giurisprudenza. Non a caso diversi passaggi della pronuncia sono dedicati a rispondere all’interrogativo del Giudice del rinvio circa la possibilità di dedurre dal precedente Lexel (C-484/19) il principio per cui le operazioni consistenti nel contrarre debiti con un’entità collegata al contribuente, se concluse in conformità alle condizioni di mercato, siano per ciò solo non abusive. Tale interrogativo certamente sottintendeva, a contrario, che la fissazione di un corrispettivo non conforme a quello di mercato fosse parametro del divieto di abuso e, dunque, una sorta di equivalenza o, quanto meno, continenza tra la contestazione transfer pricing e quella antiabuso.

Sul punto, tuttavia, il Giudice europeo è stato nel tempo piuttosto altalenante, certamente giustificato anche dai differenti contesti normativi statali (Bizioli G., Il transfer pricing e il diritto dell’Unione europea, in Della Valle E. – Maisto G. – Miele L., a cura di, Il transfer pricing nell’ordinamento tributario italiano, cit., 137).

E, infatti, nel caso Lankhorst-Hohorst (C- 324/00) la Corte esclude che il semplice rischio di evasione possa giustificare la disciplina tedesca che discrimina le controllate residenti in funzione della sede della loro società capogruppo prevedendo un regime di riqualificazione degli interessi in distribuzione dissimulata di utili. Ciò in quanto la norma in esame non contrasta in modo mirato le «costruzioni puramente artificiose il cui scopo sia quello di eludere la normativa fiscale nazionale, ma ricomprende, in via generale, qualunque situazione in cui la società capogruppo abbia la sua sede, per qualsiasi motivo, fuori dallo Stato membro». Il punto, mutuando categorie domestiche, è che la disciplina tedesca non è animata da una genuina ratio antielusiva ma è indiscriminatamente volta a colpire qualunque situazione in cui la società capogruppo abbia la sua sede, per qualsiasi motivo, fuori dalla Repubblica federale tedesca. Tranchant le conclusioni dell’Avvocato generale secondo cui «Il vero obiettivo della norma […] è quindi di evitare che la Repubblica federale di Germania perda una parte delle sue entrate». Tanto più che, dagli atti di causa, emerge come la società ricorrente non abbia perpetrato alcun abuso, essendo il prestito effettivamente intervenuto per ridurre l’onere degli interessi finanziari risultanti dal suo credito bancario.

La Corte esclude pure che la restrizione alla libertà di stabilimento possa essere giustificata da ragioni di coerenza del regime fiscale invocato dallo Stato e argomentato sulla base del principio di libera concorrenza, internazionalmente riconosciuto, in virtù del quale le condizioni alle quali i capitali esterni sono messi a disposizione di una società devono essere raffrontate con quelle alle quali la società avrebbe potuto procurarsi tali capitali presso terzi. In particolare, la restrizione e il trattamento fiscale deteriore non sarebbe bilanciato da nessun vantaggio fiscale, così da apparire del tutto ingiustificato.

La contrarierà al diritto dell’Unione, nel caso Lankhorst-Hohorst, si appunta sulla circostanza per cui la disposizione oggetto del rinvio non colpiva costruzioni artificiose bensì era smaccatamente volta a penalizzare operazioni con capogruppo non residenti, per mere esigenze di gettito, risultando, di conseguenza inconsistenti tutte le possibili cause di giustificazione invocate dallo Stato, da quella fondata sul rischio di evasione fiscale, a quella della coerenza del sistema e della preoccupazione di garantire l’efficacia dei controlli. Senza richiamare espressamente il principio di proporzionalità, la Corte in definitiva ritiene che disciplina tedesca, quanto meno, ecceda lo scopo del contrasto a costruzioni artificiose, non essendo sufficientemente selettiva e, dunque, proporzionale all’obiettivo dichiarato attraverso una presunzione generalizzata di abusività dei soli prestiti erogati da capogruppo non residenti.

