IRBA e rimborso del tributo contrario al diritto UE: questioni irrisolte in tema di onere della prova

Di Giulia Carlino -

Abstract (*)

Con la sentenza n. 3101/2025, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema del rimborso dell’Imposta Regionale sulla Benzina per Autotrazione (IRBA), già dichiarata incompatibile con il diritto dell’Unione Europea, risolvendo la controversia sulla base del rilievo d’ufficio del difetto di legittimazione passiva della Regione. A partire da tale decisione, il contributo analizza uno dei profili centrali rimasti irrisolti, ovvero l’onere della prova relativo alla traslazione dell’imposta e all’eventuale arricchimento indebito del contribuente.

IRBA and tax refund contrary to EU law: unresolved issues on the burden of proof  – In judgment no. 3101/2025, the Court of Cassation addressed the issue of the reimbursement of the Regional Tax on Motor Fuel (IRBA), already declared incompatible with European Union law, resolving the dispute on the basis of the court’s own finding that the Region lacked standing to be sued. Starting from this decision, the contribution analyzes one of the central issues that remained unresolved, namely the burden of proof relating to the transfer of the tax and the possible undue enrichment of the taxpayer.

Sommario: 1. Il thema decidendum. – 2. Il percorso che ha condotto alla dichiarazione di illegittimità dell’IRBA. – 3. L’onere della prova: ricostruzione delle regole elaborate dalla giurisprudenza e profili irrisolti.

1. La recente sentenza n. 3101/2025 della Corte di Cassazione offre l’opportunità di approfondire alcune questioni rilevanti in materia di rimborso dell’Imposta Regionale sulla Benzina per Autotrazione (IRBA), i cui risvolti della soppressione sono stati illustrati, sotto diversi profili e su diversi piani, in questa Rivista (cfr. Bortolini S., I molteplici risvolti dell’abrogazione dell’Imposta Regionale sulla Benzina per Autotrazione, in Riv. tel. dir. trib., 2021, 1, 512 ss.).

La controversia trae origine dal ricorso presentato nei confronti della Regione Piemonte da una società al fine di ottenere il rimborso dell’IRBA corrisposta nel periodo di imposta 2018-2020. La pronuncia oggetto di trattazione scaturisce dal ricorso per cassazione promosso dalla Regione avverso la sentenza della Corte di Giustizia tributaria di secondo grado, che aveva accolto l’appello della società, riconoscendo a quest’ultima il diritto al rimborso dell’IRBA versata. In sostanza, il giudice di secondo grado aveva riformato la decisione di primo grado, ritenendo che il diritto al rimborso dell’IRBA sussistesse in quanto: «la controversia aveva ad oggetto un’imposta ormai definitivamente abrogata dalla legge n. 178 del 2020», «l’incasso della Regione Piemonte del tributo in oggetto era indebito, alla luce di quanto affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea» e «al fine di escludere il diritto al rimborso della contribuente, era onere dell’Ufficio dimostrare che l’imposta in questione […] ma tale prova non era stata fornita dalla Regione Piemonte, che si era limitata a sostenere l’esistenza di quella traslazione unicamente sulla scorta del prezzo di vendita della benzina».

La Regione ha articolato il suo ricorso al Giudice di legittimità in diversi motivi, concernenti: 1) la ripartizione dell’onere della prova, contestando l’imposizione a carico dell’Amministrazione regionale dell’onere di provare l’avvenuta traslazione dell’imposta e l’eventuale ingiustificato arricchimento della società, 2) la mancata prova della traslazione del tributo e dell’assenza di arricchimento senza causa, 3) l’omesso accertamento tecnico sui fatti controversi relativi alla traslazione e all’arricchimento, e 4) la mancata considerazione dell’eccezione di inammissibilità dell’istanza di rimborso.

Tra i motivi proposti, la questione della prova della traslazione del tributo e dell’assenza di arricchimento senza causa ed in particolare la ripartizione dell’onere di provare tali elementi appare il punto di maggiore interesse.

Tuttavia, la Corte di Cassazione non si pronuncia su nessuno dei motivi di ricorso, risolvendo la controversia sulla base di un rilievo d’ufficio relativo alla mancanza di legittimazione passiva della Regione. Tale pronuncia si fonda sulla qualificazione della natura giuridica dell’IRBA come tributo statale e non regionale, da cui discende l’impossibilità per le Regioni di figurare come parti legittimate nei giudizi di ripetizione dell’indebito, sul modello di quanto avvenuto per la decisione riguardante l’addizionale provinciale sul consumo di energia elettrica.

