Il classamento degli immobili oltre i gradi di merito: spunti operativi in tema di ricorso per cassazione

Di Simone Carrea -

Abstract (*)

Il presente contributo si propone di fornire alcuni spunti operativi che attengono all’impugnabilità, in sede di legittimità, delle sentenze di merito che abbiano deciso, in senso sfavorevole per il contribuente, una questione concernente il classamento di un immobile. In particolare, muovendo dalla descrizione di quella che può essere considerata una ipotesi classica di svolgimento delle fasi (procedimentale e giurisdizionali di merito) che conducono alla impugnanda decisione di secondo grado, saranno esaminati alcuni vizi deducibili avverso di essa con il ricorso per cassazione.

Real estate classification beyond the merits: practical insights on appeals to the Supreme Court – This paper aims to provide some practical insights regarding the possibility of challenging, in proceedings before the Supreme Court, lower court rulings that have decided, unfavorably to the taxpayer, issues concerning the cadastral classification of real estate. Specifically, starting from a description of what may be considered a typical sequence of procedural and substantive stages leading to the contested second-instance decision, it will examine certain grounds of appeal that may be raised against such a decision in cassation proceedings.

Sommario: 1. Premessa. – 2. Una “classica” ipotesi di sviluppo delle fasi procedimentale e giurisdizionali (di merito). – 3. Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.): ma di quali norme? – 4. La (surrettizia) elevazione della circolare n. 5/1992 a parametro rilevante ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – 5. La mancata applicazione della circolare n. 5/1992 sub specie di error in procedendo ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. – 6. Il difetto di motivazione dell’atto impugnato: una speranza de iure condendo … – 7. … un possibile approccio de iure condito.

1. Il contesto territoriale ligure (in particolare genovese), caratterizzato, come noto, da una abnorme (e sproporzionata, rispetto altri ambiti geografici) sovrabbondanza di immobili classificati in categorie di pregio (in particolare A/1 – Abitazioni di tipo signorile e A/8 – Ville), rappresenta un’inestimabile palestra in cui esercitare il sindacato ammesso ai sensi dell’art. 360 c.p.c. avverso le sentenze di merito che abbiano deciso, in senso sfavorevole per il contribuente, una questione concernente il classamento di un immobile.

In tale ottica, senza alcuna pretesa di esaustività, né di inquadramento dogmatico, con il presente contributo ci si propone di fornire alcuni circoscritti spunti operativi che attingono all’esperienza di cui sopra.

Coerentemente con tale aspirazione (pratica più che teorica), si procederà, dapprima, con la descrizione di quella che può essere considerata una ipotesi classica di svolgimento delle fasi (procedimentale e giurisdizionali di merito) che conducono alla impugnanda decisione di secondo grado (par. 2) per proseguire, poi, con l’ipotesi di alcuni vizi deducibili avverso di essa (parr. 3-7).

2. Volendo ripercorrere, per così dire, a “velocità accelerata” le fasi che, dalla iniziale proposta del classamento, conducono alla pronuncia di una sentenza di appello sfavorevole per il contribuente, sulla cui impugnabilità dinanzi alla Corte di Cassazione il difensore è chiamato a interrogarsi, occorre prendere le mosse dalla presentazione del c.d. DO.C.FA. (acronimo di “documenti catasto fabbricati”) disciplinata dal D.M. n. 701/19941, con cui il contribuente – per il tramite di tecnico incaricato e su modulistica predisposta dalla stessa Amministrazione – propone il (de)classamento della propria unità immobiliare (ad esempio, da A/1 – Abitazioni signorile ad A/2 – Abitazioni di tipo civile).

All’interno del DO.C.FA., il tecnico è chiamato a specificare gli elementi e le finiture che caratterizzano l’unità immobiliare, barrando le voci o compilando i campi a testo libero presenti nel formulario. Logica vuole che – come abitualmente accade – il tecnico enfatizzi, in sede di compilazione, gli aspetti che denotano l’ordinarietà dell’immobile e l’assenza, al suo interno, di quelle finiture e caratteristiche di pregio che ne comporterebbero altrimenti il classamento in categoria signorile.

