RECENTISSIME DALLA CASSAZIONE TRIBUTARIA – Cassazione, sez. trib., 6 maggio 2025, n. 11910 – Primi effetti della sentenza Italgomme della Corte EDU: un altro caso di violazione “di carattere sistematico” dell’art. 8 CEDU?

Di Federico Bertocchi -

La massima della Suprema Corte (*)

Una società di capitali aveva subito una verifica fiscale, condotta dalla Guardia di Finanza, all’esito della quale l’Agenzia delle Entrate aveva contestato la deducibilità di taluni costi, rideterminando l’IRES, l’IRAP e l’IVA dovuta.

La contribuente aveva impugnato l’avviso di accertamento e, risultata soccombente in entrambi i giudizi di merito, ha proposto ricorso alla Corte di Cassazione, contestando – tra gli altri profili – la nullità dell’avviso di accertamento perché basato su documentazione raccolta ed esaminata illegittimamente, in assoluta mancanza di potere, in violazione degli artt. 7-ter e 7-quinquies L. n. 212/2000. In particolare, l’accesso presso la sede sociale, cui ha fatto seguito l’acquisizione della documentazione prodromica all’emissione dell’avviso di accertamento, era stato autorizzato dal solo Comandante del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza e non dall’Autorità Giudiziaria, in violazione – secondo la contribuente – dell’art. 14 Cost., art. 8 CEDU, artt. 7 e 47 CDFUE. Ne conseguiva, per la contribuente, la inutilizzabilità della documentazione acquisita con la verifica e l’illegittimità derivata dell’atto impositivo.

Segnatamente, secondo la società contribuente, l’avviso di accertamento avrebbe dovuto qualificarsi come nullo, risultando necessario disapplicare l’art. 52 D.P.R. n. 633/1972, in materia di controlli ai fini IVA, in quanto contrastante con gli artt. 7 e 47 CDFUE; ovvero, in caso di incertezza, rinviare alla Corte di Giustizia UE per ottenere la corretta interpretazione degli artt. 7 e 47 CDFUE. Inoltre, sarebbero ricorsi i presupposti per sollevare questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 52 e dell’art. 33 D.P.R. n. 600/1973, in materia di controlli per le imposte dirette, per violazione dell’art. 14 Cost. e dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU.

Alla luce di tali doglianze, la Corte di Cassazione ha richiamato la recente sentenza della Corte EDU “Italgomme” (Corte EDU, 6 febbraio 2025, Italgomme Pneumatici Srl et alii v. Italia [36617/189]), intervenuta sui profili oggetto di contestazione, evidenziando comunque come tale decisione non fosse ancora divenuta definitiva ai sensi dell’art. 44, par., CEDU.

I giudici di Cassazione, in particolare, hanno osservato come la Corte EDU abbia ritenuto che l’art. 8 CEDU richiede il rispetto della sede legale, delle succursali e di eventuali altri locali commerciali; che gli accessi e le verifiche operate in tali luoghi rappresentano un’ingerenza nel diritto alla tutela del domicilio, di cui all’art. 8 cit.; che le Autorità competenti dispongono di un margine di discrezionalità più ampio nell’ipotesi di verifiche all’interno dei locali commerciali rispetto ai casi di verifica presso una persona fisica; che, in ogni caso, l’Amministrazione finanziaria non può avere un potere discrezionale illimitato in tali contesti, pur operando nel rispetto del diritto interno (che però non prevede condizioni «sufficienti a delimitare la portata del potere discrezionale conferito alle autorità nazionali»); infine, che l’ordinamento italiano non predispone di adeguate ed efficaci garanzie contro l’operato della Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate, mancando un’autorizzazione giudiziaria preventiva all’esecuzione di verifiche nei locali commerciali e risultando gli altri rimedi, esperibili successivamente alla conclusione di tale attività, a tal fine non efficaci.

Muovendo dal presupposto che la decisione Italgomme avrebbe potuto assumere rilevanza nell’ambito del procedimento ivi pendente, con l’ordinanza in commento la Suprema Corte ha assegnato un termine di 60 giorni al Pubblico Ministero ed alle parti (ex art. 384, comma 3, c.p.c.) per depositare «osservazioni sulla rilevanza della citata decisione nel caso di specie».

Il (tentativo di) dialogo.

