RECENTISSIME DALLA CORTE COSTITUZIONALE E DALLA CORTE EDU – Corte cost. 3 luglio 2025, n. 93 e Corte EDU, 24 giugno 2025, Aksüngür and others v. Serbia – Dazi, diritti e sanzioni doganali, tra riforme e aggiustamenti tettonici.

Di Alberto Marcheselli -

La massima (*)

È un momento di particolare vivacità nel settore doganale, in generale, come risulta dalle cronache internazionali e, in particolare, delle sanzioni per le violazioni afferenti i diritti di confine.

Su questa seconda materia, oltre a interventi legislativi (il D.Lgs. n. 141/2024 e il D.lgs. n. 81/2025, c.d. decreto correttivo) si sono succedute alcune pronunce di clamoroso interesse.

La Corte costituzionale, con la sentenza 3 luglio 2025, n. 93, ha dichiarato la incostituzionalità della applicazione della confisca alle merci per le quali sia stata evasa l’IVA all’importazione, in quanto soluzione sproporzionata. La decisione non ha eliminato la possibilità di confisca secondo la disciplina doganale per l’IVA all’importazione, ma ritenuto solo sproporzionata la sua applicazione alle merci, quando tributo, sanzioni e interessi siano stati pagati.

Poiché la declaratoria di incostituzionalità ha colpito il regime previgente, in sede amministrativa e penale, ma la confisca viene confermata anche dalla disciplina successiva, sia per IVA all’importazione, sia per dazi, si porrà subito un delicato problema di legittimità costituzionale della disciplina della recente riforma.

Tali problemi vengono amplificati anche dalla giurisprudenza della Corte EDU (Corte EDU, 24 giugno 2025, Aksüngür and others v. Serbia), che si inscrive nella più ampia giurisprudenza della Corte in materia e ha, come si vedrà, formulato delle indicazioni preziosissime in punto proporzionalità delle misure di confisca in genere.

Entrambe queste linee giurisprudenziali proiettano delle ombre sinistre sulla recente riforma delle sanzioni per violazioni attinenti i diritti di confine.

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Il (tentativo di) dialogo

1. Confisca disposta a seguito delle violazioni doganali e questioni in tema di proporzionalità.

La confisca consiste nella privazione di beni economici ed è finalizzata, secondo i casi, a punire e/o prevenire la commissione di nuove violazioni. La funzione preventiva, propria di una misura di sicurezza o preventiva in senso proprio, si attua mediante l’acquisizione da parte dello Stato di cose che, in quanto provenienti dall’illecito o ad esso variamente collegate, ove lasciate nella disponibilità del reo, manterrebbero viva l’idea e l’attrattiva del violare le disposizioni.

Alle diverse categorie di beni oggetto di confisca nel sistema doganale corrisponde, in realtà, una diversa funzione e natura della confisca doganale che, pertanto, è un istituto multiforme, sia nella dimensione amministrativa che penale.

Sono confiscate, innanzitutto, le “cose che servirono o che furono destinate a commettere il reato” (in materia amministrativa, invece i soli mezzi di trasporto utilizzati nella violazione artatamente modificati). Tali utilità debbono essere collegate alla violazione non da un rapporto di mera occasionalità, ma da un legame eziologico diretto ed essenziale, nel senso che il mezzo deve avere reso possibile un’esecuzione criminosa altrimenti non attuabile, almeno così come concepita dall’agente. Ciò implica che le res confiscabili debbano essere rigidamente limitate a quelle legate al reato da un effettivo nesso strumentale, onde evitare che un’eccessiva indeterminatezza finisca per tradursi in forme di ingiustificata espropriazione (nel regime previgente, Cass. pen., sez. III, sent. 26 maggio 2010, n. 25887 del; Cass. pen., sez. I, 12 maggio 1993, sent. n. 2227; Cass. pen., sez. I, sent. 23 luglio 1964, n. 11185 del).