Segue, nella maggior parte dei casi, un avviso di accertamento “motivato”, se così si può dire, attraverso: a) un generale e generico richiamo alle fonti normative in materia di classamento degli immobili2; b) i nuovi dati di classamento e di rendita accertati (che riportano, nel nostro esempio, l’immobile da categoria A/2 a categoria A/1); c) l’elencazione, sempre sul piano astratto, delle attività istruttorie necessarie al fine di valutare la congruità del classamento proposto3; d) il riferimento a unità immobiliari (identificate esclusivamente attraverso gli estremi catastali e senza alcuna menzione delle relative caratteristiche), ulteriori rispetto a quella accertata, la cui classificazione confermerebbe, secondo l’Ufficio, la correttezza della rettifica (c.d. comparables).

A seguito del ricorso instaurato dal contribuente, si svolgono, quindi, i due gradi di merito, nell’ambito dei quali 1) il contribuente impugna l’avviso di accertamento, deducendo – nella maggior parte dei casi (e ferma restando la specificità di ciascuna situazione) – il difetto di motivazione del provvedimento (non essendo minimamente esplicitate le ragioni che supporterebbero la rettifica) e, nel merito, l’erroneità del classamento accertato; mentre, dal canto suo, 2) l’Amministrazione difende l’atto in contestazione, sostenendo che 2.1) trattandosi di rettifica di accatastamento proposto con DO.C.FA. non occorra, in ragione del carattere partecipativo del procedimento, alcuna particolare motivazione (ulteriore rispetto alla mera indicazione del nuovo classamento accertato); 2.2) l’accatastamento in categoria A/1 risulti corretto alla luce delle rilevanti caratteristiche di pregio dell’unità immobiliare accertata, non di rado argomentate dall’Ufficio sulla base di elementi di fatto (ad esempio, presenza di portineria, decorazioni della facciata, finiture nelle aree comuni, vicinanza al mare, apprezzabilità della vista) non indicati dal contribuente in sede di DO.C.FA., né menzionati all’interno dell’avviso di accertamento impugnato, magari (più o meno attendibilmente) desunti – secondo una recente tendenza degli Uffici – da annunci immobiliari reperiti in rete e riferiti a (non meglio precisati) immobili limitrofi.

Ai fini dello sviluppo della trattazione, ipotizziamo, infine, che – come non di rado accade – la sentenza di secondo grado confermi l’accertamento impugnato, rilevando, in accoglimento delle difese dell’Amministrazione, che l’accertamento catastale conseguente a DO.C.FA. non richieda particolare motivazione4 e che l’unità immobiliare sia effettivamente molto apprezzabile, ad esempio, in ragione della pregevole esposizione, da cui si gode una splendida vista sul mare.

Giunti, così, alla conclusione dei gradi di merito, siamo arrivati al momento in cui occorre interrogarsi circa le possibilità di impugnazione, in sede di legittimità, di una decisione siffatta.

2. Tralasciando il motivo di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio), in quanto eccessivamente correlato alle specificità di ogni singola vicenda, e ipotizzando dunque di non poter in alcun modo porre in discussione l’accertamento fattuale operato dalla sentenza di seconde cure, conviene soffermarsi, anzitutto, sul vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).

Orbene, nella prospettiva di tale vizio, un ostacolo apparentemente insormontabile pare immediatamente rappresentato dal carattere non normativo delle definizioni delle diverse categorie catastali sulle quali si basa l’attività di classamento dell’Amministrazione finanziaria.

La nozione di Abitazione di tipo signorile (A/1)5 è, infatti, contenuta nella circ. 14 marzo 1992, n. 5 del Ministero delle Finanze – Catasto e Servizi Tecnici Erariali, vale a dire un atto privo di valore normativo. Idem dicasi, a maggior ragione, per quanto concerne i cc.dd. prospetti 9 (richiamati dalla circolare), documento, a sua volta, formalmente privo di valore normativo e finanche di difficile accessibilità, in quanto custodito nei penetrali degli Uffici finanziari e consultabile soltanto con grande difficoltà6.

Tornando all’esempio in considerazione, se la definizione di immobili signorili fosse contenuta all’interno di un atto normativo, si potrebbe fondatamente sostenere, sub art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., che la sentenza di secondo grado esemplificata nel precedente paragrafo sia incorsa nella violazione di tale criterio, atteso che la “splendida vista sul mare” non rientra tra gli elementi rilevanti ai fini del classamento, a differenza di altre qualità (caratteristiche costruttive, tecnologiche e di rifiniture) sulle quali la sentenza non si è, invece, minimamente soffermata.

Né la circ. min. n. 5/1992, né i cc.dd. prospetti 9, tuttavia, hanno, come ricordato, valore normativo, sicché la deducibilità di tale errore non pare prima facie deducibile sub specie di error in iudicando.

