La dilazione di pagamento del debito erariale nella liquidazione giudiziale a margine di una recente sentenza

Di Giulia Rugolo -

Abstract (*)

Lo scritto analizza una recente pronuncia del giudice di legittimità sull’applicazione della soglia minima di indebitamento di cui all’art. 15, comma 9, l. fall. (applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame), oggi riprodotta nell’art. 49, comma 5, CCII, in presenza della dilazione di pagamento del debito erariale ex art. 19 D.P.R. n. 602/1973.

The deferral of payment of tax debt in judicial liquidation on the sidelines of a recent judgment  – The article analyses a recent decision of the Court of Cassation on the application of the minimum debt threshold referred to in art. 15, paragraph 9, of the bankruptcy law (art. 49, paragraph 5, CCII), in case of deferral of payment of the debt ex art. 19 D.P.R. n. 602/1973.

Sommario: 1. La decisione giurisprudenziale. – 2. Le peculiarità del caso. – 3. La soglia minima di indebitamento ex art. 49, comma 5, CCII. – 4. La dilazione di pagamento di cui all’art. 19 D.P.R. n. 602/1973. – 5. (Segue). Gli effetti giuridici. – 6. Uno sguardo alla soluzione giurisprudenziale. – 7. Una riflessione de jure condendo.

1. La pronuncia giurisprudenziale Cass. civ., 18 febbraio 2025, n. 4201, chiarisce gli effetti dell’ottenimento di una dilazione di pagamento di debiti tributari sulla individuazione della soglia minima di indebitamento di cui all’art. 15, comma 9, l. fall. (applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame), oggi riprodotta nell’art. 49, comma 5, CCII.

Il caso riguarda una società a responsabilità limitata dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Catania, emessa su iniziativa del pubblico ministero, poi confermata in appello in esito al giudizio di reclamo ex art. 18 l. fall. e, da ultimo, in Cassazione.

In particolare, la società debitrice aveva impugnato la decisione di secondo grado: (i) sostenendo che la stessa fosse stata emessa in assenza della condizione di procedibilità di cui all’art. 15, comma 9, l. fall., perché Agenzia delle Entrate-Riscossione aveva concesso di rateizzare il debito erariale prima della pubblicazione della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale; (ii) adducendo l’insussistenza dello stato di insolvenza, in quanto il debito erariale a suo carico avrebbe potuto essere estinto, in parte, mediante il recupero del credito vantato nei confronti di un terzo e, in parte, mediante versamenti a fondo perduto del socio unico coincidenti con la scadenza delle singole rate.

La Corte di Cassazione, dopo aver corretto la motivazione assunta dalla Corte d’Appello nella parte relativa all’accertamento dell’improcedibilità dell’istanza di fallimento per difetto del presupposto di cui all’art. 15, comma 9, l. fall. nei termini di cui appresso, rigetta il ricorso, dichiarandolo, per un verso, infondato e, per l’altro, inammissibile: di qui, conferma la sentenza dichiarativa di fallimento in capo alla s.r.l. debitrice (seppur) in presenza della dilazione di pagamento.

2. Nel caso di specie, la s.r.l. debitrice presenta – nel corso dell’istruttoria prefallimentare promossa dalla Procura della Repubblica – all’Agenzia delle Entrate-Riscossione istanza di dilazione di pagamento in relazione a un debito erariale a suo carico. Questa istanza viene accolta dall’Agente della Riscossione dopo la pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, sebbene – come eccepisce la società debitrice – l’Agenzia delle Entrate-Riscossione avesse comunicato il provvedimento favorevole qualche giorno prima della pubblicazione di detta sentenza.

La s.r.l. si duole quindi della mancata concessione del rinvio d’udienza richiesto nel corso del procedimento prefallimentare, eccependo che, se il Tribunale avesse accolto detta istanza di rinvio, essa avrebbe potuto dimostrare di non essere gravata da debiti scaduti e non pagati di importo superiore ad 30.000 euro perché appunto ammessa alla dilazione di pagamento, e, pertanto, di non poter essere sottoposta a fallimento per mancato raggiungimento della soglia minima di indebitamento richiesta dalla legge.