In effetti, sul piano sistematico, vanno distinti gli strumenti intrinsecamente pericolosi, da quelli semplicemente utilizzati nel reato. La distinzione appare razionalmente particolarmente, ma non solo, importante quanto ai beni del terzo, perché incide sulla valutazione della proporzionalità della confisca del bene del terzo estraneo colpevole di mera negligenza: è dubbio che possa essere proporzionata la confisca di un bene in sé non pericoloso, solo perché non adeguatamente sorvegliato (ad esempio, un veicolo non alterato).

In effetti, la confisca della cosa utilizzata per commettere il reato, che non sia in sé pericolosa, possibile in materia penale, non appare giustificata dalla logica preventiva (per uno spunto di conferma, Corte cost., 4 febbraio 2025, n. 7, par. 3.1.2): disporre di un veicolo non modificato, ad esempio, non è un incentivo a commettere contrabbandi. Per questa parte si tratta di una confisca che ha una evidente funzione sanzionatoria. Funzione sanzionatoria che può essere anche clamorosamente sproporzionata, visto che si assomma alle sanzioni in senso proprio e può colpire beni di valore sproporzionatamente alto rispetto all’entità del danno provocato dalla condotta (ad esempio, un contrabbando di merce effettuato con l’uso di un natante di lusso).

Non a caso la Corte costituzionale ha avuto occasione di reputare incostituzionale la previsione di una confisca obbligatoria generalizzata e automatica, sia in forma diretta che per equivalente, per gli strumenti del reato di aggiotaggio di cui all’art. 2641 c.c. (Corte cost. 4 febbraio 2025, n. 7).

Tali considerazioni parrebbero, a logica sistematica, esportabili anche alla materia doganale, salvo giustificare il regime più severo su una – peraltro difficilmente dimostrabile – maggiore gravità delle violazioni doganali. Anche ammessa una maggiore gravità (il delitto di omicidio, per esempio, appare almeno altrettanto grave, ma la confisca degli strumenti non pericolosi non è obbligatoria per tale gravissimo delitto) non è detto poi infatti che la confisca dello strumento dovrebbe essere automaticamente proporzionata: a violazioni più gravi debbono seguire sanzioni più severe, ma non sproporzionate.

È poi confiscato “l’oggetto del reato”. Nel caso specifico si fa riferimento ai beni che sono stati oggetto delle attività di contrabbando, prescritta come obbligatoria sia in sede amministrativa che penale.

In effetti, la confisca tout court dei beni oggetto della violazione pare porre notevoli problemi sistematici di proporzionalità. Innanzitutto, è palese che difetta del “requisito di pericolosità”. Tale pericolosità sussiste certamente per il profitto della violazione (di cui tratteremo subito di presso) o per le cose pericolose utilizzate per lo stesso (es. autoveicoli modificati per celare le merci contrabbandate) ma, per vero, non pare indefettibilmente immanente alla merce trasportata, il cui valore può essere (anzi, di norma è) superiore ai diritti di confine evasi (che costituiscono il profitto e sono calcolati come una quota del valore della merce).

Tale sproporzione e mancanza di giustificazione rispetto alla finalità preventiva conduce alla conclusione di una finalità punitiva della confisca della merce (condivisa da Corte cost., 7 luglio 2025, n. 93, ad esempio, par. 7.4). Ma anche attribuendo finalità e natura punitiva alla confisca dell’oggetto del contrabbando, la conclusione non muta: la confisca si assomma alle sanzioni proprie e al dovere di pagamento del tributo, ridondando in una sproporzione che appare abbastanza evidente.