L’approccio della giurisprudenza di legittimità su tale punto non appare, tuttavia, univoco, benché, ovviamente, la Suprema Corte non si sia mai spinta ad ammettere in modo espresso la sindacabilità – sub art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – della “violazione” della circ. min. n. 5/1992 o dei cc.dd. prospetti 9.

Occorre, sul punto, dare atto, anzitutto, di un orientamento più rigoroso e processualmente lineare (ancorché certamente restrittivo rispetto alle possibilità di sindacato offerte al contribuente), secondo cui la natura non normativa dei criteri in questione rende la valutazione della corte di merito insindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione di legge.

A tale indirizzo si può, ad esempio, ricondurre, Corte Cass., sez. V, sent. 12 novembre 2014, n. 24082, secondo cui «l’atto (classamento) con cui l’amministrazione colloca ogni singola unità immobiliare in una determinata categoria, in una determinata classe di merito e le attribuisce una rendita non è oggi disciplinato da precisi riferimenti normativi: la legge si limita, infatti, a prevedere la elaborazione di un reticolo di categorie e classi catastali e demanda la elaborazione di tali gruppi, categorie e classi all’Ufficio tecnico erariale (Cass. n. 3394 del 2014), sicché, per un’esatta applicazione della normativa è spesso necessario far riferimento a fattori e dati raccolti in circolari dell’Amministrazione». Ne consegue – prosegue la Corte – che «ove il proprietario ritenga che il classamento (o la modifica catastale) sia inadeguato o erroneo (per esempio, in riferimento al carattere “ordinario” o “speciale” del bene) potrà adire il giudice tributario, ed in tal caso il relativo apprezzamento, attenendo ad una valutazione di fatto, può esser censurato, in sede di legittimità, sul terreno della congruità della motivazione e non sotto il profilo della violazione di legge».

4. All’orientamento di cui si è dato conto nel precedente paragrafo, se ne affianca un altro, tuttavia, che – sempre senza riconoscere valore normativo ai criteri applicabili in materia di classamento – di fatto ne valuta però l’applicazione, da parte del Giudice di merito, sotto la lente della violazione di norme di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.

Ad esempio, Corte Cass., sez. V, ord. 8 aprile 2024, n. 9358 – dopo aver premesso che «la legge non pone una specifica definizione delle categorie e classi catastali» – perviene, sulla scorta della circ. min. n. 5/1992, alla affermazione del «seguente principio di diritto: “La corte o giardino – che pure debbono necessariamente sussistere quale elemento differenziatore di ville (A8) e villini (A7) rispetto alle unità immobiliari classificabili come abitazioni di tipo civile (A2) – non debbono essere necessariamente asservite ad uso esclusivo dell’immobile abitativo da censure”». Al di là della condivisibilità o meno di tale “principio”, ciò che sorprende – alla luce delle stesse premesse poste dalla Suprema Corte – è che sia possibile affermare un “principio di diritto” unicamente fondato sulla circolare del 1992.

L’ambiguità di tale orientamento di legittimità trova forse la sua massima espressione in Corte Cass., sez. V, ord. 19 maggio 2021, n. 23391, riferita a un caso in cui l’Agenzia delle Entrate lamentava con unico motivo «ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 652 del 1939, artt. 1, 8, 9 e 10, nonché del D.P.R. n. 1142 del 1949, artt. 6, 7 e ss. per avere la commissione tributaria regionale subordinato l’attribuzione della categoria A7 all’esistenza di un “giardino ad uso esclusivo”, nonostante che l’esclusività del giardino non fosse a tal fine richiesta dalla normativa di riferimento e, in particolare, dalla Circolare 14 marzo 1992, n. 5».

A fronte di tale unica censura, dedotta per violazione di norme in relazione alle definizioni delle categorie catastali desumibili dalla più volte richiamata circolare del 1992, la Corte di Cassazione – dopo aver affermato che «i criteri di classificazione delle unità immobiliari non sono contenuti, allo stato, in un corpo normativo organico, rispondendo invece seppure nell’ambito della su citata disciplina generale di risalente matrice legislativa – ad una frammentaria disciplina regolamentare di natura amministrativa» – ha accolto il ricorso dell’Amministrazione ritenendo «erronea in diritto, nella sua assolutezza, la su riportata affermazione della CTR, secondo cui la presenza di un resede “ad uso esclusivo” costituirebbe requisito indefettibile per classificare in A7 l’unità immobiliare».

