I riflessi processualistici del raddoppio dei termini di accertamento e del rapporto tra autotutela sostitutiva e accertamento integrativo nelle controversie tributarie

Di Antonio Colella -

(commento a/notes to Cass., sez. V, ord. 28 gennaio 2025, n. 2046)

Abstract (*)

La suprema Corte, con l’ordinanza che si annota, affronta il delicato tema del raddoppio dei termini di accertamento nelle controversie tributarie, chiarendo i presupposti e i limiti applicativi dell’istituto, nonché il ruolo del giudice tributario nel controllo sulla sua legittimità. L’ordinanza, in particolare, si sofferma sulla distinzione tra la motivazione dell’avviso di accertamento e l’effettiva sussistenza della notitia criminis, riaffermando il principio secondo cui il raddoppio dei termini non opera in modo automatico, ma richiede un rigoroso accertamento dei presupposti. La decisione interviene, inoltre, sul rapporto tra autotutela sostitutiva e accertamento integrativo, delineandone i confini applicativi e le implicazioni per la tutela del contribuente.

The procedural implications of the extension of assessment periods and the distinction between substitutive self-protection and supplementary assessment –  The Supreme Court, in the ruling under review, addresses the delicate issue of the extension of tax assessment periods in tax disputes, clarifying the prerequisites and the applicable limits of the institution, as well as the role of the tax judge in verifying its legitimacy. In particular, the ruling focuses on the distinction between the reasoning provided in the tax assessment notice and the actual existence of the notitia criminis, reaffirming the principle that the extension of time limits does not operate automatically but requires a rigorous verification of the necessary conditions. Furthermore, the decision examines the relationship between substitutive self-protection and supplementary assessment, outlining their respective scopes and the implications for taxpayer protection.

Sommario: 1. I fatti in causa. – 2. Il raddoppio dei termini di accertamento: l’obbligo di allegazione della notitia criminis e il rischio di un uso strumentale da parte del giudice tributario. – 3. Autotutela sostitutiva e avvisi integrativi: confini applicativi e tutela del contribuente. – 4. Riflessioni conclusive.

1. L’ordinanza in commento si inserisce nel complesso panorama delle controversie tributarie riguardanti operazioni straordinarie di riorganizzazione societaria e la loro possibile strumentalizzazione a fini elusivi. La vicenda prende avvio da una verifica fiscale condotta dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di una società, al termine della quale veniva contestata una frode ai danni dell’Erario, realizzata mediante lo “svuotamento” patrimoniale della contribuente originaria e il trasferimento dei suoi asset attraverso scissioni parziali e cessioni di rami d’azienda.

L’attività accertativa si è tradotta nell’emissione di una pluralità di atti impositivi, diretti non solo alla società verificata ma anche ai suoi ex soci e alle entità che avevano acquisito i rami d’azienda o beneficiato della scissione. Tra i destinatari figurava A.A., chiamato a rispondere, in qualità di socio, di “proventi illeciti” e della responsabilità solidale per i debiti tributari della cessata società.

I ricorrenti hanno sollevato plurime censure, tra cui: la decadenza del potere accertativo, con particolare riferimento alla tempestività dell’emissione degli avvisi; l’illegittimità degli avvisi “integrativi/modificativi”, per carenza di nuovi elementi idonei a giustificare l’ulteriore intervento dell’Amministrazione finanziaria; la violazione del diritto al contraddittorio, in ossequio ai principi elaborati dalla giurisprudenza unionale e nazionale; l’insussistenza della responsabilità solidale per i debiti tributari della società estinta; e, infine, la difformità tra il Processo Verbale di Constatazione (PVC) e gli avvisi di accertamento, con conseguente lesione del diritto di difesa del contribuente.

La Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso, limitatamente al secondo motivo, annullando l’avviso di accertamento relativo ai proventi illeciti contestati ad A.A., mentre ha respinto le altre doglianze. Le spese di lite sono state compensate, in ragione della parziale soccombenza reciproca.

2. L’ordinanza offre il destro per alcune considerazioni di sistema, in particolare con riguardo alla tutela del contribuente nell’ambito dell’accertamento tributario, collocandosi così al crocevia tra efficienza dell’azione amministrativa e garanzie difensive del contribuente.

Il primo tema che merita attenzione è quello del raddoppio dei termini di accertamento (art. 43, comma 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e art. 57, comma 3, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633)1 che da sempre rappresenta un delicato punto di equilibrio tra la necessità dell’Amministrazione finanziaria di contrastare fenomeni evasivi di rilevanza penale e la tutela del contribuente rispetto al rischio di un’estensione indiscriminata del potere accertativo.

L’orientamento della Cassazione, come emerge anche dall’ordinanza in commento, ha progressivamente chiarito che il raddoppio dei termini non opera in modo automatico, bensì presuppone la ricorrenza di elementi oggettivi che giustifichino l’applicazione della disciplina speciale. In tal senso, la giurisprudenza ha tracciato una distinzione tra la motivazione dell’avviso di accertamento (necessaria per garantirne la validità formale) e la prova della sussistenza dei presupposti del raddoppio, onere che grava sull’Amministrazione finanziaria (v. Beghin M. – Moschetti F. – Schiavolin R. – Tosi L. – Zizzo G., Atti della giornata di studi in onore di Gaspare Falsitta, Padova, 2012, 328 ss.).