La Corte respinge siffatta impostazione, osservando, in via preliminare, che il debitore non ha diritto al rinvio (neppure breve) dell’udienza fissata nel procedimento per la dichiarazione del suo fallimento e che, comunque, l’accertamento della soglia minima di indebitamento può/deve basarsi su fatti (e, dunque, su documenti dai quali gli stessi risultano) esistenti e anteriori alla pronuncia giurisprudenziale. E ciò – prosegue la Corte – anche perché la soglia minima di indebitamento è integrata pure nell’ipotesi di accoglimento dell’istanza di rateizzazione del debito tributario da parte dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione, in quanto, con essa, l’Amministrazione finanziaria si limita a concedere al debitore, senza alcuna novazione né del titolo, né dell’oggetto dell’obbligazione, la mera possibilità di eseguire il pagamento della somma dovuta attraverso il suo versamento parziale e periodico (con gli interessi ulteriori maturati per la durata del piano): ovvero ad apporre nuovi termini di adempimento dell’obbligazione tributaria. Questa dilazione di pagamento non esclude, pertanto, che la somma dovuta, nell’originaria misura iscritta a ruolo, rilevi, ex art. 15, comma 9, l. fall., quale debito “scaduto e non pagato”. Tant’è che l’Agenzia delle Entrate-Riscossione conserva il potere di agire in via esecutiva, in caso di mancato adempimento al piano di rateazione concesso, per l’immediato recupero dell’intero importo residuo.

3. Sintetizzate in questi termini la vicenda e la pronuncia giurisprudenziale in esame, prima di analizzare nei suoi passaggi essenziali la motivazione della stessa appare opportuno soffermarsi sui presupposti per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale e sulla dilazione di pagamento.

In questa prospettiva, deve osservarsi, anzitutto, che l’impresa insolvente, per essere sottoposta alla liquidazione giudiziale, ai sensi dell’art. 49, comma 5, CCII (già art. 15 l. fall.), deve avere – come accertato nell’istruttoria del procedimento unitario (già prefallimentare) – un ammontare di debiti scaduti e non pagati di importo superiore ad 30.000 euro.

Trattasi, secondo la prevalente dottrina, di una condizione di procedibilità dell’azione (Tedoldi A., sub art. 49, in Maffei Alberti A., Commentario breve alle leggi su crisi d’impresa ed insolvenza, 2023, 327, anche per ulteriori riferimenti, pure alla dottrina che parla di esenzione dalla o circostanza ostativa alla liquidazione giudiziale [e già al fallimento]), la cui ratio sta nell’evitare l’apertura della liquidazione giudiziale a carico di imprese (non “minori” ma comunque) di modeste dimensioni, con un attivo ricavabile presumibilmente inferiore ai costi gestori (ad esempio, compenso curatore e consulenti, spese di pubblicità, bancarie e postali; cfr. Fauceglia G., Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2021, 43; Corte App. Napoli, 26 gennaio 2024, n. 17). Si ritiene, cioè, che la liquidazione giudiziale (come già il fallimento) abbia senso di intervenire soltanto se economicamente conveniente ed efficiente per i creditori rispetto a un fascio di esecuzioni individuali (così, Tedoldi A., sub art. 49, cit., 327).

Questa soglia – assurta a condizione di apertura della liquidazione giudiziale – si distingue nettamente da quella di cui all’art. 2, comma 1, lett. d, CCII, che, viceversa, oltre a contemplare pure i “debiti anche non scaduti” (lì dove invece la norma in esame parla solo di debiti scaduti e non pagati e quindi esclude dal computo i crediti inesigibili o condizionali: Tedoldi A., sub art. 49, cit., 327) costituisce il presupposto soggettivo dell’impresa non minore (per cui è tale l’impresa che dimostri il possesso congiunto di un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo superiore a 300.000 euro; ricavi, in qualunque modo essi risultino, per un ammontare complessivo annuo non superiore a 200.000 euro; il tutto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore; nonché un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a 500.000 euro; c.d. profilo soggettivo) e, dunque, sottoponibile a liquidazione giudiziale.