Anche in questo caso, dunque, la Corte afferma un principio di diritto che, evidentemente, di diritto non è7.

Volendo, dunque, trarre dalle considerazioni che precedono una conclusione di carattere operativo, appare, in definitiva, consigliabile – a fronte dell’incertezza di cui si è dato conto – non rinunciare aprioristicamente alla deduzione del vizio di violazione di norme ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., da riferire in questo caso al R.D.L. n. 652/1939 e al D.P.R. n. 1142/1949, in “combinato disposto” (l’espressione è impropria, ma riflette l’approccio della Corte di legittimità nelle decisioni da ultimo richiamate) con la circ. min. n. 5/1992 e con le definizioni ivi previste.

5. Proseguendo nell’analisi della giurisprudenza della Suprema Corte sembra, poi, di poter scorgere un’altra tecnica attraverso la quale dedurre, in sede di legittimità, il vizio consistente nella difettosa applicazione dei criteri desumibili dalla prassi dell’Amministrazione finanziaria (in primis la più volta citata circ. min. n. 5/1992 e i cc.dd. prospetti 9 da questa richiamati).

Diversi precedenti suggeriscono, infatti, che la mancata considerazione, da parte della corte di merito, delle caratteristiche di pregio dalle quali dipende, secondo i predetti documenti di prassi, il classamento in categoria signorile (o, per converso, la valorizzazione di elementi inconferenti) potrebbe rilevare in termini di inadeguatezza della motivazione della decisione giurisdizionale, da considerarsi in parte qua sostanzialmente inesistente o meramente apparente ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.

Tale via è stata tracciata dalla Corte quanto meno a far data dalla già richiamata Corte Cass., sez. V, sent. 12 novembre 2014, n. 24082, secondo cui l’apprezzamento del giudice tributario in materia catastale, «attenendo ad una valutazione di fatto, può esser censurato, in sede di legittimità, sul terreno della congruità della motivazione e non sotto il profilo della violazione di legge».

Più di recente, negli stessi termini, Corte Cass., sez. V, ord. 21 ottobre 2022, n. 31262 – dopo aver ribadito (in adesione all’orientamento più rigoroso di cui si è dato conto nel precedente paragrafo) che «le disposizioni in tema di classamento» risultano «connotate dal difetto di un’espressa definizione legislativa in punto di distinzioni tipologiche tra le categorie catastali» – ha spostato l’attenzione sul piano della congruità della motivazione (in tal caso censurata sub art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.), osservando che, in materia catastale, «vengono in considerazione i dati di stima che, – incentrati su unità immobiliari di riferimento, consentono di ripercorrere il processo estimativo secondo coordinate fattuali volte ad identificare, in una valutazione di sintesi, i caratteri tipologici di una data unità immobiliare rispetto a quella assunta, per l’appunto, a termine di riferimento». La Corte è, dunque, giunta, in tale occasione, a cassare la sentenza di merito per aver «risolto la lite contestata sulla base di una sequela di asserzioni meramente apodittiche, e prive di ogni effettivo contenuto, senza dar conto, così, di quali fossero le effettive finiture dell’unità immobiliare».

Ciò che appare di sicuro interesse, ai fini in considerazione, è che, in tal modo, si rende esperibile, anche in sede di legittimità, uno scrutinio circa la coerenza del classamento deciso in sede di merito rispetto ai criteri di riferimento (ancorché desunti da atti di prassi privi di valore normativo), consentendo di censurare tutte quelle decisioni che – come quella esemplificata in premessa – risultino fondate su un apprezzamento personale e soggettivo del Collegio di seconde cure.

Per tornare all’esempio iniziale, una decisione di merito che dovesse confermare il classamento di un appartamento in categoria signorile unicamente in ragione della splendida vista che lo caratterizza potrebbe essere, sotto tale profilo, ritenuta affetta da motivazione inesistente o meramente apparente per non aver dato conto dell’iter logico (da correlare necessariamente ai criteri desumibili dalla circ. min. n. 5/1992 e dai cc.dd. prospetti 9) sotteso a tale conclusione.

6. Le considerazioni svolte nel precedente paragrafo dovrebbero, a ben vedere, suscitare (in primis nei Giudici di merito) una riflessione ulteriore, sempre in tema di motivazione, ma in questo caso non della decisione di appello, bensì dell’avviso di accertamento impugnato; aspetto questo senz’altro deducibile, in sede di legittimità, sotto il profilo della violazione dell’art. 7 L. n. 212/2000 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.