In via preliminare, è opportuno soffermarsi sulle ragioni che hanno spinto la Corte di Cassazione ad interrogarsi sulla rilevanza della decisione Italgomme nel caso oggetto di giudizio. Dalla ricostruzione dello svolgimento del processo non è dato comprendere con certezza se un motivo di invalidità dell’atto, per le ragioni sopra delineate, fosse già stato dedotto dalla contribuente in sede di ricorso introduttivo oppure, qualora ne fossero sussistiti i presupposti, mediante motivi aggiunti, non potendosi rilevare per la prima volta nel giudizio di legittimità ovvero d’ufficio (Marcheselli A., La Corte EDU e il diritto “canzonatorio” dei diritti fondamentali: le garanzie durante gli accessi e il diritto al silenzio, in il fisco, 2025, 9, 745).

In caso contrario, unica via per sollevare per la prima volta nel giudizio di legittimità un siffatto motivo sarebbe quella di ricondurlo, come in effetti sembra emergere dal tenore delle difese, nel perimetro della nuova nullità di cui all’art. 7-ter dello Statuto dei diritti del contribuente, che consente di far rilevare, anche d’ufficio e «in ogni stato e grado del giudizio» (ex art. 7-ter, comma 2, cit.), una possibile causa di nullità dell’atto di accertamento.

Apparirebbe dubbia, tuttavia, in questa prospettiva, la riconducibilità di una doglianza del genere al perimetro della nullità, come delineato dall’art. 7-ter stesso. Infatti, più pertinente appare il richiamo al successivo art. 7-quinquies dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale prevede che gli elementi di prova acquisiti in violazione di legge (circostanza che sembrerebbe sottendere il motivo di doglianza in commento, in relazione – tra gli altri – ai parametri normativi rappresentati dalla CEDU) siano inutilizzabili, senza che tuttavia ciò ridondi in una forma di nullità dell’atto ai sensi dell’art. 7-ter cit. invocato dalla contribuente. Tuttavia, siffatta contestazione, ex art. 7-quinquies cit., non potrebbe essere fatta valere per la prima volta nel ricorso avanti la Corte di Cassazione.

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Assumendo in ogni caso, che il soprarichiamato motivo di ricorso sia ammissibile, così come del resto ha ritenuto, implicitamente la Corte, l’ordinanza è chiamata a vagliare la conformità della normativa interna rispetto a due parametri: il diritto dell’Unione Europea, per quanto riguarda il capo di accertamento relativo all’IVA; i principi affermati dalla Corte EDU in relazione all’art. 8 CEDU, per quanto attiene tanto ai tributi armonizzati, quanto ai tributi non armonizzati.

Il presente commento, tuttavia, intende occuparsi della sola seconda complessa questione, afferente la compatibilità della normativa interna rispetto al (diverso) quadro giuridico fissato dalla CEDU e ciò al fine di valutare l’impatto del decisum della Corte EDU nel caso Italgomme. Infatti, la fattispecie de qua, potrebbe inserirsi nel contesto di quelle violazioni dell’art. 8 CEDU, realizzate dalla Guardia di Finanza, aventi «carattere sistematico» (come stigmatizzato dalla Corte EDU nella citata sentenza al par. 146). Tale inosservanza, poi, potrebbe coinvolgere sia i tributi armonizzati che non armonizzati, posta l’applicabilità dei principi CEDU al sistema giuridico nella sua interezza.

Ciò premesso, appare apprezzabile l’attenzione che la Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha posto sulla CEDU e sulla recente decisione della Corte EDU, circostanza non scontata, come osservato nella citata decisione Italgomme (v. par. 146).

Essa ispira alcune riflessioni ulteriori.

Innanzitutto, il contribuente ha lamentato sotto questo profilo la violazione di una disposizione convenzionale, qual è l’art. 8 CEDU, come interpretata dalla Corte EDU (ex artt. 19 e 33 CEDU). Tale circostanza ha indotto la Corte di Cassazione a provocare il contraddittorio tra le parti, ex art. 384, comma 3, c.p.c., al fine di evitare di giungere ad una decisione “della terza via”, ovvero sentenze fondate su questioni non sottoposte al preventivo contraddittorio tra le parti che – pertanto – non sono state poste nella condizione di confrontarsi sul fondamento della decisione (Gamba C., Contraddittorio [principio del], in Enc. dir., Annali IX, 2016, 148).

In particolare, per la Corte Suprema, il contraddittorio sarebbe finalizzato a valutare la «rilevanza della citata decisione nel caso di specie», conclusione che consentirà di formulare alcune considerazioni critiche.