A tal fine, l’impresa non minore deve altresì essere: (i) un’impresa privata (e non pubblica) esercente un’attività commerciale (e non agricola; c.d. presupposto soggettivo); (ii) non in grado di soddisfare regolarmente – in applicazione delle norme generali sull’adempimento – le proprie obbligazioni; e ciò anche se anche le cause che hanno determinato tale situazione non siano imputabili all’imprenditore commerciale e debbano viceversa ricondursi all’inadempimento di un terzo (Cass. civ., Sez. Un., 13 marzo 2001, n. 115; Cass. civ., 7 giugno 2012, n. 9253), salvo che in mala fede (Cass. civ., 13 agosto 2004, n. 15769) (c.d. presupposto oggettivo).

Al ricorrere di questi presupposti, soggettivo e oggettivo, il mancato raggiungimento della soglia minima di indebitamento di 30.000 euro di debiti scaduti e non pagati determina comunque l’inammissibilità del ricorso per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale. A tale risultato, secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza, può giungersi anche nell’ipotesi in cui il debitore sia rimasto contumace e/o non abbia fornito adeguata prova ovvero non abbia formulato un’eccezione in tal senso, dato che il Tribunale, nell’esercizio dei suoi poteri officiosi, potrebbe rigettare il ricorso qualora comunque dagli atti dell’istruttoria del procedimento unitario non emerga la sussistenza di debiti scaduti e non pagati di importo superiore a 30.000 euro (in argomento, v., ad esempio, Tedoldi A., sub art. 49, cit., 327; nonché, nel contesto precedente ma con argomentazioni valevoli anche nel vigore del CCII, Fabiani M., La prima giurisprudenza sull’interpretazione dell’art. 1 comma 2, legge fallimentare [nota a Trib. Mantova, 19 settembre 2006; Trib. Roma, 12 dicembre 2006 e Trib. Palmi, 2 ottobre 2006], in Riv. dir. fall., 2007, 6, 238; Cass. civ., 25 giugno 2018, n. 16683). Del resto, nell’impostazione del codice della crisi, il Tribunale ha un potere officioso più ampio di quello riservatogli dalla legge fallimentare, dato che, secondo la tesi preferibile, l’art. 121 CCI, lungi dal porre a carico del debitore un onere probatorio pieno e gravoso equiparabile a quello prescritto dall’art. 1, comma 2, l fall., delimita l’ambito di applicazione della liquidazione giudiziale agli imprenditori nei cui confronti emerga il fatto positivo del superamento delle soglie in esame, anche all’esito degli accertamenti officiosi che concernono direttamente questo profilo (condotti, ad esempio, acquisendo ex art. 367, comma 6, CCII, tutte le informazioni «detenute dalle altre pubbliche amministrazioni individuate dal Ministero della giustizia»), potendosi al riguardo prescindere dall’eventuale insufficiente (o assente) attività probatoria svolta sul punto dal debitore (in questo senso, cfr. Trib. Catania, 23 marzo 2025, in www.dirittodellacrisi.it).

4. Proseguendo nella direzione indicata in precedenza, va ancora brevemente (e sommariamente) rammentato che la dilazione di pagamento, disciplinata dall’art. 19 D.P.R. n. 602/1973, come recentemente modificato ad opera del D.Lgs. n. 110/2024, rappresenta la figura più importante di dilazione tributaria (Guidara A., Le dilazioni di pagamento dei tributi, Catania, 2012, 39 ss.). Essa si caratterizza per consente al contribuente, destinatario di un avviso/cartella di pagamento, di rateizzare il pagamento delle somme (eccetto quelle oggetto di una precedente rateizzazione decaduta per mancato pagamento del numero di rate) iscritte a ruolo da Amministrazioni e Agenzie statali, Autorità amministrative indipendenti, enti pubblici previdenziali ed enti territoriali (ad esempio, Comune, Regione).

L’art. 19 D.P.R. n. 602/1973 – nella versione attualmente in vigore, come risultante all’esito delle diverse modifiche legislative susseguitesi negli anni – distingue la dilazione di pagamento, in base all’importo del debito e al numero di rate, in due tipologie: “a semplice richiesta” e “a richiesta documentata”.