Si è appena osservato, infatti, come – secondo un condivisibile orientamento di legittimità – debba considerarsi apparentemente motivata (e, dunque, nulla) la decisione di merito che stabilisca un determinato classamento senza un adeguato riguardo alle caratteristiche rilevanti alla stregua dei criteri di riferimento (vale a dire le caratteristiche costruttive, tecnologiche e di rifiniture indicate nella circ. min. n. 5/1992, ulteriormente dettagliate dai cc.dd. prospetti 9). In tale prospettiva, ad esempio, una sentenza che si limitasse ad affermare, in modo apodittico, che l’immobile accertato presenta finiture e caratteristiche di pregio tali da determinarne il classamento in categoria signorile, senza dar conto di quali siano, incorrerebbe, con ogni probabilità, nella censura della Suprema Corte.

Ma allora – viene da domandarsi – per quale ragione, in ossequio a un orientamento che sembra ormai incarnare il diritto vivente in materia8, analoga adeguatezza sul piano motivazionale non viene pretesa, prima di tutto, dall’avviso di accertamento emesso dall’Amministrazione finanziaria?

Perché, in altri termini, si ammette che l’Agenzia delle Entrate, in materia catastale, possa emettere un avviso di accertamento recante, in buona sostanza, esclusivamente la parte dispositiva (vale a dire i nuovi dati di classamento accertati), senza la parte motivazionale (le ragioni di fatto fondanti la parte dispositiva, da correlarsi, anzitutto, all’individuazione in concreto delle finiture valutate ai fini del classamento)?

Si tratta, a sommesso avviso di chi scrive, di una contraddizione (una radicale asimmetria – si potrebbe dire – tra lo standard motivazionale imposto all’Amministrazione e quello richiesto al Giudice) sulla quale tanto le corti di merito quanto la Corte di Cassazione dovrebbero essere insistentemente sensibilizzate nell’auspicio (forse irrealistico, ma da non abbandonare) di addivenire ad un ripensamento dell’orientamento (purtroppo, come ricordato, assai consolidato) in tema di motivazione “semplificata” degli avvisi di accertamento in materia catastale.

Gli argomenti, tutti deducibili sub art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., a supporto di tale ripensamento, del resto, non mancano. Senza pretesa di esaustività, si osserva che, anzitutto, anche volendo enfatizzare la rilevanza della cognizione di merito attribuita al Giudice tributario9, il “momento” in cui deve aver luogo l’accertamento della fattispecie è rappresentato dall’istruttoria amministrativa, prima ancora che dalla sede processuale. Non è, dunque, in tale ottica, ragionevole che la corte tributaria sia chiamata a svolgere un compito istruttorio e motivazionale superiore rispetto a quello gravante sull’Amministrazione (disponendo, peraltro, a tal fine, di ben più limitati poteri istruttori e risorse).

Lo stesso fondamento teorico su cui viene abitualmente fondato l’orientamento in tema di motivazione “semplificata” delle rettifiche catastali conseguenti a DO.C.FA. appare, poi, estremamente discutibile. La giurisprudenza è, infatti, solita fare riferimento, a tale riguardo, al carattere asseritamente “partecipato” della procedura, in ragione del quale il contribuente – avendo rappresentato la situazione di fatto dell’immobile (che l’Amministrazione si limiterebbe esclusivamente a recepire e valutare) – sarebbe posto nelle condizioni di desumere (implicitamente) le ragioni del nuovo classamento, anche in difetto di una loro puntuale esplicitazione all’interno del provvedimento10.

Sennonché, non può farsi a meno di osservare che il contraddittorio con il contribuente rappresenta, nell’attuale assetto dell’ordinamento tributario, un principio generale, al pari dell’obbligo di motivazione degli atti emessi dall’Amministrazione finanziaria (tanto è vero che sia l’uno che l’altro principio trovano collocazione all’interno dello Statuto del contribuente, rispettivamente agli artt. 6-bis e 7 L. n. 212/2000).

Ebbene, proprio perché si tratta, in entrambi i casi, di principi generali, a nessuno verrebbe in mente di sostenere, ad esempio, che un atto impositivo recante l’accertamento di maggiore IRPEF possa – (soltanto) in quanto preceduto dalla notificazione di uno schema d’atto ex art. 6-bis L. n. 212/2000 – contenere esclusivamente l’indicazione del maggior reddito accertato e delle maggiori imposte pretese, senza alcuna indicazione delle ragioni di fatto e di diritto su cui tale rideterminazione si fonda.