In via preliminare, è però necessario procedere a un duplice approfondimento: da una parte, circa la pertinenza della sentenza Italgomme nel caso di specie; dall’altra, circa l’efficacia che, più generalmente, la citata decisione della Corte EDU dovrebbe dispiegare nell’ordinamento interno.

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Quanto al primo profilo, si ribadisce come la sentenza Italgomme abbia interpretato l’art. 8 CEDU proprio alla luce – tra gli altri – dell’art. 33 D.P.R. n. 600/1973 e art. 52 D.P.R. n. 633/1972. In proposito, la Corte EDU ha osservato come tali disposizioni consentono alla Guardia di finanza e all’Agenzia delle Entrate di effettuare accessi presso locali commerciali a condizioni meno rigorose di quelle previste per gli accessi presso le residenze private (par. 108), in tal modo non delimitando sufficientemente l’attività accertativa, che appare perciò alquanto discrezionale (par. 109). Inoltre, la Corte EDU ha rilevato che l’ordinamento italiano non fornisce adeguate tutele ai contribuenti soggetti a siffatte attività di verifica, né attraverso un controllo ex anteex post sul legittimo svolgimento dell’attività accertatrice (par. 139). Per tali ragioni, la Corte EDU ha riscontrato una violazione dell’art. 8 CEDU.

Proprio sulla base di tale ricostruzione, sembrerebbe possibile concludere per la pertinenza della giurisprudenza CEDU nel caso di specie. Infatti, come emerge dal ricorso, la contribuente era stata destinataria di un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate sulla base del PVC redatto dalla Guardia di Finanza all’esito di un accesso in un locale commerciale, posto in essere proprio alla luce dell’art. 33 D.P.R. n. 600/1973 e art. 52 D.P.R. n. 633/1972, ossia secondo le disposizioni che la sentenza Italgomme ha ritenuto non pienamente conformi all’art. 8 CEDU.

In altri termini, la recente sentenza della Corte EDU ha interessato le medesime disposizioni rilevanti nel caso in commento e ha riguardato fattispecie similari a quella de qua, circostanze che potrebbero far concludere per la rilevanza della decisione Italgomme anche nel caso di specie.

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Assumendo la rilevanza della sentenza Italgomme nel caso oggetto di giudizio, è opportuno analizzare la rilevanza che la sentenza della Corte EDU si presta ad avere nell’ordinamento italiano.

Una soluzione si dovrebbe trovare facendo riferimento all’art. 46, par. 1, CEDU, in forza del quale gli Stati contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU sulle controversie nelle quali sono parti (Pirrone P., L’ obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2004, 87).

Si è anche argomentato come sia possibile riconoscere alle pronunce della Corte EDU, nella loro enunciazione generale, efficacia erga omnes, come tali idonee a vincolare tutti gli Stati contraenti ad osservare l’interpretazione resa in relazione ad una specifica disposizione della CEDU, avente valore di precedente vincolante (Randazzo B., Giustizia costituzionale sovranazionale: la Corte europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2012, 128 ss.).

Si consideri, inoltre, che il giudice nazionale rappresenterebbe il primo garante dell’applicazione della CEDU, come desumibile dagli artt. 13 e 35 CEDU. Quindi, tra gli obblighi che sorgono in capo al Giudice per effetto della partecipazione dell’Italia alla Convenzione vi sarebbe anche quello di applicare la CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, quale regola di giudizio per la risoluzione del caso concreto (Cardone A., Diritti fondamentali [tutela multilivello], in Enc. dir., Annali IV, 2011, 384). In caso contrario, lo Stato italiano potrebbe incorrere in responsabilità verso il contribuente per non aver applicato il diritto nazionale in senso conforme alla CEDU (v. Corte EDU, 15 giugno 2006, Lacárcel Menéndez v. Spagna [41745/02]).

È opportuno a tal fine richiamare anche la Corte costituzionale che, con le note “sentenze gemelle” n. 348 e 349 del 2007, ha chiarito che il Giudice nazionale è chiamato ad interpretare la norma interna in senso conforme alla CEDU, nonché a quanto disposto – «nella sostanza» (Corte cost., n. 311/2009) – dalla Corte EDU. In tale contesto è stato poi chiarito che, solo qualora tale operazione non sia possibile, ovvero vi siano dubbi di compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta (i.e. la CEDU, così Corte cost., n. 39/2008), il giudice a quo dovrebbe investire la Corte stessa della relativa questione di legittimità costituzionale in relazione al parametro di cui all’art. 117 Cost.

