Cessione di quote pariteticamente detenute e corrispettivo ripartito in misura non proporzionale – Regime fiscale
1. La risposta n. 50 del 27 febbraio 2025 dell’Agenzia delle Entrate riguarda, in sintesi, la cessione, in diversi e successivi momenti, da parte di tutti i soci (due), delle rispettive partecipazioni in una s.r.l. ad una società terza acquirente.
L’ultima cessione prevede il trasferimento delle quote, di egual misura e valore, per un corrispettivo complessivo determinato secondo “predefiniti parametri economico – finanziari”.
I soci, al fine di una ripartizione non proporzionale rispetto al valore delle quote, hanno sottoscritto un accordo secondo cui una parte del corrispettivo, complessivamente percepito per le cessioni delle quote sociali, sarà attribuito “valorizzando” i risultati che gli stessi avranno contribuito a far realizzare alla società cedenda prima dell’ultima cessione; la società acquirente, estranea al detto accordo, «ha manifestato la sua indisponibilità a corrispondere prezzi differenziati per l’acquisto di quote pariteticamente detenute».
La questione riguarda, quindi, la natura giuridica e il regime fiscale della somma da ciascun socio percepita e della somma che un socio, in esecuzione dei patti contrattuali, dovrà corrispondere all’altro per ripartire, in modo non proporzionale, ma in base al contributo dato al risultato di esercizio della società cedenda, il corrispettivo complessivamente pagato dalla società acquirente.
Scopo di queste riflessioni, sintetiche in ragione della loro sede editoriale, è (cercare di) fare il punto, avendo come riferimento privilegiato l’area del diritto dei contratti, sulla soluzione interpretativa proposta dalla pratica professionale.
In una prospettiva analitica, la formula di sintesi appena evocata, può essere declinata secondo due ordini di ragioni tra loro diverse, ancorché dirette allo stesso fine di intervenire sul regime di tassazione, in capo a ciascun socio, del corrispettivo pagato dalla società acquirente per la cessione delle partecipazioni.
2. La prima concerne la determinazione della plusvalenza realizzata per la cessione delle partecipazioni, ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. c-bis), TUIR ovvero se sia lecito assumere prezzi diversi per quote di eguale misura e valore e se, come suggerito con l’istanza di interpello, «il corrispettivo percepito deve essere identificato con le somme effettivamente incassate e non con le somme pagate» a ciascun socio dalla società acquirente.
Insomma se “il corrispettivo percepito”, di cui all’art. 68, comma 6, TUIR, stia a indicare la minore somma effettivamente incassata dal socio, indipendentemente dall’importo pagato dalla società acquirente, per effetto di specifici accordi negoziali intervenuti tra i soci.
La questione riguarda il sistema di tassazione basato sul principio di cassa, per cui l’incasso o il pagamento di una somma di denaro sono fatti riscontrabili in un momento ben definito nel tempo, senza che occorra individuare quale sia il momento effettivo di maturazione del credito.
In via generale nel principio di cassa, fatte salve alcune complicazioni per il caso di pagamenti “in natura” ovvero quando il pagamento è effettuato mediante assegni, cambiali, cessione di un credito verso terzi, ecc., il concetto di percezione deve, comunque, collegarsi al conseguimento di una entrata con funzione di pagamento.
Non vi può essere, pertanto, alcuna dissociazione tra il produttore del reddito e il titolare al momento dell’incasso (nel nostro caso il socio cedente).
Non è possibile, quindi, che un patto tra i soci (ove uno debba attribuire all’altro una parte della somma incassata) possa “modificare” il concetto di percezione e “trasferire” la tassazione (di una parte del reddito) dal titolare all’altro socio, estraneo alla produzione del reddito.
Correttamente l’Agenzia delle Entrate ha precisato che il prezzo di cessione delle partecipazioni societarie è quello percepito dal socio cedente e indicato nell’atto di cessione, essendo irrilevanti gli accordi tra soci che prevedono una ripartizione non proporzionale del complessivo corrispettivo pagato dalla società acquirente per le quote acquistate.
Il principio di cassa, nella sua estrema semplificazione, non consente alcun dubbio: quel che conta è il momento e quanto percepito, a nulla rileva quanto il percipiente effettivamente trattenga per sé e quanto destini all’adempimento di obbligazioni verso terzi, ovvero la destinazione che il titolare del reddito faccia (in tutto o in parte) del provento percepito.
La soluzione prospettata dagli istanti (e giustamente e condivisibilmente cassata dall’Agenzia) risente di una errata lettura della norma e confonde la nozione di produzione e titolarità del reddito con l’effettivo incremento di patrimonio, che può ben essere inferiore per effetto dell’adempimento di obbligazioni verso terzi.
3. La seconda questione, posta in subordine dagli istanti, riguarda la ripartizione, in esecuzione del precedente accordo tra i soci, del corrispettivo complessivo percepito per la cessione della rispettive quote di egual misura, non in modo proporzionale, ma «in coerenza con il contributo che ciascuno dei due avrà dato alla valorizzazione della società (cedenda) in sede di exit», «attraverso una donazione da parte di un socioa favore dell’altro» di una parte del corrispettivo percepito per la cessione della propria quota.