Questa prospettiva si inserisce in un quadro più ampio che riguarda il ruolo e la funzione della giurisdizione tributaria, la quale è ontologicamente chiamata a garantire un’effettiva tutela del contribuente contro eventuali abusi dell’Amministrazione finanziaria (v. Falsitta G., Profili della tutela costituzionale della giustizia tributaria, in Id., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 4 ss., in part. 13-14 e 36-37)2. Come evidenziato da autorevole dottrina (Marcheselli A., Giustizia tributaria: luci, ombre e prospettive di una giurisdizione fondamentale, in Questione Giustizia, 2016, 3, 9 ss.), la giurisdizione tributaria rappresenta un cardine dello Stato di diritto, essenziale nei periodi di difficoltà economica, proprio perché incide direttamente sui diritti fondamentali del contribuente e sull’equilibrio tra prelievo fiscale e garanzie difensive. Secondo questa impostazione, come evidenziato da tempo anche in sede europea (ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, 3 maggio 2011; Corte europea dei diritti dell’uomo, 3 maggio 2007; Corte europea dei diritti dell’uomo, 18 maggio 1999; Corte europea dei diritti dell’uomo, 28 giugno 1984), il giudice tributario non può essere ridotto a un semplice verificatore della regolarità formale degli atti dell’Amministrazione, bensì deve operare come giudice di controllo sull’esercizio del potere impositivo, funzione che si è resa ancor più centrale con l’evoluzione della normativa fiscale e il rafforzamento dei poteri istruttori dell’Agenzia delle Entrate.

In proposito, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 247/2011, ha chiarito che il giudice tributario ha il potere-dovere di verificare la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia e la non strumentalità dell’utilizzo del raddoppio dei termini. Un principio che mira a scongiurare il rischio che l’Amministrazione finanziaria utilizzi in modo distorto lo strumento del raddoppio, trasformandolo in un mezzo per eludere il termine ordinario di decadenza dell’accertamento (Fransoni G., Osservazioni controcorrente sul raddoppio del termine di accertamento, in Rass. trib., 2012, 2, 311 ss.).

Impostazione che, a sua volta, è stata ripresa e consolidata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. V, ord. 31 gennaio 2019, n. 2862; Cass. civ., sez. VI-5, ordinanza 30 giugno 2016, n. 13483), la quale ha sottolineato la necessità di evitare un utilizzo pretestuoso del raddoppio: il controllo sul concreto collegamento tra l’indagine penale e le violazioni contestate in sede fiscale deve essere dunque stringente, affinché il raddoppio non si trasformi in un automatismo privo di effettiva giustificazione. La Corte di Cassazione (ord. 21 febbraio 2020, n. 4639), inoltre, ha recentemente ribadito che la motivazione dell’atto non deve essere confusa con la dimostrazione dell’effettiva esistenza delle condizioni che legittimano la pretesa fiscale, distinzione che assume rilievo proprio con riferimento all’estensione temporale dei poteri accertativi (v. Comm. trib. regionale Veneto, Venezia, sez. II, 26 giugno 2018, n. 771)3.

In tale contesto, particolare rilevanza assume la questione della “conoscibilità” degli elementi nuovi su cui si fonda l’accertamento integrativo. Come chiarito dalla giurisprudenza, l’Amministrazione finanziaria non può emettere un nuovo avviso sulla base di elementi che erano già conoscibili al momento dell’accertamento originario. La verifica di tale condizione è essenziale per garantire che l’integrazione dell’accertamento non si trasformi in una riconsiderazione arbitraria di fatti già valutati, in violazione del principio di unicità dell’azione accertativa.

Secondo l’orientamento consolidato, infatti, per giustificare un atto di integrazione non è sufficiente che gli elementi su cui esso si basa siano astrattamente conoscibili dall’Amministrazione, bensì occorre valutare se tali elementi potessero essere effettivamente acquisiti prima della notifica dell’accertamento originario.

Come osservato in dottrina (Marcheselli A., Accertamenti tributari. Poteri del fisco e strategie del difensore, Milano, 2022, 644), il parametro di riferimento per stabilire la conoscibilità degli elementi nuovi deve essere individuato nel grado di diligenza e ragionevolezza dell’attività istruttoria dell’Ufficio: se un determinato elemento avrebbe potuto essere acquisito con un’indagine tempestiva e accurata, esso non può essere considerato “nuovo” ai fini dell’integrazione dell’accertamento.

Un principio che è assolutamente coerente con l’esigenza di evitare un uso arbitrario della potestà accertativa, che altrimenti potrebbe tradursi in un doppio livello di accertamento “progressivo” a scapito della certezza dei rapporti giuridici. La Cassazione, infatti, ha ribadito in più occasioni (ex multis, Cass. civ., sez. V, 21 novembre 2001, n. 14700; Cass. civ., sez. V, 11 novembre 2011, n. 23615; Cass. civ., sez. V, 24 novembre 2017, n. 28061; Cass. civ., sez. V, 2 marzo 2020, n. 5645; Cass. civ., sez. V, ord. 4 marzo 2020, n. 6063; Cass. civ., sez. V, ord. 20 settembre 2024, n. 25321) che spetta all’Amministrazione provare la sussistenza dei presupposti della pretesa e, conseguentemente, dimostrare che le informazioni su cui si fonda l’accertamento integrativo non erano acquisibili con l’ordinaria diligenza in sede di prima verifica.