La prima si ha quando il debito ha un importo pari o inferiore a 120.000 euro e il pagamento viene dilazionato in massimo 84 rate (che possono aumentare a 96 rate, negli anni 2027 e 2028, e a 108 a partire dal 2029). In questo caso, per accedere al beneficio, il contribuente può limitarsi a dichiarare (senza dover esibire alcuna documentazione) di versare in una temporanea situazione di obiettiva difficoltà economico-finanziaria ovvero in una situazione che gli impedisce di far fronte, in un’unica soluzione, al pagamento del debito a suo carico.

La seconda tipologia si ha quando il debito o è pari/inferiore a 120.000 euro e/ma il numero di rate è compreso tra 85 e 120 (che possono aumentare a 97 e 120, negli anni 2027 e 2028; 109 e 120 dal 2029) o è di importo superiore a 120.000 euro (indipendentemente dal numero di rate). Qui, il contribuente, per ottenere la dilazione, deve comprovare la temporanea situazione di obiettiva difficoltà economico-finanziaria, secondo i criteri fissati dal D.M. 27 dicembre 2024, in attuazione del D.Lgs. n. 110/2024 (ad esempio, ISEE, indice di liquidità, indice Alfa). Tale prova deve essere data anche nell’ipotesi in cui – e qui una variante della dilazione “documentata” – per sopraggiunti eventi, risultino peggiorate le condizioni patrimoniali e reddituali del contribuente in misura tale da rendere possibile la rimodulazione del piano di rateizzazione già concesso, indipendentemente dall’importo del debito e/ma a condizione che lo stesso non sia già stato prorogato e non sia già decaduto dal beneficio.

In ogni caso, in entrambe le ipotesi, la dilazione di pagamento è espressione del favore legislativo verso i contribuenti in situazione di temporanea difficoltà economica (sul requisito della “situazione di temporanea difficoltà economica”, v. Guidara A., Le dilazioni di pagamento dei tributi, cit., 125 ss.), ai quali viene offerta la possibilità di regolarizzare la propria posizione tributaria senza incorrere nel rischio di insolvenza. Tant’è che condizione necessaria e sufficiente per la concessione del beneficio è la dimostrazione dell’obiettiva situazione di temporanea difficoltà in cui versa il debitore impossibilitato a pagare in un’unica soluzione il debito iscritto a ruolo (nonché della capacità finanziaria per sopportare l’onere derivante dalla ripartizione del debito in un numero di rate congruo rispetto alle sue condizioni patrimoniali).

La circostanza che la dilazione in esame rappresenti la figura tipo delle dilazioni tributarie specificatamente funzionale ad assistere il debitore in difficoltà emerge anche in considerazione del fatto che, in un quadro più generale, essa risulta più vantaggiosa rispetto ad altre figure di dilazioni.

Il riferimento corre, ad esempio, alla dilazione di pagamento prevista nell’ambito della composizione negoziata della crisi di impresa. Qui, infatti, nel caso in cui l’impresa, in crisi o insolvente (o in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza), concluda un contratto di cui all’art. 23, comma 1, lett. a), CCII o un accordo ex art. 23, comma 1, lett. c), CCII (che ha l’efficacia di un piano attestato ex art. 57 CCII), l’Agenzia delle Entrate-Riscossione può concedere, ex art. 25-bis, comma 4, CCII, un piano di rateazione, fino ad un massimo di 72 rate o di 120 rate, delle dovute e non versate imposte sul reddito, ritenute alla fonte operate in qualità di sostituto d’imposta, imposta sul valore aggiunto e imposta regionale sulle attività produttive non ancora iscritte a ruolo e relativi accessori. Epperò, in questa ipotesi – e qui il minor favore – la dilazione di pagamento – sebbene coincidente sul piano effettuale con quella tipo di cui all’art. 19 D.Lgs. n. 602/10973 (tant’è che l’art. 25-bis, comma 4, CCII rinvia a tale norma nei limiti di compatibilità) – non solo è ridotta, per quella “semplice”, al massimo di rate a 72, ma soprattutto richiede – per la concessione – che “l’esistenza della temporanea situazione di obiettiva difficoltà” o la “comprovata e grave situazione di difficoltà dell’impresa” sia provata dall’esperto indipendente, nominato ex artt. 12 e 13 CCII, con apposita sottoscrizione dell’istanza. E ciò, oltre a rendere più “appetibile” e “conveniente” la dilazione di pagamento “comune” rispetto a quella “riservata” alle imprese in crisi o insolventi che accedono alla composizione negoziata, determina una situazione di disparità di trattamento tra le due figure sostanzialmente analoghe (così, D’Orazio L., Le novità del D.Lgs. n. 136/2024 in materia tributaria, in Procedure concorsuali e crisi d’impresa, 2025, 1, 114 s.; Andreani G. – Tubelli A., La transazione fiscale, Milano, 2024, 318).