Tale sproporzione della confisca della merce, se intesa quale misura di sicurezza, permane anche tenuto conto dell’istituto del riscatto della merce confiscata previsto all’art. 118 D.Lgs. n. 141/2024, visto che comunque il riscatto presuppone la perdita economica del valore della merce e che esso resta per definizione superiore al tributo evaso, che ne costituiva una aliquota. La confisca penale, infatti, resta preclusa solo nel caso ravvedimento operoso intervenuto prima della conoscenza di qualunque controllo (art. 112, comma 2). In effetti, se la ratio della confisca è evitare la pericolosità correlata alla conservazione della cosa, questa pericolosità sussiste per il profitto o le cose pericolose perché incentivano o agevolano la commissione di reati futuri, ma non certo per la merce. E, a rovescio, se conservare la merce fosse pericoloso, non si capisce fino in fondo perché dovrebbe consentirsi di mantenerla a chi si ravvede.

Ciò conferma, con evidenza logica che pare meridiana, che, al contrario di quanto opina parte della giurisprudenza, la confisca in questi casi è una vera e propria pena (o sanzione amministrativa, per le violazioni non penali), di assai dubbia proporzionalità e legittimità.

Ne deve conseguire che ad essa dovrebbe applicarsi lo statuto della sanzione punitiva (ad esempio, in termini di irretroattività delle modifiche in peius e tendenziale retroattività di quelle in melius, ecc. e, appunto, proporzionalità).

Su questo si innesta la prima delle due sentenze citate all’inizio. Tale considerazione è stata condivisa, infatti e termini generali dalla Corte costituzionale, che ha assunto che sia incostituzionale, rispetto all’IVA all’importazione, nel regime previgente, la applicazione della confisca della merce, sia in sede penale che amministrativa: il sequestro e la confisca avrebbero una funzione di “garanzia” del pagamento dell’IVA, tale che è incostituzionale la norma che ne preveda la applicazione anche quando il tributo, sanzioni, interessi siano stati pagati (Corte cost., 7 luglio 2025, n. 93).

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2. Corollari e paralipomeni della giurisprudenza della Corte

Tale pronuncia suggerisce alcune osservazioni.

La prima è che, a ben vedere la sproporzione esiste anche rispetto a una funzione di garanzia: la confisca eccede l’importo del tributo evaso e gli accessori, ma nell’eccederlo lo assorbe. Non pare così scontato che la confisca resti legittima se il tributo e gli accessori non vengono pagati. Si comprende come essa in pratica sia una potentissima spinta ad adempiere, ma è proporzionato sanzionare chi non adempie con la confisca del tutto? Da meditare è poi anche la finalizzazione della confisca al pagamento, non solo del tributo, ma anche della sanzione: essa sembra assumere una finalità punitiva, per chi non paghi le sanzioni, configurando per questa parte anche una sanzione al quadrato, per così dire.

La seconda è che la confisca della merce, dichiarata incostituzionale nel regime previgente, è confermata dalla riforma, in sede amministrativa e penale, sulla quale quindi si appunta immediatamente una possibile censura di illegittimità costituzionale.

La terza è che, secondo la logica sistematica, tali considerazioni dovrebbero essere esportabili a tutte le confische di diritti di confine, non solo l’IVA all’importazione: il valore della merce eccede il tributo da riscuotere su di essa. Poiché la Corte (in particolare al par. 5.2) tuttavia enfatizza, nel pronunciare la incostituzionalità della disciplina della confisca in tema di IVA, la differenza dell’IVA all’importazione (anche in punto neutralità) rispetto ai dazi e la confronta con la IVA interna, resta possibile (e prevedibile, dai difensori degli interessi di cassa) il tentativo di argomentare che resti giustificata la confisca delle merci oggetto di sottrazione ai dazi, considerata la loro particolarità e l’offensività degli interessi finanziari asseritamente di maggiore gravità.

Si tratta di tesi che è prevedibile venga avanzata, ma che pare poco perspicua. A una pretesa maggiore gravità non può corrispondere il sacrificio, in senso assoluto, del principio di proporzionalità (che è esattamente l’adeguamento della sanzione alla gravità). Ciò a maggior ragione nella misura in cui si tratta di una sanzione rigida e automatica, che non tiene in alcun conto né i profili personali, né dati oggettivi (l’unica variabile essendo la quantità delle merci oggetto della violazione: indubbiamente un parametro di gravità, ma non l’unico).