Sotto un diverso profilo, la tematica della conoscibilità assume rilievo anche con riferimento all’applicazione del raddoppio dei termini. In questo caso, però, la questione non riguarda la possibilità dell’Amministrazione di esercitare nuovamente il potere accertativo, piuttosto la necessità che il contribuente e il giudice siano posti nella condizione di verificare l’effettiva sussistenza della notitia criminis su cui si fonda l’estensione temporale dei termini. Se nel caso dell’accertamento integrativo il tema centrale è la limitazione dell’azione dell’Ufficio, nel raddoppio dei termini la questione riguarda piuttosto la trasparenza dell’azione amministrativa e la tutela del diritto di difesa del contribuente. La giurisprudenza ha chiarito che, sebbene non sia necessario allegare la denuncia all’avviso di accertamento, è comunque imprescindibile che l’atto indichi gli elementi essenziali che giustificano il raddoppio, affinché ne possa essere verificata la legittimità in sede contenziosa.

La questione della conoscibilità degli elementi posti a fondamento dell’accertamento integrativo si inserisce in un più ampio dibattito sulla trasparenza dell’azione amministrativa e sulla possibilità per il contribuente di verificare la legittimità degli atti impositivi. Se, infatti, nel caso dell’accertamento integrativo il problema riguarda la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi da parte dell’Amministrazione, in materia di raddoppio dei termini si pone un’esigenza analoga, ma con una diversa prospettiva: qui, il tema centrale è la possibilità per il contribuente di controllare l’effettiva esistenza della notitia criminis e la sua rilevanza ai fini fiscali.

Secondo una prima posizione ermeneutica, fatta propria da parte della dottrina (Corso P., Rapporto tra dimensione penale dell’illecito tributario e termini per l’accertamento, in Corr. trib., 2010, 5, 341 ss.)4 e talvolta ripreso nella giurisprudenza di merito, la mancata allegazione della denuncia all’Autorità giudiziaria – nell’avviso di accertamento o in sede di giudizio – determinerebbe l’illegittimità del raddoppio dei termini, in quanto il contribuente sarebbe privato della possibilità di verificarne l’effettiva esistenza e rilevanza. Questa prospettiva si fonda sull’idea che il raddoppio non possa operare in modo automatico, bensì debba essere giustificato da presupposti oggettivi e verificabili, la cui conoscibilità assume un ruolo determinante per garantire il diritto di difesa.

L’ordinanza in esame, tuttavia, si pone nel solco dell’orientamento consolidato secondo cui l’allegazione della comunicazione di reato non è necessaria, purché l’avviso di accertamento indichi gli estremi essenziali della notitia criminis. A supporto di tale impostazione, la giurisprudenza nomofilattica (ex multis, Cass. civ., sez. VI-5, ord. 11 aprile 2017, n. 9323; Cass., sez. VI-5, ord. 15 aprile 2013, n. 9032; Cass. civ., sez. V, 25 marzo 2011, n. 6914; Cass. civ., sez. V, 29 gennaio 2008, n. 1906) ha chiarito che il contribuente deve essere posto in condizione di conoscere l’esistenza e il contenuto minimo essenziale della denuncia, senza che sia necessario un integrale accesso all’atto. L’approccio seguito dall’ordinanza riflette quindi una lettura funzionale del principio di trasparenza, che non impone un onere documentale eccessivo all’Amministrazione, piuttosto le richiede di fornire elementi sufficienti per consentire il sindacato giurisdizionale sulla sussistenza dei presupposti per l’ampliamento del potere accertativo.

Si osserva, inoltre, che la medesima ordinanza si colloca in linea con quanto affermato nel 2019 dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. Un., 27 dicembre 2019, n. 34476), confermando che non possono essere rimesse in discussione in sede di legittimità le valutazioni in fatto sulla non pretestuosità della comunicazione di reato. La recente ordinanza, come si è in precedenza riportato, ribadisce che il giudice di merito mantiene il potere di verificare se il raddoppio dei termini sia stato applicato in modo strumentale, senza che sia necessario allegare la notizia di reato agli atti impositivi.

L’ordinanza n. 2046/2025 della Cassazione si inserisce proprio nel solco interpretativo già tracciato dalle Sezioni Unite nel 2019, confermandone gli approdi ma, al contempo, soffermandosi con maggiore precisione su taluni profili procedurali connessi all’onere probatorio relativo ai presupposti del raddoppio dei termini e alla verifica della pretestuosità della comunicazione di reato. L’intervento della Suprema Corte assume, dunque, una valenza ricognitiva e sistematica, fornendo un ulteriore consolidamento della disciplina applicativa dell’istituto e rafforzandone la coerenza nell’ambito del contenzioso tributario. In particolare, l’ordinanza ribadisce che l’allegazione della comunicazione di reato agli avvisi di accertamento non costituisce un requisito necessario, a condizione che l’atto impositivo ne riporti gli estremi essenziali. Un chiarimento che si innesta in un più ampio quadro dogmatico, all’interno del quale si distingue tra la motivazione dell’avviso di accertamento – intesa come requisito di validità formale dell’atto – e la prova dei fatti costitutivi della pretesa tributaria, la cui verifica spetta al giudice nella fase contenziosa. Trattasi di una distinzione consolidata nella giurisprudenza di legittimità, chiaramente volta a evitare una sovrapposizione tra il piano della legittimità formale dell’atto e quello dell’accertamento sostanziale della pretesa erariale.

L’ordinanza riafferma, altresì, il principio del “doppio binario” tra procedimento penale e processo tributario, chiarendo che l’esito del primo non condiziona in alcun modo la decisione del secondo. Al giudice tributario è demandato il compito di verificare la sussistenza dei presupposti normativi per l’obbligo di denuncia e, conseguentemente, per l’applicazione del raddoppio dei termini, scongiurando il rischio che l’Amministrazione finanziaria possa avvalersi in modo distorto della normativa per procrastinare arbitrariamente il potere accertativo.