Per tali ragioni, nell’ipotesi in cui la Corte EDU riconoscesse (come accaduto nel caso Italgomme) che talune disposizioni nazionali contrastano con la CEDU, emergerebbe con sempre maggiore evidenza la questione di legittimità costituzionale di siffatta disciplina rispetto all’art. 117 Cost., inducendo il giudice nazionale a rimettere la questione alla Corte costituzionale (in dottrina invece Randazzo B., Giustizia costituzionale sovranazionale: la Corte europea dei diritti dell’uomo, cit., 130 ss., ritiene che alle sentenze dichiarative della Corte EDU potrebbe riconoscersi natura addirittura “normativa”, idonea a produrre un effetto abrogativo della disciplina nazionale non conforme alla Convenzione). Diversamente, il giudice nazionale potrebbe applicare direttamente la CEDU (eventualmente, come interpretata dalla Corte EDU) come preminente criterio di interpretazione della norma interna, quando è possibile interpretare la disposizione nazionale rilevante in senso conforme alla Convenzione (Cardone A., Diritti fondamentali [tutela multilivello], cit., 390).

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Dalla breve ricostruzione effettuata conseguirebbe che la sentenza Italgomme dovrebbe rilevare nel senso sopraesposto. Per tale ragione, si potrebbe prevedere che la Corte di Cassazione, in primo luogo, esperisca un tentativo di interpretare le disposizioni nazionali rilevanti in senso conforme all’art. 8 CEDU ed alla citata sentenza della Corte EDU, posto che l’interpretazione conforme alla CEDU dovrebbe essere «generale (riguardando tutto il diritto della CEDU e tutto il diritto nazionale); estesa (coinvolgendo tutti, indistintamente, gli organi giurisdizionali nazionali); obbligatoria (non contemplandosi la facoltà del giudice nazionale di sottrarvisi); vincolata (stabilendosi, da parte del conformante, il quomodo della sua attuazione); soggetta a successiva verifica ed eventualmente sanzionata (nella sua omissione o erroneità); prevalente (rispetto ad ogni altra ermeneutica alternativa); mai recessiva (se non rispetto alla sua stessa eventuale illegittimità costituzionale); potenzialmente invalidante (rispetto alla norma nazionale insuscettibile di veicolarla)» (Gaeta P., Obblighi e possibilità per il giudice nazionale: l’interpretazione conforme alla CEDU, in Aa.Vv., Il diritto europeo e il giudice nazionale, Vol. II.I, Milano, 2023, 173).

In proposito, margini di interpretazione conforme alla CEDU potrebbero sussistere, nella misura in cui l’art. 33 D.P.R. n. 600/1973 e art. 52 D.P.R. n. 633/1972 venissero interpretati come richiedenti condizioni «sufficienti a delimitare la portata del potere discrezionale conferito alle autorità nazionali» (Corte EDU, Italgomme, par. 109). Dall’altra, un’interpretazione conforme alla CEDU potrebbe consentire di superare quella giurisprudenza volta a ritenere sufficiente che il controllo sull’operato della Guardia di Finanza avvenga nella fase successiva all’emanazione dell’avviso di accertamento, mediante il ricorso al Giudice competente (così Cass., Sez. Un., n. 6315/2009; Id., Sez. Un., n. 8587/2016).

Come già evidenziato, nel caso in cui la Corte di Cassazione non potesse procedere con un’interpretazione del diritto nazionale in senso conforme alla CEDU, dovrebbe rimettere la questione alla Corte costituzionale per ipotesi di violazione dell’art. 117 Cost.

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Un ulteriore profilo da considerare è se i principi della sentenza Italgomme possano rilevare nel caso oggetto di giudizio, alla luce del fatto che essi sono stati affermati successivamente agli accessi da cui è scaturito il contenzioso.

In proposito, è già stato osservato che le sentenze della Corte EDU con le quali viene accertata una violazione della CEDU avrebbero valore dichiarativo, non incidendo direttamente nell’ordinamento coinvolto. Tale efficacia si assomma all’obbligo, di cui all’art. 46 CEDU, degli Stati contraenti di compiere tutto quanto necessario per impedire ulteriori violazioni della Convenzione e rimediare alle eventuali conseguenze (Conforti B. – Raimondi G., Corte europea dei diritti dell’uomo, in Enc. dir., Agg. VI, Milano, 2002, 338). In tal modo, anche la Corte di Cassazione sarebbe chiamata ad impedire ulteriori violazioni della CEDU. In caso contrario, potrebbero emergere profili di responsabilità dell’Italia per mancata applicazione della Convenzione internazionale.