Per inquadrare adeguatamente i profili attinenti all’onere della prova, è necessario richiamare brevemente la disciplina istitutiva dell’imposta e i principali snodi giurisprudenziali che ne hanno accompagnato l’evoluzione e, infine, la disapplicazione per incompatibilità con il diritto unionale.

2. L’IRBA trae origine dall’art. 6, comma 1, lett. c), L. 16 maggio 1990, n. 158, che delegava il Governo all’emanazione di uno o più decreti legislativi finalizzati a garantire alle Regioni a statuto ordinario una maggiore autonomia impositiva, in ossequio al disposto dell’art. 119, comma 2, Cost. In attuazione di tale delega, l’art. 17 D.Lgs. 21 dicembre 1990, n. 398, ha concesso alle Regioni la facoltà di istituire, mediante legge, un’imposta regionale sulla benzina per autotrazione, applicabile alle cessioni di carburante effettuate presso gli impianti di distribuzione situati nel territorio regionale, nella misura iniziale di 30 lire/litro. La disciplina attuativa del tributo, incluse le modalità di accertamento, i termini di versamento e le sanzioni, era demandata alla competenza delle Regioni.

Un successivo intervento legislativo, rappresentato dall’art. 3, comma 13, L. 28 dicembre 1995, n. 549, ha introdotto una rilevante modifica nella disciplina della riscossione dell’imposta, prevedendo che il versamento fosse effettuato direttamente alla Regione dal gestore dell’impianto, ovvero, su sua delega, dalla società petrolifera fornitrice, in ragione dei quantitativi erogati risultanti dall’apposito registro di carico e scarico. Altro cambiamento non trascurabile riguarda le funzioni di controllo, originariamente attribuite alle Regioni, e successivamente demandate in via prevalente all’Agenzia delle Dogane.

La Regione ha esercitato la facoltà impositiva mediante la legge regionale 27 dicembre 1993, n. 47, che ha istituito l’IRBA con decorrenza dal 1° gennaio 1994, destinando il gettito dell’imposta al finanziamento di interventi a seguito di calamità naturali (art. 3). L’art. 4 della medesima legge prevedeva che l’imposta fosse versata dal gestore dell’impianto direttamente alla Regione in relazione ai quantitativi erogati, in linea con il modello nazionale.

Tale assetto normativo, seppur coerente con la cornice di autonomia impositiva regionale delineata dalla Costituzione e dalle relative leggi attuative, ha tuttavia finito per sollevare rilevanti dubbi circa la sua compatibilità con il diritto dell’Unione Europea. In particolare, a seguito di un approfondito monitoraggio, la Commissione europea ha formalmente avviato la procedura d’infrazione n. 2017/2114 ai sensi dell’art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), contestando all’Italia la non conformità dell’IRBA con la Direttiva 2008/118/CE. Quest’ultima disciplina un regime armonizzato per le accise e all’art. 1. par. 2 dispone che: «Gli Stati membri possono applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette aventi finalità specifiche, purché tali imposte siano conformi alle norme fiscali comunitarie applicabili per le accise o per l’imposta sul valore aggiunto in materia di determinazione della base imponibile, calcolo, esigibilità e controllo dell’imposta; sono escluse da tali norme le disposizioni relative alle esenzioni». Tali condizioni, finalità specifica e conformità alle norme fiscali applicabili alle accise o all’IVA, hanno carattere cumulativo.

Per quanto attiene alla prima, deve essere notato che la Direttiva non fornisce una definizione di “finalità specifiche”. Sul punto, la consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia ha ritenuto che essere non possano essere puramente di bilancio (cfr. CGUE, 7 febbraio 2022, causa C-460/21, punti 19 ss.; CGUE, 9 novembre 2021, causa C 255/20, punti 27 ss.; CGUE, 25 luglio 2018, causa C-103/17, punti 34 ss.).