Non si comprende, allora, per quale motivo, una tale soluzione debba essere accolta con tanta rassegnazione nell’ambito catastale, ove il livello del contraddittorio che si instaura tra l’Amministrazione e il contribuente è, peraltro, di gran lunga inferiore (e assai meno adeguato a far conoscere al contribuente le ragioni dell’Amministrazione) rispetto a quello che si realizza nel contesto dell’accertamento delle imposte. Basti pensare che la struttura partecipativa che (secondo la giurisprudenza) caratterizzerebbe la procedura DO.C.FA. consiste in una proposta da parte del contribuente e in una rettifica di tale proposta ad opera dell’Amministrazione. Sennonché, per giungere dall’una all’altra è necessario un salto, dal punto di vista logico e cognitivo, che il contribuente, in assenza di più specifiche indicazioni all’interno del provvedimento, deve compiere esclusivamente con la propria immaginazione. È un po’ – si conceda il paragone – come se, a fronte di un reddito dichiarato di centomila euro, l’Amministrazione notificasse un atto impositivo recante l’accertamento di un reddito complessivo di duecentomila euro, senza l’indicazione delle ragioni di fatto su cui tale recupero si fonda, sull’assunto che il contribuente dovrebbe implicitamente desumerle dalla differenza tra quanto dichiarato e quanto accertato.

7. Lo “spazio vuoto” che, dal punto di vista logico e motivazionale, si viene, come osservato, a creare tra il classamento proposto dal contribuente con il DO.C.FA. e l’avviso di accertamento con cui tale classamento viene rettificato finisce, non di rado, per costituire una sorta di terra nullius, che l’Amministrazione finanziaria si sente libera di riempire, a giudizio instaurato (e dopo aver preso contezza delle censure proposte dal contribuente in sede di ricorso), con i più disparati argomenti ed elementi (ad esempio, caratteristiche di pregio non indicate nel DO.C.FA. né menzionate nell’avviso di accertamento, comparables ulteriori rispetto a quelli in precedenza indicati, fotografie estratte da annunci immobiliari riferiti a non meglio precisati immobili limitrofi).

Si realizza così (nella maggior parte dei casi, non di rado con la placida tolleranza della Corte di merito) una singolare inversione: non è più, infatti, il ricorso ad essere rivolto avverso la motivazione dell’accertamento, ma la motivazione dell’accertamento ad essere elaborata (ed espressa per la prima volta soltanto in giudizio) in reazione al ricorso.

Tale anomala condotta è, di norma, impedita da due principi fondamentali del nostro ordinamento che sono l’obbligo di motivazione e il suo divieto di integrazione postuma in sede giurisdizionale, per effetto dei quali l’Amministrazione, in giudizio, può difendere il proprio provvedimento, ma non integrarne o modificarne i presupposti di fatto e di diritto. Nel caso delle rettifiche catastali, invece, l’affievolimento dell’obbligo di motivazione finisce per riflettersi in un’attenuazione (se non nella totale obliterazione) del divieto di sua postuma integrazione.

Quella appena descritta – a parte rappresentare, indubbiamente, un’ulteriore criticità dell’orientamento in tema di motivazione “semplificata” degli avvisi di accertamento in materia catastale (quanto meno nella sua più diffusa applicazione) – potrebbe offrire, a ben vedere, alcune interessanti prospettive di tutela per il contribuente, anche, per così dire, de iure condito.

Tornando, infatti, alla ratio su cui si fonda tale orientamento, si è detto che l’Amministrazione finanziaria può astenersi dall’esplicitare le ragioni sottese alla rettifica catastale unicamente in quanto si limiti a valutare diversamente la stessa situazione di fatto rappresentata dal contribuente all’interno del DO.C.FA., senza apportarvi rettifiche o modificazioni di sorta. Ne consegue allora, secondo quanto affermato anche dalla Corte di Cassazione, che laddove «la rendita proposta con la Docfa non venga accettata in ragione di ravvisate differenze relative a taluno degli elementi di fatto indicati dal contribuente», l’Ufficio «dovrà appunto specificarle, sia per consentire al contribuente di approntare agevolmente le consequenziali difese, che per delimitare, in riferimento a dette ragioni, l’oggetto dell’eventuale successivo contenzioso, essendo precluso all’Ufficio di addurre, in giudizio, cause diverse rispetto a quelle enunciate»11.