Ne consegue che, nonostante la sentenza Italgomme sia intervenuta successivamente alla fattispecie in commento, la Corte di Cassazione dovrebbe dar seguito alla giurisprudenza della Corte EDU al fine di evitare una responsabilità dell’Italia per mancata applicazione della CEDU nonché sua eventuale violazione.

I principi affermati dalla sentenza Italgomme, in ogni caso, si pongono in continuità con una giurisprudenza della Corte EDU (v. Corte EDU, 21 febbraio 2008, Ravon e a. c. Francia [18497/03]), con cui la giurisprudenza italiana avrebbe dovuto già in precedenza confrontarsi in modo più pregnante rispetto a quanto in concreto avvenuto con le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 2009 e del 2016 sopracitate.

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Alla luce delle precedenti riflessioni, quindi, si dovrebbe concludere che la Corte di Cassazione dovrebbe tenere in considerazione quanto previsto nella CEDU, interpretando le disposizioni nazionali in senso conforme alla Convenzione ed alla relativa giurisprudenza; ovvero, rimettendo la questione di legittimità alla Corte costituzionale (v. supra).

Un ulteriore interrogativo è di tipo squisitamente processuale e concerne l’interrogativo se fosse effettivamente doveroso e indefettibile, ai sensi dell’art. 384, comma 3, c.p.c., provocare il contradditorio tra le parti, così come disposto nell’ordinanza in commento.

Fermo restando che la decisione è apprezzabile, ci si potrebbe infatti domandare se il contraddittorio, costituendo sempre uno strumento di maggiore pienezza del diritto di azione e difesa in giudizio, fosse assolutamente imposto.

In effetti, il contraddittorio è corollario del giusto processo e del diritto di difesa costituzionalmente previsti (Gamba C., Contraddittorio [principio del], cit., 138 ss.). Si devono, in proposito, bilanciare taluni principi e diritti costituzionalmente garantiti (principalmente, artt. 24 e 111 Cost., ai quali l’art. 384 cit. si ispira, come chiarito da Carnevale V., Art. 384, in Comoglio L.P. – Vaccarella R., Codice di procedura civile commentato, Torino, 2013 e Cass. n. 31149/2023), rispetto ad altre disposizioni costituzionali e obblighi internazionali (i.e. art. 117 Cost. e CEDU).

Esistevano, forse, anche vie per ritenere non doverosa l’attivazione del contraddittorio. Per esempio, prendendo le mosse dal fatto che si poteva ritenere non di valutare una nuova questione ma di valutare solamente l’applicazione, a quanto già oggetto del processo (quindi, se gli accessi fossero legittimi in base alle norme che li regolano), di una certa interpretazione della CEDU come suggerita dalla Corte EDU. In effetti, non sempre quando la Corte di Cassazione ritiene applicabile una certa interpretazione delle norme di causa (nel caso di specie, quelle sugli accessi) ai fatti di causa (in questo caso, gli accessi) provoca il contraddittorio tra le parti.

L’ordinanza de qua, pertanto, è molto interessante, perché sembra elevare la decisione della CEDU, certificandone implicitamente la eminente rilevanza, ad un livello più alto della semplice interpretazione o valutazione di legittimità di una norma esistente.

Nello scenario alternativo che invece, per completezza, si potrebbe ipotizzare, la Corte di Cassazione avrebbe potuto sollevare d’ufficio e direttamente, per esempio, questione di legittimità costituzionale della disciplina nazionale in commento, fondandosi o meno sulla decisione della Corte EDU e la decisione della Corte costituzionale avrebbe risolto la questione principale, ovvero la compatibilità del diritto interno rispetto all’art. 117 cit. alla luce del parametro interposto (i.e. CEDU).

Anche in questa prospettiva gradata, la decisione della Corte di Cassazione di far precedere la delibazione della questione al contraddittorio tra le parti denota una particolare sensibilità, che pare la spia della percezione della importanza cardinale della decisione.