Di particolare rilievo è, infine, la conferma del principio per cui la valutazione sulla pretestuosità della comunicazione di reato è un accertamento in fatto, rimesso alla discrezionalità del giudice di merito e, come tale, non censurabile in sede di legittimità. Questo aspetto si rivela determinante nel delineare i confini del sindacato del giudice di Cassazione, che non può tradursi in una rivalutazione delle circostanze fattuali già esaminate nei gradi di merito, ma, al contrario, deve limitarsi a garantire il rispetto dei principi di diritto nell’applicazione dell’istituto.

Come evidenziato in dottrina (Russo F., L’ampliamento della giurisdizione tributaria e del novero degli atti impugnabili: riflessi sugli organi e sull’oggetto del processo, in Rass. trib., 2009, 6, 1551 ss.), questa impostazione si inserisce in un quadro più ampio, poiché investe la natura stessa del processo tributario: quest’ultimo, infatti, non rientra tra i processi di mera impugnazione-annullamento, bensì tra quelli di impugnazione-merito, caratterizzati da un sindacato giurisdizionale che consente al giudice di valutare la fondatezza della motivazione dell’atto impositivo.

L’ordinanza in esame, pur confermando il potere del giudice tributario di verificare la non strumentalità del raddoppio dei termini, ribadisce che tale sindacato si esercita nei limiti della verifica della legittimità dell’atto impositivo, senza estendersi automaticamente alla fondatezza della pretesa tributaria. In questa prospettiva, si rafforza il principio secondo cui il giudice tributario, laddove riscontri un vizio nell’applicazione del raddoppio, può invalidare l’atto, ma ciò non implica un riesame pieno del rapporto impositivo, che rimane distinto rispetto alla valutazione della legittimità della pretesa accertativa.

Un’ulteriore implicazione riguarda il limite alla contestazione in sede di legittimità: la pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. civ, Sez. Un., 27 dicembre 2019, n. 34476)5, conferma che, una volta soddisfatti i requisiti formali per l’applicazione del raddoppio dei termini, non è più consentito al contribuente censurare nel merito la decisione dell’Amministrazione, ma soltanto dedurre profili di illegittimità relativi alla motivazione dell’atto. In particolare, è denunciabile in Cassazione solo un vizio della motivazione che si traduca in una violazione di legge costituzionalmente rilevante, quale l’assenza assoluta di motivazione, la motivazione apparente, contraddittoria o incomprensibile, mentre resta esclusa ogni censura relativa alla sufficienza della motivazione o alla valutazione della sua fondatezza nel merito. Un’impostazione che, in linea con l’evoluzione giurisprudenziale più recente, conferma che il sindacato del giudice di legittimità si limita a garantire il rispetto dei requisiti minimi di legalità e completezza dell’atto, senza spingersi fino a una verifica della fondatezza della pretesa tributaria o della reale strumentalità della comunicazione di reato (Consolo C., Della inammissibilità di una integrazione o rettifica della motivazione dell’accertamento in sede giudiziale e dei correlati limiti ai poteri istruttorii del giudice tributario, in Rass. trib., 1986, I, 135 ss.).

3. L’ordinanza traccia una linea di demarcazione tra autotutela (v. Melis G., Una visione d’insieme delle modifiche allo Statuto dei diritti del contribuente: i principi del procedimento tributario, in il fisco, 2024, 3, 221 ss.)6 sostitutiva e avviso integrativo/modificativo, ribadendo che il primo strumento consente all’Amministrazione di annullare e sostituire atti illegittimi, mentre il secondo opera solo in presenza di nuovi elementi di fatto o di diritto.

La distinzione, apparentemente chiara, si inserisce al crocevia tra il principio di unicità dell’accertamento e la necessità di garantire all’Amministrazione finanziaria un efficace strumento di correzione e aggiornamento della pretesa tributaria, solleva tuttavia un interrogativo più ampio: fino a che punto l’Ufficio può correggere e integrare il proprio operato senza ledere il principio di affidamento del contribuente? Se l’accertamento integrativo è giustificato dalla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, non si rischia di legittimare una “progressione” dell’azione accertativa che si traduce in una compressione della certezza giuridica?

Pur condividendo la finalità di adeguare l’azione impositiva alle reali condizioni del rapporto tributario, i due istituti rispondono a logiche diverse e presentano presupposti applicativi nettamente distinti (v. Pistolesi F., Quale sorte per gli accertamenti integrativi e modificativi, in Riv. dir. trib., 2010, 2, 387 ss.; Muleo S., Atti impositivi modificativi di precedenti e derive in tema di accertamento integrativo in carenza di sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, in Riv. dir. trib., 2010, 2, 567 ss.).

L’autotutela sostitutiva costituisce un procedimento di secondo grado, con cui l’Amministrazione finanziaria riesamina un atto impositivo già emesso, ritenendolo viziato sotto il profilo della legittimità o della fondatezza (Cass. civ., Sez. Un., 21 novembre 2024, n. 30051). La sua caratteristica distintiva risiede nel fatto che tale riesame non si basa sulla scoperta di nuovi elementi di fatto o di diritto, bensì su una diversa valutazione delle stesse circostanze già note all’epoca dell’emissione dell’atto originario (così Cass. civ., sez. V, ord. 28 gennaio 2025, n. 2046. Si v. anche Antico G., L’accertamento parziale non necessita di nuovi sopravvenuti elementi, in il fisco, 2025, 9, 749 ss.; Marcheselli A., La sopravvenuta conoscenza di “nuovi elementi” ai fini dell’accertamento integrativo, in Corr. trib., 2006, 25, 1971).