Esiste, infatti, un vasto arcobaleno di varie situazioni diverse, a parità di cose trasportate, i cui criteri di valutazione sono sistematicamente desumibili – anche indipendentemente dalla diretta applicazione – dall’art. 133 c.p. e, per le sanzioni amministrative, dall’art. 7 D.Lgs. n. 472/1997, che sul piano sistematico appare comunque un riferimento, visto che si tratta comunque di gradare una sostanziale sanzione. Tali situazioni, che connotano i fatti di gravità completamente diverse, vanno da quelle attinenti la personalità del soggetto agente (anche, ma non solo, la presenza di precedenti, e la collocazione della violazione nella sua esperienza: si può trattare di una situazione che va dall’episodio isolato e sostanzialmente di poca rilevanza all’espressione di un sistema di vita, ed è dubbio che solo l’aggravamento per recidiva e simili – peraltro applicabile solo al fattore della reiterazione – sia sufficiente ad assicurare proporzionalità), ad elementi oggettivi, diversi dalla quantità.

Traendo ispirazione anche dalla giurisprudenza della Corte EDU citata oltre, sul piano oggettivo è molto diversa la importazione di cose del tutto legittime, acquistate legittimamente e per un uso lecito, da un lato, rispetto a trasporti variamente connotati di illiceità (cose illecitamente acquisite, e/o destinate ad attività illecite, e/o nel quadro di organizzazioni criminali).

Nessuno di questi elementi pare incidere sulle statuizioni in termini di confisca secondo la legge italiana vigente.

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3. La convergenza della giurisprudenza della Corte EDU

Da altro punto di vista, la eccezionale gravità delle violazioni che offendono gli interessi finanziari – e, tra questi, la ancora più eccezionale gravità degli interessi finanziari connessi ai dazi – apparirebbe una formula sostanzialmente vuota e priva di fondamento logico sistematico. Perché mai le violazioni doganali sarebbero più gravi di altri reati che offendono gli altri interessi finanziari (quello alla riscossione dell’IVA all’importazione, in primis), o altri interessi altrettanto o più vitali, e dovrebbero, pertanto, avere uno statuto più severo?

Alla base di tali impostazioni sembra esservi una strisciante sopravvalutazione degli interessi economici pubblici (peraltro guardati in modo incongruamente selettivo), da un lato, e una sottovalutazione dei diritti economici privati (potenzialmente lesiva, se non altro, dell’art. 1, Primo protocollo Convenzione EDU).

Nella giurisprudenza consolidata della Corte EDU, particolare attenzione, infatti, è data proprio alla necessità di una puntuale verifica, a garanzia dei diritti fondamentali patrimoniali tutelati dal Primo Protocollo, della proporzione delle misure sanzionatorie con funzione punitiva alla gravità della offesa. In questo senso si è ritenuto che si, debba, tra l’altro, dare rilievo al fatto che il soggetto sia o meno coinvolto in attività illecite (Corte EDU, Sadocha vs Ukraine, 7 maggio 2020, par. 28; Gyrlyan v. Russia, 9 ottobre 2018, n. 35943/15, par. 27; Amerisoc Center S.R.L. v. Luxembourg, 17 ottobre 2024, n. 50527/20, par. 41) la natura e provenienza legittima o illegittima delle cose da sequestrare, in particolare come strumenti o profitto o prodotto di violazioni (Corte EDU, Phillips v. the United Kingdom, 12 dicembre 2001, n. 41087/98), ovvero si tratti di beni da utilizzare in attività illecite (Corte EDU, Butler v. the United Kingdom, 27 giugno 2002, n. 41661/98, and Ulemek v. Serbia, 2 febbraio 2021, n. 41680/13); ovvero prevenire il crimine (Corte EDU, Yaylali, 17 settembre 2024, par. 51).