Non eccede, invece, lo scopo del contrasto a pratiche abusive la disciplina britannica oggetto di rinvio nel caso Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation (C- 524/04); ciò perché la riqualificazione degli interessi in dividendi non colpisce indiscriminatamente qualunque situazione in cui, per qualsivoglia ragione, la società controllante ha la sua sede in un altro Stato membro. Prevede, infatti, che gli interessi versati da una controllata residente ad una società controllante non residente siano qualificati come utili distribuiti esclusivamente se e nella misura in cui superano il benchmark che avrebbero convenuto in un contesto di piena concorrenza, ossia a condizioni analoghe a quelle che avrebbero pattuito parti indipendenti. Il valore di mercato è, infatti, un parametro oggettivo e verificabile di per sé sintomatico di un’operazione artificiosa, rispondendo alla massima d’esperienza per cui, in assenza dello specifico rapporto di collegamento tra le parti quel prestito non sarebbe stato concesso o, comunque, sarebbe stato concesso a diverse condizioni.

Per salvaguardare il principio di proporzionalità europea la Corte puntella la presunzione di abusività del prestito con due ulteriori condizioni: la possibilità per il contribuente di superarla fornendo, senza eccessivi oneri amministrativi, la prova contraria delle specifiche ragioni commerciali a sostegno dell’operazione non conforme al parametro di mercato; e il limite quantitativo alla riqualificazione degli interessi in dividendi, individuato nell’importo eccedente il benchmark che parti indipendenti avrebbero pattuito.

Il valore di mercato non è, dunque, solo indizio della natura abusiva dell’operazione ma anche limite al potere di riqualificazione che non può essere integrale ma investire soltanto la frazione di corrispettivo eccedente il benchmark, secondo una giurisprudenza del Giudice europeo consolidatasi con i successivi casi SGI (C- 311/08, cfr. parr. 71-72) e Hornbach-Baumarkt AG (C-382/16). Da osservare, tuttavia, in entrambi i casi da ultimo citati, che la Corte oscilla ancora tra la natura distributiva o antiabuso della disciplina sui prezzi di trasferimento, di fatto senza esprimersi e adottando un approccio “cumulativo”: il transfer price è, infatti, finalizzato tanto a tutelare la ripartizione equilibrata del potere impositivo quanto a prevenire fenomeni elusivi (cfr. par. 69 del caso SGI e par. 49 del caso Hornbach-Baumarkt AG).

È, tuttavia, doveroso precisare che nella letteratura europea, il caso SGI viene commentato come l’avallo della Corte di Giustizia al principio di libera concorrenza, (Glahe M., Transfer pricing and EU Fundamental Freedoms, in EC Tax Review, 2013, 5, 222; nella dottrina italiana Ballancin A., Natura e ratio della disciplina italiana sui prezzi di trasferimento internazionali, in Rass. trib., 2014, 1, 73, secondo cui la Corte avrebbe valorizzato «la tutela della “ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri” quale esigenza di superiore interesse pubblico idonea a “giustificare”, seppur non (ancora) in via autonoma, una disciplina nazionale, quale quella in esame, restrittiva delle libertà fondamentali», sposando, quindi, prioritariamente la tesi territoriale).

Invero, la Corte di Giustizia, dapprima riconosce che «la tutela della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri può rendere necessaria l’applicazione alle attività economiche delle società stabilite in uno dei detti Stati delle sole norme tributarie di quest’ultimo, sia per i profitti sia per le perdite», con ciò preparando il terreno per sposare la tesi della ratio “territoriale” della disciplina dei prezzi di trasferimento; poi, quasi inaspettatamente, vira verso una conclusione “mista” , affermando che «una legislazione nazionale che non è specificamente diretta ad escludere dal vantaggio fiscale che essa prevede siffatte costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica e create allo scopo di eludere l’imposta normalmente dovuta sugli utili generati da attività svolte nel territorio nazionale , può tuttavia considerarsi giustificata dall’obiettivo di prevenire l’elusione fiscale considerato congiuntamente a quello della tutela della ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri» (SGI C- 311/08)

Come a dire che di per sé la ratio antielusiva non costituisce una ragione imperativa d’interesse generale, se non combinata con quella “territoriale” di equa ripartizione della potestà impositiva tra gli Stati coinvolti e la compatibilità della disciplina dei prezzi di trasferimento con la libertà di stabilimento europea impone la tutela di entrambe le finalità generali (Baker P., Transfer Pricing and Community Law: the SGI Case, in Intertax, 2010, 38, Issue 4, 194).