Sul piano strutturale, l’esercizio dell’autotutela sostitutiva implica: da un lato, l’annullamento espresso dell’atto originario, il quale viene eliminato dall’ordinamento e privo di effetti giuridici (v. La Rosa S., Autotutela e annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari, in Riv. dir. trib., 1998, I 1148)7; e dall’altro, la sua sostituzione con un nuovo atto, che emenda i vizi riscontrati nel precedente e lo riformula in modo conforme alla normativa vigente.

Questa distinzione si inserisce in un dibattito più ampio che ha trovato un punto di svolta nella recente sentenza delle Sezioni Unite del 21 novembre 2024, n. 30051. La decisione ha affrontato, tra gli altri profili, il tema dell’autotutela sostitutiva in malam partem, ossia la possibilità che l’Amministrazione, riesaminando un atto già emesso, possa emetterne uno nuovo con una pretesa fiscale più gravosa, pur in assenza della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi di fatto o di diritto (v. Carinci A., Perduranti incertezze e criticità nel nuovo istituto dell’autotutela, in il fisco, 2024, 47/48, 4363 ss.).

Prima dell’intervento delle Sezioni Unite, sul punto si erano sviluppati due orientamenti contrapposti.

Da un lato, vi era chi ritiene che l’autotutela sostitutiva possa essere esercitata senza limitazioni, anche per correggere vizi sostanziali dell’atto, poiché l’Amministrazione finanziaria ha il dovere di garantire la corretta attuazione dell’obbligazione tributaria (ex multis, Cass. civ., sez. V, 11 settembre 2024, n. 24387; Cass. civ., sez. V, ord. 1° marzo 2022, n. 6621; Cass. civ., sez. VI-5, ord. 6 luglio 2020, n. 13807; Cass. civ., sez. V, 20 marzo 2019, n. 7751). Secondo questa impostazione, il riesame può avvenire sulla base di una diversa valutazione degli stessi elementi probatori già noti all’Ufficio (così Cass. civ., sez. V, ord. 12 marzo 2021, n. 6981), senza che ciò configuri una violazione del principio di unicità dell’accertamento (così Guidara A., Discrezionalità e vincolatezza nell’azione dell’Amministrazione finanziaria, in Guidara A., a cura di, Accordi e azione amministrativa nel diritto tributario, Pisa, 2020, 10 ss.).

Dall’altro lato, una diversa prospettiva (v. Guarini K., Limiti all’esercizio dell’autotutela, in Dir. prat. trib., 2022, 4, 1385 ss.) poneva limiti più stringenti, affermando che l’Amministrazione non può emettere un nuovo atto con una maggiore pretesa impositiva semplicemente rivalutando elementi già conosciuti o conoscibili. Questo orientamento (v. Cass. civ., 16 marzo 2020, n. 7293) si fondava sulla necessità di garantire che, una volta esaurita l’azione accertativa, l’Ufficio non possa reiterarla senza la scoperta di nuovi fatti rilevanti. In caso contrario, si avrebbe una compressione delle garanzie difensive del contribuente e una lesione della certezza del diritto (Dami F., L’unicità dell’accertamento, in Ferranti G., diretto da, Adempimento collaborativo, accertamento e contenzioso, Milano, 2024, 113 ss.).

Occorre evidenziare che il dibattito sulla portata dell’autotutela sostitutiva si inserisce in una riflessione più ampia sul coordinamento di tale potere con il principio di unicità dell’accertamento. In tal senso, la riforma della giustizia tributaria ha introdotto l’art. 9-bis, il quale fornisce una distinzione più netta e chiara tra le diverse ipotesi di intervento dell’Amministrazione (Prosperi F. – Dorigo S., Il nuovo principio di unicità dell’accertamento ex art. 9-bis dello Statuto del contribuente nella perdurante incertezza sui limiti dell’autotutela sostituiva, in Dir. trib., 2024, 1, 214 ss.). Secondo tale disposizione normativa, l’autotutela sostitutiva è sempre ammissibile per correggere vizi formali o procedurali, senza necessità di nuovi elementi. Al contrario, se il nuovo atto impositivo si fonda su vizi sostanziali, l’Amministrazione incontra dei limiti più stringenti, poiché l’intervento non può tradursi in un aggravamento della pretesa fiscale in assenza della scoperta di nuovi fatti (v. Dami F., Ne bis in idem nel procedimento tributario: principio di civiltà giuridica da valorizzare sul piano operativo, in il fisco, 2024, 45, 4163 ss.).

Ciò significa che un provvedimento di autotutela adottato in malam partem non è automaticamente legittimo, ma deve essere valutato caso per caso, bilanciando l’interesse fiscale con il diritto di difesa del contribuente. In questa prospettiva, il principio di buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione (art. 97 Cost.) impone che l’autotutela non possa essere utilizzata per sanare inefficienze istruttorie dell’Ufficio, pena il rischio di accertamenti reiterati e una compromissione della certezza del diritto (Demetri M., Autotutela sostitutiva e unicità dell’accertamento: note a margine di una recente ordinanza di rimessione alle sezioni unite in tema di estensione dell’autotutela sostitutiva ai vizi sostanziali, anche alla luce delle modifiche allo Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. tel. dir. trib., 2024, 1, 196 ss.).

La sentenza delle Sezioni Unite ha dunque cercato di fornire un quadro di riferimento, ma il problema rimane aperto: fino a che punto l’Ufficio può correggere e integrare il proprio operato senza ledere il principio di affidamento del contribuente? Se l’accertamento integrativo è giustificato solo dalla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, si rischia di legittimare una progressione dell’azione accertativa che incide sulla certezza giuridica?