5. Ad ogni modo, la dilazione di pagamento – tanto “a semplice richiesta” quanto “a richiesta documentata” – produce una serie di effetti giuridici sulla posizione del contribuente e dell’Amministrazione finanziaria, in termini differenti a seconda della fase procedimentale presa in considerazione (per un quadro sugli interventi legislativi che hanno interessato l’art. 19 D.P.R. n. 602/1972 e sui differenti effetti giuridici, cfr., ad esempio, Golisano M., La giurisprudenza in tema di regolarità fiscale e dilazioni di pagamento ex art. 19 d.p.r. n. 602/1973: la ormai improrogabile necessità di una rivisitazione critica alla luce del mutato contesto normativo, in Riv. giur. edilizia, 2019, 5, 455 ss.; Guidara A., Le dilazioni di pagamento dei tributi, cit., 39 ss., anche per ulteriori riferimenti].

Ebbene, la prima serie di effetti prodotti è riferibile alla presentazione dell’istanza di dilazione. Questa “sospende” sia la situazione di mora del debitore (che quindi non deve più corrispondere gli interessi di mora) sia l’attività amministrativa di riscossione tanto in sede cautelare (iscrizione di fermo su beni mobili registrati e ipoteca su beni immobili) quanto in sede esecutiva (ad esempio, pignoramenti), ad eccezione del pignoramento di crediti oggetto di segnalazioni di inadempienza ex art. 48-bis D.P.R. n. 602/1973 (con la conseguenza che, in tal caso, l’eventuale rateizzazione viene concessa solo al netto delle somme per le quali è stata effettuata la segnalazione) o dell’intervento in una procedura immobiliare promossa da terzi o, ancora, dell’esecuzione di eventuali procedure cautelari oggetto di un precedente accordo con il contribuente.

Questi effetti – e qui la seconda fase – si cristallizzano nel caso in cui il procedimento amministrativo si concluda con un provvedimento di accoglimento, totale o parziale, dell’istanza di dilazione presentata dal contribuente e, dunque, in senso favorevole al medesimo. Qui si produce un ulteriore effetto “premiale”, dato che viene meno anche lo stato di inadempienza di cui all’art. 48-bis D.P.R. n. 602/1973 e il contribuente, in assenza di altri debiti di natura previdenziale non rateizzati e scaduti, può ottenere il c.d. DURC regolare.

Per contro – e qui la terza fase effettuale – è solo il pagamento della prima rata del debito dilazionato che sospende il “fermo amministrativo” sui beni mobili registrati (che possono quindi riprendere a circolare) e importa di considerare estinte le procedure esecutive in corso (ad esempio, pignoramento; sempre che non ricorrano le condizioni ostative prima evidenziate, esempio, espletamento positivo della vendita all’incanto). Invece, anche qui, come nella seconda fase, restano ferme le procedure conservative in corso (ad esempio, azione revocatoria) e gli interventi già effettuati in procedure immobiliari promosse da terzi, nonché il potere di Agenzia delle Entrate-Riscossione di intraprendere nuove azioni revocatorie e intervenire nelle procedure immobiliari promosse da terzi.