Tale principio – coessenziale rispetto all’affermazione della motivazione semplificata (ma non di rado dimenticato, in sede applicativa, dalla giurisprudenza di merito) – ha, ad esempio, di recente (finalmente) condotto la Suprema Corte ad imporre un vero e proprio obbligo di motivazione in tutti i casi di rettifica del numero complessivo dei vani dichiarati «non potendosi assumere l’invarianza dei dati oggettivi rappresentati nella dichiarazione docfa se, per l’appunto, la rideterminazione del numero complessivo dei vani può trovare la sua ragion d’essere in una difforme considerazione (così in una immutazione) degli elementi di fatto che, a vario titolo, concorrono alla identificazione del vano utile»12.

Se nel caso appena menzionato (rettifica del numero di vani) la “immutazione” della situazione di fatto rappresentata dal contribuente è evidente (a fronte di un certo numero di vani indicato in sede di DO.C.FA. se ne accerta uno diverso nell’avviso di accertamento), si suggerisce che ad analoghe conclusioni non possa non pervenirsi anche in tutte le ulteriori situazioni in cui l’Ufficio, nelle proprie difese in giudizio, dia mostra di aver valorizzato – ai fini della rettifica del classamento – elementi di fatto che non erano stati indicati all’interno del DO.C.FA., né valorizzati nell’avviso di accertamento.

Il concetto di “immutazione” dovrebbe, in tal senso, essere misurato sulla base degli elementi di fatto prospettati dal contribuente in sede di compilazione del DO.C.FA. (che, peraltro, viene redatto sulla base di un modulo predisposto dalla stessa Amministrazione), con la conseguenza che ogni ulteriore elemento rilevante (finitura, decorazione, accessorio, ecc.) riferito all’immobile accertato che non sia indicato nel DO.C.FA. dovrà essere specificato all’interno della motivazione dell’avviso di accertamento e, in caso contrario, ritenuto completamente irrilevante e non valutabile in sede giurisdizionale.

In tale prospettiva, riprendendo l’esempio iniziale, se l’Amministrazione si propone di sostenere che un immobile presenti caratteristiche di signorilità in ragione della splendida vista che si può fruire dalle sue finestre dovrà necessariamente darne conto in sede di motivazione (posto che, tra l’altro, la vista non è uno degli elementi suscettibili di menzione all’interno del DO.C.FA.), non potendo, diversamente, invocare validamente tale elemento in sede di giudizio.

Dal punto di vista operativo, si suggerisce, dunque, di procedere ad un attento raffronto tra (a) la situazione rappresentata in sede di DO.C.FA.; (b) gli elementi considerati in sede di motivazione dell’avviso di accertamento (tendenzialmente nessuno in tutti i casi – assolutamente prevalenti a livello di prassi – di motivazione “semplificata”); (c) gli aspetti valorizzati dalla sentenza di merito a supporto della conferma del classamento rettificato dall’Ufficio.

Laddove, infatti, tale raffronto dia esiti divergenti, la sentenza dovrebbe essere censurata per violazione dell’art. 7 L. n. 212/2000, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. nella parte in cui ha confermato la legittimità di un provvedimento affetto da motivazione carente, così implicitamente permettendone una (inammissibile) integrazione postuma in sede giurisdizionale.

(*) Testo della Relazione presentata in occasione dell’incontro organizzato dall’Associazione Nazionale Tributaristi Italiani – Sezione Liguria e dall’Associazione Magistrati Tributari – Sezione Liguria in data 5 maggio 2025.

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Lovisolo A., La rideterminazione dei vani catastali necessita una motivazione specifica – Rettifica del classamento catastale: “qualcosa è cambiato”!, in GT – Riv. giur. trib., 2025, 4, 335 ss.

Melis G., L’onere della prova nel diritto tributario dopo la legge n. 130 del 2022 e il D.Lgs. n. 219 del 2023, in Dir. prat. trib., 2024, 5, 1682 ss.

1 D.M. 19 aprile 1994, n. 701, emanato in attuazione dell’art. 2 D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 1993, n. 75.

2 R.D. 13 aprile 1939, n. 652, convertito in L. 11 agosto 1939, n. 1249 e successivamente modificato con D.Lgs. 8 aprile 1948, n. 514; D.P.R. 1° dicembre 1949, n. 1142; D.L. 14 marzo 1988, n. 70, convertito in L. 13 maggio 1988, n. 154.