Proprio alla luce di queste criticità, diventa fondamentale interrogarsi sulla vera natura dell’autotutela sostitutiva e sul suo rapporto con il principio di unicità dell’accertamento. Se, da un lato, la giurisprudenza ha chiarito che il potere impositivo non si esaurisce con l’emissione del primo atto, dall’altro è necessario comprendere se e in che misura l’autotutela sostitutiva possa considerarsi una mera rettifica dell’atto originario o piuttosto un nuovo esercizio del potere accertativo. In questa prospettiva, si pone il problema di definire i confini tra la revisione di un atto viziato e la reiterazione dell’azione accertativa, al fine di stabilire se il principio di unicità dell’accertamento venga effettivamente rispettato o, al contrario, aggirato.

L’autotutela sostitutiva, quindi, non rappresenta una deroga al principio di unicità dell’accertamento, bensì una sua applicazione coerente: l’azione accertativa viene esercitata una sola volta e l’atto impositivo, pur nella sua versione modificata, mantiene continuità giuridica con quello originario. Il presupposto di tale intervento risiede nell’esigenza di correggere un errore originario, assicurando che il provvedimento finale sia conforme ai requisiti di legittimità e fondatezza richiesti dall’ordinamento.

Tale affermazione, come emerge dall’ordinanza n. 2046/2025, necessita di alcune precisazioni alla luce della giurisprudenza e della prassi applicativa. Pur confermando che l’autotutela sostitutiva mira a correggere un errore originario, è necessario chiarire se, in presenza di provvedimenti successivi sugli stessi fatti, si possa ancora parlare di un unico atto o di un unico accertamento.

La questione centrale riguarda la portata del principio di unicità dell’accertamento: esso implica che l’Amministrazione possa controllare un determinato presupposto solo una volta, oppure vieta di procedere su presupposti diversi? La giurisprudenza della Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, ha chiarito che l’emissione di un primo atto non consuma il potere impositivo, che può essere esercitato nuovamente entro i termini di decadenza e fino alla formazione del giudicato (Marcheselli A., Motivazione e prova, nel procedimento e nel processo tributario. Il giudice tributario come garante della funzione tributaria, Relazione al corso dedicato ai giudici tributari: “I percorsi della Riforma Tributaria. La dimensione sostanziale e processuale delle garanzie del contribuente” tenutosi l’11 dicembre 2024 presso l’Aula Magna della Scuola nazionale della Amministrazione – Presidenza del Consiglio dei Ministri).

Tale chiarimento consente di distinguere tra due strumenti: da un lato, l’accertamento integrativo (artt. 43, comma 3, D.P.R. n. 600/1973 e art. 57, comma 4, D.P.R. n. 633/1972), che presuppone la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi di fatto o di diritto sopravvenuti (Servidio S., Ammesso annullamento e sostituzione di atto viziato con uno peggiorativo [autotutela], in Immobili & proprietà, 2025, 1, 32 ss.)8 rispetto al primo accertamento (così Cass. civ., sez. trib., ord. 11 maggio 2018, n. 11510. Si v. anche Sassara G., Solo il giudicato e il decorso del termine di decadenza per un nuovo accertamento limitano il potere di autotutela sostitutiva, in il fisco, 2022, 43, 4172), così da consentire una modifica “in aumento” della pretesa impositiva (Fronticelli Baldelli F., Accertamento e riscossione, Milano, 2023, 617 ss.), senza sostituire l’atto originario, che rimane valido e continua a produrre i suoi effetti; e, dall’altro, l’autotutela sostitutiva, che comporta l’annullamento espresso dell’atto precedente, ritenuto viziato, e la sua sostituzione con un nuovo provvedimento, il quale può essere sostanzialmente identico ma privo dei vizi originari, oppure presentare innovazioni più ampie che investono elementi strutturali quali destinatari, oggetto, contenuto e motivazione.

Nel caso dell’autotutela sostitutiva, sebbene si provveda due volte sugli stessi fatti, l’atto impositivo rimane unico, nel senso che il primo atto viene rimosso e sostituito con un altro, senza dar luogo a una duplicazione dell’accertamento. In altre parole, non si tratta di una reiterazione dell’azione accertativa, piuttosto di una correzione con efficacia retroattiva di un atto viziato.

La ratio di tale potere risiede nell’esigenza di garantire la correttezza e la legittimità dell’azione amministrativa, consentendo all’Amministrazione di emendare i propri errori senza dover necessariamente attendere l’intervento del giudice. L’esercizio dell’autotutela sostitutiva incontra però precisi limiti, sia sotto il profilo temporale, poiché deve avvenire entro i termini di decadenza per l’accertamento, sia sotto il profilo delle garanzie del contribuente, poiché deve essere adeguatamente motivato e rispettare i principi di buona fede e di affidamento. L’annullamento di un atto impositivo non può essere revocato successivamente in autotutela per far “rivivere” l’atto originario, come confermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. V, 8 ottobre 2013, n. 22827).

In questo quadro, assume particolare rilievo anche la questione della motivazione dell’atto sostitutivo. L’art. 7, comma 1-bis dello Statuto del contribuente stabilisce che i fatti e le prove a fondamento dell’atto impositivo non possono essere modificati in giudizio. È consentito precisare il fondamento dell’atto, specificando elementi già enunciati nella motivazione, ma non è consentito sostituire, modificare o integrare il contenuto probatorio dell’atto rispetto a quanto inizialmente indicato (Sbroiavacca A., Nuovo onere probatorio ed impatto sulla motivazione degli atti dell’amministrazione finanziaria, in Riv. dir. trib., 2024, 2, 21 ss.).