A contrario, anche il precedente Lexel (C- 484/19), ripetutamente evocato nella pronuncia qui in commento, conferma che se la contrarietà al parametro del valore di mercato è indizio di abuso, il rispetto delle condizioni di piena concorrenza esclude il sospetto che l’operazione sia meramente artificiosa o fittizia o, comunque, sia stata elaborata al solo scopo di eludere il prelievo (par. 56). La norma svedese oggetto di rinvio, similmente al caso Lankhorst-Hohorst, risulta di fatto ridondante, non limitandosi a coprire costruzioni puramente artificiose ed intercettando operazioni prive di carattere abusivo. La Svezia non può dunque invocare la causa di giustificazione della repressione di pratiche elusive, ma nemmeno quella di un’equilibrata ripartizione del potere impositivo, obiettivi espressamente considerati come connessi (par. 74, che richiama il precedente Oy AA, C‑231/05, par. 62) ma non coincidenti, tanto che lo Stato membro non può richiamare congiuntamente le due cause di giustificazione, dovendo rigorosamente provare i presupposti di ciascuna di esse.

Nel caso Lexel la Corte è dunque preoccupata di una ultra-copertura della causa di giustificazione del contrasto a condotte abusive, vale a dire che sembrerebbe voler evitare che gli Stati introducano restrizioni alla libertà di stabilimento anche quando l’operazione transfrontaliera tra parti correlate sia perfettamente coincidente con i parametri propri di parti indipendenti. Forse involontariamente, il Giudice europeo si spinge ad introdurre una sorta di presunzione di legittimità di un’operazione conforme ai valori di mercato (cfr. par. 56).

Il caso in commento, pertanto, deve arginare all’opposto il rischio di sotto-copertura in fattispecie in cui la piena conformità al benchmark di piena concorrenza non è sufficiente ad escludere che l’operazione celi una finalità abusiva. Occorre, infatti, l’ulteriore verifica della “logica economica” sottesa (parr. 75-76), secondo lo schema applicativo tipico delle rettifiche antiabuso. In assenza, il costo – conforme al valore di mercato – è integralmente indeducibile (in quanto in specie, gli interessi vengono riqualificati in dividendi).

5. La pronuncia della Corte sembra forse voler frenare la fuga in avanti del precedente Lexel che aveva introdotto una sorta di presunzione di non abusività di un’operazione conforme ai valori di mercato rispetto ad un contesto nazionale in cui chiaramente la disposizione scrutinata non aveva una pura connotazione antiabuso. Nel caso X qui commentato, all’opposto, la norma aveva ratio antielusiva ed il prestito realizzato, pur conforme al valore di mercato, sembrava animato da intenti erosivi. La priorità del Giudice europeo sembra, quindi, qui quella di volere “chiudere” il sistema delle contestazioni a fronte di comportamenti che pur apparentemente rispettosi della concorrenza sono comunque animati da intenti erosivi.

L’apparente contraddizione tra il caso Lexel e il caso X si ricompone analizzando le concrete fattispecie e le disposizioni valutate: l’una priva di finalità antielusiva “pura” e dunque a rischio di intercettare anche condotte non solo conformi al principio di concorrenza ma anche perfettamente legittime; l’altra ben congeniata come norma antielusiva, ivi inclusa la possibilità di prova contraria delle valide ragioni economiche emergenti dall’analisi giuridica complessiva della fattispecie («the economic sense of the loan at issue and the related legal transactions», così par. 75). Attesa l’autonomia tra abuso e transfer pricing e la compatibilità europea di norme nazionali che discriminano situazioni interne e transfrontaliere, solo l’eventuale prova contraria offerta dal contribuente può superare la riqualificazione dell’Amministrazione finanziaria.

La sistematizzazione del Giudice Europeo ha, tutto sommato una sua coerenza: la compressione delle libertà europee di giustifica soltanto se ed in quanto la norma discriminatoria (delle operazioni transfrontaliere) ha una genuina funzione antiabuso e non dilata il recupero d’imposta anche a fattispecie nient’affatto artificiose.