In sostanza, la dilazione di pagamento, nelle prime due fasi del procedimento amministrativo ex art. 19 D.P.R. n. 602/1973 (presentazione dell’istanza e provvedimento di accoglimento), blocca l’avvio di nuove azioni esecutive o cautelari; invece, nella terza (che si apre con il pagamento della prima rata), estingue le procedure esecutive già intraprese.

La difformità di effetti giuridici si spiega in un’ottica di bilanciamento degli interessi in gioco, volendosi, da un lato, tutelare l’interesse erariale alla riscossione, che viceversa verrebbe frustrato collegando l’estinzione delle procedure esecutive in corso (magari da anni) al mero accoglimento dell’istanza di dilazione (momento in cui permane ancora l’inadempimento del contribuente); e, dall’altro, quello del contribuente in stato di difficoltà finanziaria, che però adempie regolarmente il debito a suo carico come dilazionato, di subire gli effetti negativi delle procedure esecutive (Golisano M., La giurisprudenza in tema di regolarità fiscale e dilazioni di pagamento ex art. 19 d.p.r. n. 602/1973: la ormai improrogabile necessità di una rivisitazione critica alla luce del mutato contesto normativo, cit.).

Sempre in questa prospettiva, si spiega pure perché gli effetti “premiali” di cui si discute sono risolutivamente condizionati al puntuale adempimento del piano di dilazione. Infatti, il contribuente, nel caso in cui non esegua il pagamento di alcune rate, anche non consecutive (ad esempio, 8 rate anche non consecutive per le istanze presentate da luglio 2022), decade dal beneficio della rateizzazione per inadempienza, con una duplice conseguenza: da un lato, il debito ritorna esigibile in un’unica soluzione e Agenzia delle Entrate-Riscossione può immediatamente riprendere le azioni (esecutive e cautelari) per recuperare l’intero importo dovuto; dall’altro, il contribuente non può più presentare (e ottenere) una nuova rateizzazione per gli stessi debiti oggetto della precedente dilazione da cui è decaduto.

6. Orbene, in questo più ampio contesto, e in particolare alla luce degli effetti giuridici prodotti dalla dilazione di pagamento sulla posizione del contribuente e dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione, può dirsi che la soluzione adottata dalla Cassazione con la pronuncia in commento appare sostanzialmente condivisibile, oltre che conforme all’orientamento giurisprudenziale maggioritario (cfr., da ultimo, Cass. civ., 10 ottobre 2023, n. 28341).

Invero, il debito oggetto di dilazione di pagamento va a pieno titolo computato tra i debiti in capo all’impresa insolvente ai fini del raggiungimento della soglia minima di indebitamento di cui all’art. 49 CCII, perché esso, anche in seguito all’adozione del provvedimento di accoglimento dell’istanza di dilazione, è e resta sempre un debito scaduto e non pagato e, dunque, esigibile. Ciò che viene modificato è il termine di pagamento, nel senso che l’ammissione alla rateizzazione – fermo l’an e il quantum del tributo/contributo, cui si aggiungono sanzioni e interessi – comporta (non la transazione del debito, ma solo) la rimodulazione della relativa scadenza e la differenziazione della sua esigibilità (che avviene a rate e non in un’unica soluzione). Del resto, in caso di inadempimento al piano di rateizzazione concesso, l’Agente della Riscossione conserva il potere di agire in via esecutiva per il recupero dell’intero importo residuo (e non delle singole rate scadute e non pagate).