Infine, come sottolineato da autorevole dottrina (Marcheselli A., Motivazione e prova, nel procedimento e nel processo tributario. Il giudice tributario come garante della funzione tributaria, cit.), il giudice tributario ha il potere di verificare che il raddoppio dei termini non sia stato utilizzato in modo strumentale, senza che sia necessaria l’allegazione della notizia di reato agli atti impositivi; un controllo che non può essere esteso in modo automatico alla fondatezza della pretesa tributaria, perché deve essere circoscritto alla verifica della legittimità dell’atto e al rispetto delle condizioni poste dall’ordinamento per l’estensione dei termini accertativi.

4. Alla luce delle considerazioni svolte in merito all’autotutela sostitutiva e all’accertamento integrativo, emerge un ulteriore profilo di criticità legato alla simmetria informativa e al principio di parità delle armi tra contribuente e Amministrazione finanziaria. Se da un lato il contribuente è vincolato a termini rigorosi per la presentazione di dichiarazioni integrative e per la rettifica di eventuali errori (così Cass. civ., Sez. Un., 21 novembre 2024, n. 30051, cit.), dall’altro l’Amministrazione dispone di strumenti più flessibili che, se non applicati con criteri rigorosi, rischiano di determinare un “accertamento a puntate”, in contrasto con il principio di unicità dell’azione accertativa (Sassara G., Solo il giudicato e il decorso del termine di decadenza per un nuovo accertamento limitano il potere di autotutela sostitutiva, cit., 1471).

Nel diverso regime che governa l’autotutela sostitutiva e l’accertamento integrativo, questa asimmetria si manifesta con particolare evidenza. La prima, consente all’Amministrazione di riesaminare un atto impositivo già emesso, correggendone eventuali vizi senza che vi sia la necessità di nuovi elementi di fatto o di diritto. L’accertamento integrativo, invece, rappresenta un’eccezione al principio di unicità dell’accertamento e può essere emesso solo sulla base della sopravvenuta conoscenza di elementi che non erano conoscibili al momento della prima rettifica. L’utilizzo indiscriminato di questi strumenti, specialmente quando l’Amministrazione ricorra all’autotutela per modificare atti impositivi in malam partem, senza nuovi elementi giustificativi, rischia di alterare l’equilibrio tra le parti e di rendere il procedimento impositivo imprevedibile, pregiudicando la certezza del diritto.

In questa prospettiva assume rilievo anche il principio di affidamento, il quale impone all’Amministrazione finanziaria di agire in modo coerente e prevedibile. La giurisprudenza ha chiarito che il legittimo affidamento del contribuente non può derivare automaticamente dall’esistenza di un atto illegittimo o da una valutazione errata dell’Amministrazione, al contrario, richiede una condotta univoca da parte dell’ente impositore che abbia ingenerato nel contribuente una ragionevole aspettativa di stabilità del rapporto giuridico. Questo principio si inserisce in una più ampia cornice di collaborazione tra contribuente e Amministrazione, in cui la buona fede deve guidare l’azione amministrativa, come dimostrano gli strumenti di mediazione tributaria e il rafforzamento del contraddittorio preventivo.

Un ulteriore profilo di criticità riguarda il potere di autotutela e i suoi limiti: sebbene l’Amministrazione possa annullare d’ufficio un atto impositivo viziato, tale potere non può essere esercitato in modo tale da eludere un giudicato sostanziale formatosi sul provvedimento annullato.

Le criticità evidenziate in relazione alla simmetria informativa tra contribuente e Amministrazione finanziaria sono, almeno in parte, confermate dall’ordinanza n. 2046/2025, poiché, al contempo, delinea alcuni correttivi volti a evitare un uso arbitrario degli strumenti accertativi. In particolare, la pronuncia ribadisce che l’accertamento integrativo non può essere utilizzato per colmare lacune istruttorie dell’Ufficio o per rimediare a una valutazione errata degli elementi già noti al momento della prima emissione dell’atto impositivo. La necessità di garantire il rispetto del principio di unicità dell’accertamento viene affermata con chiarezza, nella misura in cui l’ordinanza specifica che l’integrazione dell’avviso di accertamento è ammessa solo quando l’Amministrazione dimostri la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi, i quali devono essere oggetto di puntuale motivazione nel nuovo atto.

Un’impostazione che, pertanto, si pone in linea con l’esigenza di evitare un “accertamento a puntate”, poiché ribadisce che il potere di accertamento integrativo costituisce una deroga rispetto al principio generale e, in quanto tale, deve essere applicato in modo rigoroso. La stessa ordinanza n. 2046/2025 della Cassazione chiarisce che un accertamento integrativo, che modifica in aumento la pretesa fiscale, può avvenire solo sulla base della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi e non di una semplice rivalutazione di quelli già noti. Tuttavia, la stessa ordinanza riconosce la possibilità per l’Amministrazione di riesaminare l’atto originario tramite l’autotutela sostitutiva, strumento che le consente di annullare un provvedimento ritenuto illegittimo o infondato e di sostituirlo con un nuovo atto.

Questo solleva una questione cruciale: se l’accertamento integrativo è soggetto al limite dei nuovi elementi, l’autotutela sostitutiva può essere utilizzata per superare tale vincolo? L’ordinanza sembra suggerire che l’autotutela sostitutiva non possa diventare un mezzo surrettizio per aggirare i limiti dell’accertamento integrativo, specie in assenza di vizi originari nell’atto annullato. Sebbene la rivalutazione degli stessi elementi sia astrattamente possibile con l’autotutela sostitutiva, ciò non significa che l’Amministrazione possa sempre rifare l’accertamento: il potere di autotutela deve rispettare i termini di decadenza, il principio del giudicato e le garanzie del contribuente, evitando che il semplice cambio di denominazione dell’atto si traduca in un uso arbitrario del potere impositivo.