La Corte, nel ribadire la necessità di queste condizioni, tende altresì a ritenere necessario che le misure non siano automatiche, ma adattabili alla gravità del fatto e rimesse a un controllo giurisdizionale che ne valuti tale adeguatezza alla gravità del caso e, eventualmente, le escluda o le limiti a una quota dei beni (da ultimo, e riassuntivamente, proprio la preziosa Corte EDU, 24 giugno 2025, Aksüngür and others v. Serbia).

È appena il caso di notare che le merci semplicemente oggetto di transito irregolare nei confini, di per sé, non sono illecite, né correlate a fatti illeciti, dato che l’illecito è nel fatto del transito irregolare, per cui si tratta di verificare se cose del tutto lecite possano essere confiscate per il solo fatto del mancato pagamento dei tributi a loro relativi, indipendentemente dalle circostanze oggettive e dagli elementi personali e soggettivi, e che il sistema confermato dalla riforma non sembra neppure rispettare le garanzie procedimentali per la verifica della proporzionalità appena descritte, attesa la sostanziale automaticità della applicazione delle misure.

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4. Le altre ipotesi di confisca. Il prodotto e il profitto

È poi confiscato il “prodotto del reato”. Con tale definizione si fa riferimento al risultato del reato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita.

È confiscato, nei reati doganali, il “profitto del reato”. Con tale definizione si fa riferimento al lucro, e cioè al vantaggio economico ricavato dalla commissione del reato. In giurisprudenza, a fronte di diverse pronunce sul punto, sebbene non direttamente in ambito doganale, si rivengono due pregressi distinti orientamenti, uno più restrittivo, che identifica il profitto nel vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito (Cass., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617; Cass., sez. II, 16 dicembre 2016, n. 53650), a fronte di uno più estensivo che, ampliandone la nozione, identifica il profitto in ogni utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa (Cass., Sez. Un., 6 marzo 2008, n. 10280; Cass., Sez. Un., 5 marzo 2014, n. 10561).

La seconda soluzione appare criminologicamente più solida: è pericolosa la conservazione di ogni vantaggio.

Nel caso di reati di evasione, il tipico profitto è il tributo illecitamente risparmiato (dazio, diritto, ecc. nel caso che qui ci occupa).

La misura, in questo caso, ha una evidente funzione preventiva: eliminare l’incentivo a delinquere immanente nel consentire di conservare il vantaggio ottenuto violando le norme.

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5. Problemi attuali della confisca per equivalente: natura giuridica e il problema del mutamento del valore.

L’art. 94 DNC, nel secondo periodo del primo comma, dispone che, qualora non sia possibile procedere, nel caso di delitti, alla confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono l’oggetto ovvero il prodotto o il profitto, sia comunque ordinata la confisca di somme di denaro, beni e altre utilità di cui il condannato ha la disponibilità, anche per interposta persona, per un valore a quelle equivalente.

La confisca per equivalente permette di espropriare somme di denaro beni o altre utilità di valore pari allo strumento o all’oggetto del reato di contrabbando, al suo prodotto o al profitto in assenza di qualsiasi prova di un rapporto di pertinenzialità tra i beni appresi e il fatto di contrabbando cui si riferisce la sentenza di condanna. Il presupposto giuridico della confisca per equivalente è, invero, costituito proprio dalla mancata individuazione ed apprensione dei beni che siano ordinariamente confiscabili al reo di contrabbando.

In passato la giurisprudenza ascriveva tale confisca alle sanzioni.

L’inquadramento quale sanzione è stato utilizzato per una ragione pratica, escludere la retroattività della relativa disciplina (quando le misure di sicurezza sono di norma applicabili a fatti pregressi): invece che correggere l’evidente incostituzionalità della retroattività delle misure di sicurezza, la giurisprudenza ha preferito escludere la retroattività della confisca attribuendole altra natura.

Non a caso tale tradizionale orientamento appare in via di superamento (Cass., sez. pen., 8 aprile 2025, n. 13783).

A nostro sommesso avviso, la questione è invece parzialmente diversa.