Questa conclusione presuppone l’adesione – come fa la sentenza in commento – alla tesi (v., fra gli altri, Cass. civ., 16 dicembre 2024, n. 32679; Zampetti E., Appalti pubblici, regolarità tributaria e rateizzazione del debito, in Foro amm., 2013, 9, 2314 ss.) che esclude che la dilazione di pagamento del debito tributario produca un effetto novativo del debito originario con uno diverso, secondo un meccanismo di stampo estintivo-costitutivo ex artt. 1230 ss. c.c. Invero, solo così ragionando si può sostenere che il debito rateizzato resti un debito scaduto ed esigibile e, dunque, ai nostri fini, computabile nella base di calcolo della soglia minima di indebitamento. Viceversa, accogliendo l’orientamento contrario – quello cioè che ritiene che la rateizzazione implichi novazione dell’originaria obbligazione (espresso, ad esempio, da Cons. Stato, Ad. Plen., 5 giugno 2013, n. 15; Cons. Stato, Ad. Plen., 20 agosto 2013, n. 20; conf., da ultimo, Cons. Stato, 2 maggio 2023 n. 4374) – il nuovo debito, caratterizzato da un preciso piano di ammortamento e soggetto ad una specifica disciplina per il caso di mancato pagamento delle rate, non potrebbe essere considerato né scaduto né esigibile e, quindi, non annoverabile tra i debiti oggetto della soglia minima di indebitamento.

Fra l’altro, la legge, diversamente da quanto prevede per le azioni esecutive e conservative, non annovera la liquidazione giudiziale (né prima il fallimento) tra le procedure precluse in caso di presentazione/accoglimento dell’istanza di dilazione ex art. 19 D.P.R. n. 602/1973. Sicché, la liquidazione giudiziale può intervenire – al ricorrere dei relativi presupposti e della condizione di procedibilità fissate dalla legge prima rammentate – anche in presenza di un piano di rateizzazione del debito. Il che del resto si spiega – ancora una volta – proprio in ragione degli effetti “instabili” prodotti dalla dilazione di pagamento e dal mancato abbattimento del debito oggetto della stessa, che viceversa resta integro seppur rimodulato nella relativa scadenza.

7. Le osservazioni svolte in chiusura del paragrafo precedente inducono una riflessione de jure condendo. Da questa prospettiva, la tenuta della soluzione prospettata dalla pronuncia in commento (ma prima ancora della normativa in materia) appare vacillare.

Invero, è ben noto che la liquidazione giudiziale – che è una procedura concorsuale di natura giudiziale a carattere coattivo – mira, attraverso l’esecuzione concorsuale sul patrimonio del debitore, a soddisfare i creditori in modo migliore di quanto non avverrebbe attraverso l’esecuzione individuale. Appare quindi evidente che l’ubi consistam della liquidazione giudiziale (che è appunto la liquidazione coattiva del patrimonio del debitore) non è dissimile da quello delle azioni esecutive individuali. Anche perché, diversamente, non si spiegherebbe il divieto posto dall’art. 150 CCII di proseguire azioni esecutive o di intraprenderne di nuove successivamente all’apertura della liquidazione giudiziale o le regole in tema di chiusura della procedura per assenza di creditori concorrenti o per integrale soddisfazione degli stessi o per accettazione della proposta di concordato liquidatorio ex artt. 233 e 240 CCII).

Se così è, ciò vuol dire che, a rigore, l’esecuzione concorsuale, che si apre con la sentenza che dispone la liquidazione giudiziale, dovrebbe essere trattata, in relazione agli effetti della dilazione di pagamento in esame, allo stesso modo, dell’esecuzione individuale: si tratta, infatti, in entrambi i casi, di esecuzioni coattive sul patrimonio del debitore, seppur attuate con modalità differenti. Ciò vuol dire, in altre parole, che la presentazione dell’istanza di dilazione dovrebbe sospendere il potere dell’Agente della riscossione di agire per l’apertura di liquidazione giudiziale a carico del debitore (analogamente a quanto già avviene per l’esecuzione individuale). Resta fermo, ovviamente, che sussistendo in ogni caso il debito oggetto di dilazione di pagamento – che, come detto prima, a ragione, in mancanza di una previsione legislativa difforme, va computato nell’ammontare dei debiti ai fini del raggiungimento della soglia ex art. 49, comma 5, CCII – Agenzia delle Entrate-Riscossione riacquisterebbe la legittimazione ad agire per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale in caso di rigetto dell’istanza di dilazione o di mancato pagamento delle rate scadute.

Allo stato, non resta comunque che attendere una possibile riforma, che appare necessaria per superare la riscontrata aporia di sistema e per evitare di trattare situazioni sostanzialmente simili in modo differente.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 1/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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