Per quanto riguarda l’autotutela sostitutiva, l’ordinanza n. 2046/2025 conferma che l’Amministrazione può annullare e sostituire un atto impositivo viziato, anche in malam partem, ma nel rispetto dei termini decadenziali per l’azione accertativa e del divieto di eludere un giudicato sostanziale formatosi sull’atto originario. La stessa ordinanza, tuttavia, chiarisce quali sarebbero le ipotesi di un utilizzo eccessivamente elastico di questo strumento, fornendo alcuni elementi di valutazione.

Anzitutto, l’Amministrazione deve agire entro i termini di decadenza previsti per l’accertamento: un uso distorto dell’autotutela sostitutiva si avrebbe laddove essa venisse impiegata per riaprire posizioni fiscali ormai precluse, aggirando di fatto la scadenza dei termini. In secondo luogo, l’autotutela non può essere utilizzata per rimettere in discussione una pretesa fiscale già definita da una sentenza passata in giudicato. Il divieto di eludere un giudicato sostanziale implica che, una volta che un atto impositivo sia stato oggetto di un contenzioso chiuso con decisione definitiva, l’Amministrazione non possa riesaminare la stessa questione attraverso l’annullamento e la sostituzione dell’atto.

Un altro limite fondamentale riguarda il rispetto dei principi di buona fede e correttezza amministrativa: la giurisprudenza evidenzia che l’autotutela sostitutiva non può tradursi in comportamenti contraddittori o ingannevoli da parte dell’Amministrazione, tali da generare incertezza giuridica per il contribuente e minare il principio di affidamento.

Infine, l’autotutela sostitutiva presuppone l’esistenza di un vizio nell’atto originario, che ne giustifichi l’annullamento e la sostituzione. Un utilizzo improprio dello strumento si configurerebbe qualora l’Amministrazione lo impiegasse per rivedere discrezionalmente una valutazione già effettuata, senza che vi siano errori o profili di illegittimità da correggere. In tal caso, l’autotutela non sarebbe più una forma di correzione dell’errore, bensì uno strumento per riesaminare e modificare arbitrariamente l’atto impositivo.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 1/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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1 Si evidenzia che la proroga dei termini di accertamento rappresenta una costante del sistema tributario, trovando applicazione in contesti eterogenei e non limitati alla fattispecie oggetto della presente ordinanza. In tal senso, il legislatore ha introdotto specifiche ipotesi in cui i termini ordinari vengono estensivamente modulati per esigenze di controllo più incisivo. Un esempio significativo è fornito dall’art. 12 D.L. n. 78/2009, convertito con modificazioni dalla L. n. 102/2009, il cui comma 2-bis dispone il raddoppio dei termini di accertamento quando la rettifica si fonda sulla presunzione di cui al comma 2 dello stesso articolo. Tale norma stabilisce che gli investimenti e le attività finanziarie detenute in Stati o territori a fiscalità privilegiata si considerano costituiti mediante redditi non dichiarati, giustificando così un’estensione temporale dell’azione accertativa ai sensi degli artt. 43, commi 1 e 2, D.P.R. n. 600/1973 e 57, commi 1 e 2 D.P.R. n. 633/1972. Altre disposizioni, invece, prevedono termini di accertamento più ampi rispetto a quelli ordinari in virtù di discipline speciali. A titolo esemplificativo, l’art. 27, commi 16 e 17, D.L. n. 185/2008 introduce un’estensione dei termini per le verifiche concernenti società di comodo o in perdita sistematica, nell’ottica di un rafforzamento del contrasto a fenomeni elusivi.

2 La giustizia tributaria non può trovare applicazione solo nel suo momento “creativo” ma anche in quello “applicativo”.

3 Il compito del giudice tributario, in presenza di una notizia di reato riconosciuta da un pubblico ufficiale, è quello di doversi limitare alla verifica della sussistenza, nel caso concreto, degli elementi minimi richiesti dall’art. 331 c.p.p. Ne consegue che il raddoppio dei termini per l’accertamento fiscale può essere escluso solo laddove tali elementi risultino manifestamente carenti.

1 In tal senso, si è osservato che l’assenza di allegazione della denuncia all’Autorità giudiziaria – ove non sanata neppure in corso di causa – preclude al giudice la possibilità di verificare la ricorrenza dei presupposti richiesti dall’art. 43, comma 3, D.P.R. n. 600/1973, con conseguente impossibilità di ritenere legittima l’applicazione del raddoppio dei termini ordinari per l’accertamento.

5 Al punto 3 in diritto si legge che: «[…] nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, in quanto attiene all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali: tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione».

6 Istituto introdotto per la prima volta nel diritto tributario dall’art. 68 D.P.R. 27 marzo 1992, n. 287, successivamente disciplinato dall’art. 2-quater D.L. n. 564/1994 (convertito dalla L. n. 656/1994, n. 656) e poi positivizzato dal Regolamento procedurale di cui al decreto MEF n. 37/1997.

7 Dal momento che si sostanzia in un abbandono della pretesa finanziaria con effetti favorevoli per il contribuente, l’annullamento d’ufficio può essere compiuto senza limiti di tempo.

8 L’Amministrazione finanziaria è tenuta a specificare puntualmente i nuovi elementi su cui si fonda l’integrazione, in modo da garantire il diritto di difesa del contribuente.

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