Nel caso dell’IRBA, è stata rilevata l’assenza di una finalità extrafiscale specifica posto che il gettito «persegue solo una finalità generica di supporto al bilancio degli enti territoriali» (CGUE, 9 novembre 2021, causa C-255/20). Infine, la Commissione ha riscontrato una violazione del principio di neutralità fiscale, in quanto l’applicazione differenziata dell’IRBA a livello regionale alterava il corretto funzionamento del mercato interno. È stata inoltre evidenziata la natura strutturalmente indiretta dell’imposta e la sua incidenza sul consumo, in assenza di una chiara giustificazione extrafiscale. Le Autorità italiane avevano sostenuto che l’IRBA fosse ispirata anche da finalità ambientali, in quanto volta a disincentivare l’uso della benzina attraverso un prelievo aggiuntivo, e che tale effetto potesse configurare una specifica finalità coerente con la Direttiva. Tuttavia, secondo la Commissione, tali finalità risultavano solo dichiarate e non effettivamente integrate nella struttura del tributo. L’IRBA colpiva infatti esclusivamente la benzina — potenzialmente incentivando l’acquisto di carburanti alternativi anche più inquinanti — e applicava un’aliquota estremamente modesta, pari a 2 centesimi al litro, a fronte dei 72 centesimi dell’accisa, ritenuta inidonea a costituire un deterrente effettivo. Secondo l’interpretazione consolidata della Commissione, un’imposta indiretta può considerarsi conforme alla Direttiva 2008/118/CE solo se strutturata in modo tale da influenzare concretamente il comportamento dei contribuenti, ad esempio attraverso una tassazione selettiva e incisiva dei prodotti da scoraggiare. Anche sotto questo profilo, l’IRBA risultava carente (approfonditamente in Giolo A., Non debenza dell’IRBA anche per gli anni anteriori al 2021, in GT – Riv. giur. trib., 2023, 12, 966-976).

Nel tentativo di risolvere la procedura di infrazione e limitare gli effetti finanziari derivanti dal contenzioso, il legislatore statale ha abrogato la disciplina istitutiva del tributo con l’art. 1, comma 628, L. 30 dicembre 2020, n. 178 (Legge di Bilancio 2021), facendo salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte. Anche la Regione Piemonte, che a sua volta ha soppresso l’IRBA con legge regionale 23 dicembre 2020, n. 31, con decorrenza dal 1° gennaio 2021, all’art. 4 di tale legge ha stabilito che «sono fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie relative all’imposta regionale sulla benzina per autotrazione già insorte». Sul punto, la Corte di Cassazione, pur riconoscendo che la controversia riguardava una pretesa impositiva derivante da obbligazioni tributarie sorte prima dell’abrogazione del tributo, ha escluso che tale clausola di salvezza, che mirava a mantenere validi gli effetti di tali obbligazioni, potesse sopravvivere alla soppressione del tributo stesso (Cass. civ., sez. V, 31 luglio 2023, n. 23201). In particolare, il Giudice di legittimità ha ribadito che, alla luce dell’accertata incompatibilità dell’imposta con il diritto dell’Unione Europea, «il giudice nazionale deve disapplicare la norma interna che vorrebbe mantenere al tributo soppresso una residuale efficacia impositiva per il passato, cioè in rapporto alle obbligazioni insorte prima della soppressione stessa», in virtù dell’efficacia retroattiva che deve riconoscersi alla natura dichiarativa delle sentenze della CGUE. Proprio l’accertata non debenza dell’IRBA per gli anni precedenti al 2021 ha dato origine a un ampio contenzioso in materia di rimborso del tributo indebitamente versato, nel quale si inserisce la pronuncia della Corte di Cassazione oggetto della presente analisi.

3. Un aspetto centrale tra i motivi di ricorso della Regione richiamati dalla pronuncia in esame concerne la ripartizione dell’onere della prova nel giudizio di rimborso (tema trattato in più occasioni dalla dottrina, ad esempio, Selicato G., Questioni giuridiche irrisolte in tema di rimborso dell’addizionale sull’accisa sull’energia elettrica riscossa dagli enti territoriali, in Riv. tel. dir. trib, 2024, 1, 532 ss.; Porporino F., Disciplina legale del rimborso dei tributi sui consumi e rilevanza della traslazione: la sentenza costituzionale n. 114 del 13 aprile 2000, in Riv. dir. trib., 2001, 7/8, II, 575-588; Bodrito A., Liti di rimborso IRAP: onere della prova, contestazione e corretta motivazione della sentenza, in Corr. trib., 2014, 46, 3547-3550), con specifico riferimento alla presunta traslazione dell’imposta sul consumatore finale e all’eventuale arricchimento indebito del contribuente che si verificherebbe in caso di accoglimento della domanda di rimborso. Tale questione riveste una rilevanza sistemica, poiché le ipotesi di restituzione di tributi riscossi in violazione del diritto dell’Unione Europea implicano un delicato bilanciamento tra la tutela dell’affidamento del contribuente e le garanzie contro l’indebito arricchimento.