In questo sfondo, il benchmark del valore di mercato assume un valore per così dire indiziario di abusività, sulla base della giurisprudenza Test Claimants e SGI: se il corrispettivo non è conforme a detto valore, una rettifica ad opera della norma interna è conforme al diritto europeo, sempre che il contribuente conservi il diritto alla prova contraria delle ragioni commerciali a sostegno dell’operazione e che il quantum indeducibile non ecceda l’arm’s length principle.

La conformità al valore di mercato non esclude, invece, la possibile diversa riqualificazione se l’operazione è artificiosa e priva di logica commerciale. In tal caso, le norme nazionali di riqualificazione saranno conformi al diritto europeo se aventi una genuina ratio antielusiva (sentenza X), incompatibili se, invece, volte ad intercettare anche operazioni non abusive (sentenza Lexel).

Invero, la Corte non ha mai del tutto sposato la tesi della natura antiabuso della disciplina dei prezzi di trasferimento, lasciando, se mai intendere una ratio di elusività inespressa che la innerva senza espressamente manifestarsi (secondo la tesi, nella dottrina italiana, di Tesauro F., Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2011, 246). Così la pronuncia in commento non è poi distonica rispetto ai principi enunciati in climax dai precedenti della stessa Corte: la conformità ai parametri di libera concorrenza non costituisce di per sé un safe harbour perché si tratta di un benchmark meramente formale che non esaurisce la disamina dell’operazione dal punto di vista sostanziale.

E in questo risiede la parte più interessante della sentenza (par. 78).

Ancora lontana da sbilanciarsi nella netta presa di posizione tra natura antiabuso e distributiva, propone una distinzione concettuale di non lieve momento. La disciplina sui prezzi di trasferimento resta una disciplina caratterizzata dalla prevalenza della forma sulla sostanza in quanto la forma “voluta” dal legislatore sostituisce il contenuto del contratto stipulato dalle società del gruppo (Montanari F., La prevalenza della sostanza sulla forma, Padova, 2019, 349). L’accordo tra le parti correlate viene, quindi, superato se non allineato al contegno negoziale modello delle parti indipendenti e ricondotto al prezzo che un genuino conflitto tra portatori di interessi opposti avrebbe prodotto.

Il meccanismo alla base della disciplina dei prezzi di trasferimento si basa, infatti, sulla sostituzione del prezzo determinato dalle parti con quello che individuerebbero le libere forze di mercato: se ne replica la dinamica anche nel contesto multinazionale, attraverso progressive approssimazioni al “normale” finalizzate ad avvicinare tale mercato artificiale al mercato assunto come fisiologico ma di natura, comunque, convenzionale e formale.

All’opposto, l’abuso del diritto, pur nella varietà delle declinazioni (Falsitta G., Unità e pluralità del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento interno e nel sistema comunitario in Riv. dir. trib., 2018, 4, I, 346) si fonda sul principio di prevalenza della sostanza sulla forma, sulla disamina del fondamento e della finalità delle operazioni giuridiche. Chiaro che la Corte non utilizza nozioni e categorie pienamente sovrapponibile con quelle domestiche, là dove parla di “economic sense”, “related legal transactions” e “economic reality of the transactions”. Ma altrettanto chiaro è come la Corte contrapponga, da un lato, “formal condition” e, dunque, la forma in cui si esaurisce la conformità alle regole del libero mercato e, dall’altro, “economic reality”, che, al di là della non piena coincidenza con categorie familiari evoca un approccio sostanzialistico. Approccio sostanzialistico che, invero, nonostante il sovente richiamo all’economicità impone una disamina giuridica delle operazioni (Del Federico L., Forma e sostanza nella tassazione del reddito d’impresa: spunti per qualche chiarimento concettuale in Riv. dir. trib., 2017, 2, I, 153), in quanto la Corte espressamente fa discendere l’effettività economica (“economic reality”) dall’analisi delle operazioni giuridiche (“legal transaction). La diffidenza non è, in sé, nel corrispettivo, ma nell’idoneità di tale dato isolato a rappresentare fedelmente l’assetto giuridico voluto dalle società del gruppo, rispetto all’equilibrio sinallagmatico formale incarnato dal tertium comparationis delle parti indipendenti. È, dunque, una sfiducia che si annida eminentemente nel singolo elemento del contratto, in cui l’alea può essere condizionata dal rapporto di affiliazione tra le parti: la contaminazione della concorrenza attraverso un assetto cartolare “anormale” giacché giuridicamente tradotto, per mano di parti non indipendenti, in una forma sbilanciata.