3 Analisi della dichiarazione DO.C.FA. presentata, disamina delle caratteristiche intrinseche dell’immobile, analisi del contesto urbanistico e delle caratteristiche estrinseche, verifica delle consistenze dichiarate in termini di altezza, disposizione dei vani, dotazione di servizi, verifica della categoria e della classe dichiarate alla luce della sopra indicate caratteristiche.

4 La giurisprudenza di legittimità ha da tempo accolto un orientamento secondo cui la rettifica conseguente a DO.C.FA., in ragione del carattere asseritamente partecipativo della procedura, consentirebbe all’Amministrazione di motivare la rettifica attraverso la mera indicazione dei nuovi dati di classamento. Tale posizione, per limitarsi ad alcune recenti decisioni, è stata ribadita, ad esempio, da Cass, sez. V, ord. 1° marzo 2025, n. 5451; Cass., sez. V., ord. 4 settembre 2023, n. 25682; Cass., sez. V, ord. 24 febbraio 2021, n. 4955; Cass., sez. VI, ord. 23 febbraio 2021, n. 4807. In senso critico, in dottrina, si veda da ultimo Melis G., L’onere della prova nel diritto tributario dopo la legge n. 130 del 2022 e il D.Lgs. n. 219 del 2023, in Dir. prat. trib., 2024, 1688-9, il quale registra, in tema di “accertamenti DOCFA”, una «preoccupante tendenza della giurisprudenza ad una più benevola valutazione di tali accertamenti anche in mancanza di una rigorosa prova sulla base di una (invero inesistente!) “partecipazione” del contribuente alla procedura di classamento».

5 «Unità immobiliari appartenenti a fabbricati ubicati in zone di pregio con caratteristiche costruttive, tecnologiche e di rifiniture di livello superiore a quello dei fabbricati di tipo residenziale. Detti immobili devono inoltre rispondere ai requisiti indicati dall’Ufficio in sede di classamento automatico (punti 1, 3 e 9 dei prospetti 9) e per quanto riguarda la consistenza e la dotazione di servizi delle unità immobiliari, ai requisiti indicati ai punti 10, 11 e 14 dei citati prospetti».

6 Le stesse corti tributarie si sono viste in molti casi costrette, al fine di consultare tale documento, a ordinarne l’esibizione in giudizio, da parte dell’Amministrazione finanziaria, nell’esercizio dei propri poteri istruttori.

7 Singolarmente, peraltro, a fronte dell’invocazione, da parte dei contribuenti (controricorrenti) dei medesimi criteri di matrice amministrativa, la Corte, nella medesima decisione, conclude, soltanto poche righe dopo, rilevando che «il regime catastale rileva obiettivamente nell’ambito di non disponibili criteri generali ed uniformi di classificazione». Viene da osservare, tuttavia, che – se così è – allora il ricorso dell’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile.

8 In questa limitata accezione, nel titolo del presente paragrafo e di quello successivo, si è fatto riferimento a tale orientamento come ius conditum.

9 Sulla configurazione del processo tributario come giudizio di “impugnazione-merito” cfr. nella giurisprudenza più recente Cass., sez. V, ord. 22 marzo 2025, n. 7636; Cass., sez. V, ord. 20 febbraio 2025, n. 4445; Cass., sez. V, ord. 16 gennaio 2024, n. 1707; Cass., sez. V, ord. 4 luglio 2022, n. 21133. In dottrina si vedano ex plurimis Giovanardi A., La motivazione degli atti impositivi tra legge e giudizio, in Dir. prat. trib., 2025, 1, 252; Corraro D., L’oggetto del giudicato tributario, Padova 2024; Emone D., Poteri sostitutivi del giudice tributario e applicazioni officiose delle presunzioni: un mix letale per il giusto processo e il giusto procedimento tributario, in Riv. dir. trib., 2021, 1, 204 ss.; Glendi C., Prova testimoniale, principio dispositivo, onere della prova e oggetto del processo tributario, in Riv. giur. trib., 2007, 9, 741 ss.

10 Cfr. supra nota 4.

11 Cass., sez. V, sent. 17 gennaio 2018, n. 977.

12 Cass., sez. V, sent. 26 giugno 2024, n. 17624, accolta con condivisibile favore, in dottrina, da Lovisolo A., La rideterminazione dei vani catastali necessita una motivazione specifica – Rettifica del classamento catastale: “qualcosa è cambiato”!, in GT – Riv. giur. trib., 2025, 4, 335 ss.

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