Ne seguirebbe, secondo gli istanti, «che le somme riconosciute da un socio nei confronti dell’altro, non possono considerarsi un reddito diverso ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera l), del Tuir, poiché l’esecuzione degli accordi in oggetto non può configurarsi come un obbligo di fare inteso come impegno a compiere una prestazione, essendo, di contro, pacifica l’assenza di una controprestazione».
Che dire: “pezo el tacón del buso”, il rimedio è peggiore dell’errore!
Si impongono brevi cenni alle nozioni di teoria generale dei contratti giacché la soluzione offerta poco ha a che vedere con l’utilizzo, assai “inconsapevole”, della disciplina degli atti negoziali.
A causa dell’accordo, precedente l’ultima cessione delle partecipazioni, ciascun socio, per conseguire una maggiore somma, era tenuto ad una “prestazione”. Prestazione che, di norma, può consistere nel comportamento di consegnare, fare, non fare; nella fattispecie è consistita nel “fare” (“contributo che ciascun socio avrà dato alla valorizzazione della società”).
Qui da un punto di vista tecnico-giuridico si presenta la figura negoziale per la quale la prestazione e controprestazione intercorrono tra i due soci che hanno sottoscritto l’accordo e oggetto immediato del contratto è la “valorizzazione” della società cedenda per ottenere, per la cessione delle partecipazioni, il maggior corrispettivo correlato ai “predefiniti parametri economico – finanziari” (come convenuto con la società acquirente).
Il nesso di corrispettività è, quindi, finalistico, ovvero l’interesse dei soci è quello di agire per meglio valorizzare (prima della cessione delle quote) la società cedenda al fine di conseguire un maggior corrispettivo per le partecipazioni cedute.
A fronte, quindi, del maggior contributo corrisponde per il socio un riconoscimento in denaro (ecco la controprestazione!). L’accordo è, quindi, un contratto oneroso ove un socio si impegna a corrispondere all’altro una somma di denaro in corrispettivo del comportamento di quest’ultimo che, avendo meglio contribuito alla valorizzazione della società cedenda, ha consentito di ottenere un complessivo miglior prezzo per l’acquisto delle partecipazioni.
Risiede in questo la causa onerosa dell’accordo e, pare evidente, che la figura della donazione non trova alcun riscontro nella causa contrattuale: il patto concluso dai soci è chiaro e la diversa lettura del contratto non può trovare alcuna copertura codicistica e niente altro è che il frutto dell’attività “creativa” dei contribuenti.
In conclusione, la somma di danaro corrisposta da un socio a favore dell’altro, in esecuzione di un accordo tra gli stessi, a titolo di redistribuzione del corrispettivo complessivo percepito per le cessioni delle quote, costituisce reddito diverso ex art. 67, comma 1, lett. l), TUIR (poco importa se di lavoro autonomo occasionale o, come credo, per l’assunzione di un obbligo di fare).
4. Neppure convince, per giustificare la soluzione proposta dai contribuenti, il richiamo al principio di prevalenza della sostanza economica sulla forma giuridica che qui, mi sembra, nulla c’entra12.
Di norma l’interprete, che non voglia ridurre un accordo negoziale a semplici segni grafici e così rinunziare a comprenderlo, è costretto a rivolgersi alla disciplina generale dei contratti (art. 1362 ss. c.c.) e questo impedisce di andare oltre e non consente di attribuire ai fatti negoziali un significato privo di congruenza con il testo.
Occorre, quindi, prendere atto del titolo giuridico ovvero della configurazione giuridica del fatto economico e, per tutto quanto detto, non vi è spazio che induca a trascurare ogni rilievo giuridico e riqualificare i fatti esclusivamente valutandoli in termini “sostanziali”, con le conseguenze fiscali auspicate dagli istanti.
Silvio D’Andrea
1 Come sostenuto da Piazza M., Irpef progressiva sul corrispettivo di cessione di un pacchetto azionario ripartito in modo non proporzionale, in il fisco, 2025, 16, 1398, «Ci si chiede però se in ceri casi – come quello in esame – non sia più corretto attivare il principio della prevalenza della sostanza sulla forma a favore del contribuente. Nel caso in esame, in particolare non vi è dubbio che, sul piano sostanziale, l’accordo fra i cedenti non ha avuto altro effetto che quello di aumentare la plusvalenza di uno dei due e di ridurre quella dell’altro».
1 Sul rapporto tra forma giuridica e sostanza economica, mi sia consentito il rinvio a “Alessia D’Andrea A. – e Silvio D’Andrea S., Cessioni di partecipazioni sociali e clausole di garanzia: riflessioni in tema di imposizione indiretta e diretta, in Riv.tel. dir.trib., 2024, 2 e online il 14 novembre 2024, www.rivista dirittotributario.it, 14 novembre 2024spec. par. 7.”.
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