La natura della confisca per equivalente dipende dalla natura della corrispondente confisca diretta.

Pare evidente, ad esempio, la natura preventiva, della misura, quantomeno per la parte corrispondente al valore equivalente al profitto: essa è finalizzata non a punire il reo, ma ad evitare che egli mantenga un profitto dalla sua azione delittuosa. Profitto che invece manterrebbe se non venisse privato del valore acquisito, anche se non si riescono più ad individuare i beni o valori direttamente acquisiti con il reato.

La confisca per equivalente è solo un modo per sequestrare il profitto, quando non possano ritrovarsi le cose che lo rappresentano direttamente.

Ne consegue che la confisca dell’oggetto del reato, che ha natura punitiva anche nella veste diretta, mantiene tale natura anche nella versione per equivalente.

Un aspetto particolare da considerare è, nell’ipotesi in cui il valore muti tra il momento del fatto e quello della confisca, quale valore vada preso a riferimento. Non pare esservi alcun dubbio quando le cose siano state consumate nell’interesse del colpevole: il valore da confiscare è, ovviamente, quello originario, non certo quello residuo.

Fuori da questo caso, quando si tratta di confisca del profitto, pare corretto confiscare il valore al momento della coattiva apprensione: se esso è aumentato, anche il maggior valore dipende dal reato e la sua conservazione sarebbe criminogena. È sostenibile, simmetricamente, che ove esso sia sceso – ma non perché parzialmente consumato (per esempio, per l’usura dovuta al godimento), il valore di riferimento debba essere quello attuale: la ratio è privare il reo del vantaggio: se il vantaggio è minore e quello originario non è stato incamerato, pare ragionevole che l’importo confiscando diminuisca.

Da domandarsi, invece, se tali considerazioni reggano per la confisca, negli altri casi.

Per la confisca della cose pericolose, l’osservazione principale è che la confisca per equivalente non è facilmente giustificabile in ottica preventiva: se le cose non ci sono più, viene meno il pericolo connesso al loro possesso, di tal che la confisca si giustifica o ipotizzando che il possesso persista ma il bene non si trovi (ma quando esso non risulti provato, con dubbi di giustificazione razionale) o che la confisca per equivalente in questo caso eccezionalmente comporti il mutamento della finalità in punitiva. È sostenibile, almeno nell’ottica punitiva, che il valore da confiscare sia quello originario. Va comunque osservato che, nel caso in cui risulti che il bene pericoloso è stato occultamente conservato, la confisca del suo valore non eliderebbe la pericolosità (la cosa preordinata a commettere i delitti sarebbe ancora disponibile).

Per la confisca della merce, simmetricamente, attesa la funzione punitiva, pare sostenibile che il valore vada parametrato al momento della condotta e resti insensibile a eventuali variazioni.

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6. Conclusione

La materia delle confische doganali sembra oggetto di “aggiustamenti tettonici” di non poco momento, che verosimilmente impegneranno la giurisprudenza e i pratici nel prossimo futuro.

Tali aggiustamenti è verosimile che concernano anche la materia della confisca amministrativa di cui all’art. 96 D.Lgs. n. 141/2024, applicabile automaticamente a oggetto delle violazioni e a strumenti modificati per commetterli (con esclusione del profitto e della forma per equivalente).

Tutto da esplorare poi, è il requisito della proporzionalità della confisca per le cose del terzo, su cui, oltre che per ogni altro aspetto. si rinvia per approfondimenti, anche al Commentario della riforma doganale – norme sanzionatorie, di prossima uscita a modesto coronamento dei nostri studi in materia, così come, più in generale, si rinvia alla approfondita nota di Roberto Succio, di prossima uscita su questa Rivista.

(*) La rubrica è aperta a tutti coloro che intendono contribuire al progresso del diritto tributario, in generale, e al miglioramento della sua applicazione, in particolare, nella specie con interventi di commento della giurisprudenza di legittimità dialogici e costruttivi, scevri di polemiche e posizioni partigiane.

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