Naturalmente, in esito al contraddittorio (e alla luce del contraddittorio tra le parti), restano aperte tutte le possibili soluzioni. Quindi, esaminando le principali, innanzitutto, nel caso la Corte di Cassazione addivenisse alla interpretazione delle norme interne in modo conforme alla sentenza, residuerebbe la decisione in merito all’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, cui, verosimilmente, seguirebbe il rinvio al giudice del merito affinché valuti la decisività di tali prove per la sopravvivenza dell’atto impugnato. Ovvero, la rimessione della questione alla Corte costituzionale. In tale ultimo caso, sarebbe la Corte costituzionale a determinare se la disciplina nazionale sia – nei fatti – compatibile con la CEDU e la sentenza Italgomme. In caso di declaratoria di incostituzionalità, il procedimento tornerebbe allo stato descritto nel passaggio che precede, con ipotizzabile annullamento con rinvio.

Una terza possibilità è che si ritenga invece non rilevante la decisione Italgomme nella fattispecie e il giudizio di cassazione si concluda senza l’apporto della sentenza della Corte EDU (ovvero dei principi della CEDU in materia). Tale possibilità, in particolare quella che escluda la rilevanza dei principi della Convenzione e la sopravvivenza della interpretazione meno garantistica delle norme interne, parrebbe da ritenere non augurabile, nella misura in cui protrarrebbe la violazione dei diritti fondamentali censurata in sede internazionale.

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Procedendo dall’assunto che la sentenza Italgomme sia ritenuta rilevante anche nel caso di specie, è possibile formulare alcune riflessioni conclusive più generali in merito agli effetti che potrebbero dispiegarsi ai fini dell’accertamento delle imposte considerate.

In particolare, il primo interrogativo è se l’eventuale interpretazione conforme dell’art. 33 D.P.R. n. 600/1973 e art. 52 D.P.R. n. 633/1972 rispetto alla CEDU potesse interessare sia i tributi armonizzati che non armonizzati. Ovvero, similmente, se entrambi tali tributi sarebbero coinvolti sia nell’ipotesi di declaratoria di incostituzionalità degli artt. 33 cit. e 52 cit., per violazione dell’art. 117 Cost. alla luce della CEDU; sia nel caso in cui le disposizioni nazionali risultassero conformi alla Costituzione (similmente, Corte EDU, 11 novembre 1996, Cantoni c. Francia [17862/91], par. 30).

La soluzione affermativa, uniforme, parrebbe essere lo scenario più lineare. In questo caso, in effetti, la contribuente avrebbe censurato le disposizioni in materia di accertamento di tributi non armonizzati e armonizzati alla luce della CEDU, muovendo dal presupposto che la Convenzione avrebbe potuto garantire un più conveniente grado di tutela, anche alla luce della relativa giurisprudenza CEDU nel cui ambito si inserisce la decisione Italgomme (similmente, Cardone A., Diritti fondamentali [tutela multilivello], cit., 402).

In uno scenario più articolato, stanti i motivi di ricorso della contribuente che hanno differenziato le imposte armonizzate e quelle non armonizzate, la Suprema Corte potrebbe – da una parte – decidere di interpretare conformemente alla CEDU solamente le disposizioni relative ai tributi non armonizzati, ovvero di rinviare alla Corte costituzionale la già menzionata questione di costituzionalità solo per essi. Dall’altra, potrebbe interpretare il diritto nazionale in materia di accertamento dei tributi armonizzati alla luce delle tutele previste nella CFDUE e ciò in quanto il diritto dell’Unione potrebbe risultare a tal fine “speciale” rispetto alla CEDU (ex art. 51 CDFUE). In tale ultimo caso, la Corte di Cassazione potrebbe, ritenendo applicabile lo stesso livello di garanzie, disapplicare le prime disposizioni in favore delle seconde oppure rimettere l’interpretazione del diritto dell’Unione Europea alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Quel che pare invece decisamente desiderabile è che si escluda un doppio binario delle garanzie sostanziali (differenziate tra materie armonizzate e non), secondo lo sfortunato schema, per fortuna ora superato, della tutela del diritto al contraddittorio preaccertativo.

È uno scenario che la generalità della decisione della Corte EDU dovrebbe essere sufficiente a scongiurare.

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Quanto sopra osservato consente di evidenziare l’importanza dell’ordinanza in commento ma si dovrà attendere la decisione della Corte di Cassazione per valutare quale effetto abbia spiegato la sentenza Italgomme – quantomeno – nella giurisprudenza di legittimità.

(*) La rubrica è aperta a tutti coloro che intendono contribuire al progresso del diritto tributario, in generale, e al miglioramento della sua applicazione, in particolare, nella specie con interventi di commento della giurisprudenza di legittimità dialogici e costruttivi, scevri di polemiche e posizioni partigiane.

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