Sulla base di tale premessa si giustifica pure la “ricaduta” sul quantum della ripresa a tassazione: quando l’operazione è sostanzialmente genuina, la rettifica – meramente formale – non può eccedere il benchmark del valore di mercato, condizione e limite all’indeducibilità degli interessi. Se, invece, l’operazione è formalmente perfetta e conforme al principio di concorrenza ma sostanzialmente artificiosa si giustifica l’indeducibilità totale, per annullare qualsiasi vantaggio fiscale perseguito con mezzi abusivi.

6. L’eccentricità della pronuncia analizzata rispetto ai precedenti della Corte è, ad una più attenta disamina, meramente apparente, anche perché, come molte delle decisioni analizzate, non investiva direttamente la disciplina nazionale in tema di prezzi di trasferimento ma una disciplina antielusiva speciale, rispetto alla quale il corrispettivo fissato a valore di mercato veniva invocato come safe harbour per censurare la riqualificazione dell’Amministrazione finanziaria olandese.

Il Giudice europeo non ha mai nettamente teorizzato la natura antielusiva della disciplina sui prezzi di trasferimento, limitandosi a presupporne al più una ratio antielusiva latente che si “risveglia” nell’assegnare al valore di mercato il significato di mero parametro di abusività (così nei precedenti Test Claimants e SGI e conformi). Quando il corrispettivo della transazione è difforme dal valore di mercato, un’eventuale disciplina nazionale che discrimini situazioni transfrontaliere può essere compatibile con il diritto europeo, perché la sostanza degli assetti giuridici impressi dalle società del gruppo non è allineata alla “forma” espressiva del principio di libera concorrenza (ossia il valore di mercato). Le società avrebbero comunque contratto il prestito ma a diverse condizioni. Ma una simile disciplina può essere compatibile soltanto nei limiti in cui la rettifica dell’Amministrazione finanziaria non ecceda, quantitativamente, il divario tra corrispettivo sostanziale e valore formale e, comunque, garantisca al contribuente la possibilità di dimostrare le ragioni commerciali a sostegno del disallineamento “sospetto”. Di dimostrare, in definitiva, che, sulla base delle complessive condizioni giuridiche dell’operazione, il valore formale assunto come parametro non è davvero quello at arm’s length.

Sul versante opposto, la sentenza in commento coinvolge un caso in cui il corrispettivo fissato è formalmente inappuntabile ma non rispecchia le condizioni giuridiche sottostanti all’operazione così consentendo la riqualificazione. Le imprese associate non avrebbero mai contratto il prestito in assenza dello specifico vantaggio fiscale realizzato. La disposizione nazionale autorizza l’integrale recupero dei costi dedotti perché la forma è stata creata artificiosamente dalle società del gruppo e, di conseguenza, non può costituire un benchmark ma deve essere interamente “ridisegnata”. La compatibilità della disciplina nazionale si fonda qui sì sul principio europeo del contrasto a costruzioni puramente artificiose, la cui valutazione non può esaurirsi nella valutazione dell’elemento singolo e puramente formale del corrispettivo pattuito.

La sentenza, contestualizzata, non ha una portata dirompente.

In primo luogo perché, come del resto tutte le pronunce della Corte, è condizionata dai fatti di causa e, in particolare, dalla norma nazionale scrutinata.

In secondo luogo, perché non riguarda specificamente la disciplina nazionale in tema di prezzi di trasferimento ma, più generalmente, i rapporti tra norme antiabuso e valore di mercato e, chiudendo il cerchio rispetto ai precedenti analizzati, si limita a sbarrare “le vie di fuga del contribuente”, statuendo, in definitiva, che il corrispettivo conforme al valore di mercato non preclude diverse contestazioni e riqualificazioni dell’Amministrazione finanziaria se, comunque, l’operazione realizzata costituisce una costruzione puramente artificiosa.

Dal punto di vista teorico l’elemento più innovativo non investe dunque la natura antiabuso della disciplina del transfer pricing, sulla quale la Corte continua a non pronunciarsi nettamente ma la diversità strutturale tra abuso e transfer pricing: il regno della sostanza contrapposto a quello della forma.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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