L’art. 29, comma 2, L. 24 dicembre 1990, n. 428, come modificato nel 2007, stabilisce che «i diritti erariali riscossi in applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con norme comunitarie sono rimborsati, salvo che l’onere relativo non sia stato trasferito su altri soggetti, circostanza che non può essere assunta dagli uffici tributari tramite presunzioni». Tale disposizione si inserisce nel solco della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che, sin dalla sentenza San Giorgio (CGUE, 9 novembre 1983, causa C-199/82), ha chiarito che il diritto al rimborso è escluso solo in caso di arricchimento senza causa del soggetto istante. Inoltre, tale diritto non può essere subordinato a condizioni probatorie che ne rendano eccessivamente difficile, se non impossibile, l’esercizio.

Le successive sentenze – da Comateb a Bianco e Girard, fino ai più recenti casi Dilexport, Weber’s Wine e Vapo Atlantic – hanno riaffermato che la traslazione dell’onere economico rappresenta una questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice nazionale e dimostrabile anche attraverso elementi indiretti. In particolare, la Corte ha ribadito che la prova dell’arricchimento indebito deve essere fondata su una valutazione complessiva delle condizioni economiche del contribuente, comprendente non solo il prezzo praticato, ma anche i margini di utile, i volumi di vendita e l’eventuale impatto dell’imposta sulla competitività dell’impresa.

Con la sentenza Bianco e Girard (CGUE, 25 febbraio 1988, causa C-331/85), la Corte ha chiarito che la traslazione dell’onere fiscale è un accertamento di fatto, basato su una pluralità di elementi, la cui valutazione è di competenza del giudice nazionale. In Comateb (CGUE, 14 gennaio 1997, causa C-192/95) è stato introdotto un criterio sostanziale per identificare l’indebito arricchimento, anche in presenza di traslazione: l’eventuale diminuzione del volume delle vendite a causa dell’aumento dei prezzi determinato dall’imposta. È stato affermato che il contribuente può aver subito un danno economico anche se l’onere fiscale è stato traslato, qualora l’imposta abbia inciso sulla competitività e sul fatturato.

Tale principio è stato ulteriormente consolidato nelle decisioni Dilexport (CGUE, 9 febbraio 1999, causa C-343/96), Michailidis (CGUE, 27 gennaio 2000, causa C-441/98), Weber’s Wine (CGUE, 15 aprile 2004, causa C-147/01) e, infine, Vapo Atlantic (CGUE, 8 febbraio 2024, causa C-460/21). In queste pronunce, la Corte ha riaffermato il concetto che, anche nel caso in cui l’onere tributario sia stato traslato, il diritto al rimborso non è escluso qualora si possa dimostrare una perdita economica, come nel caso di una riduzione dei margini di utile o dei volumi di vendita. In Weber’s Wine, si è sottolineato che tale valutazione richiede «un’analisi economica che tenga conto di tutte le circostanze pertinenti», mentre in Vapo Atlantic si è ribadito che la sola traslazione non implica necessariamente un arricchimento indebito, poiché «l’incorporazione dell’importo del tributo nei prezzi praticati può aver arrecato un danno per diminuzione del volume delle vendite» (punto 47).

Nel caso specifico dell’IRBA, la struttura del tributo facilita la traslazione sul consumatore finale. Tuttavia, la difficoltà di ricostruire il percorso documentale relativo all’onere tributario, soprattutto in assenza di un formale meccanismo di rivalsa, complica l’accertamento dei fatti.

In questa prospettiva, la Corte di Cassazione ha ribadito che spetta all’Amministrazione fiscale l’onere di provare la traslazione dell’imposta, e che tale prova non può basarsi esclusivamente sul prezzo di vendita.

La questione della traslazione del tributo si inserisce, infatti, in un ambito probatorio particolarmente complesso, in quanto presenta difficoltà di accertamento sia per il contribuente che agisce in ripetizione, sia per l’Amministrazione che eccepisce la traslazione dell’onere. Tale complessità è stata riconosciuta anche in sede eurounitaria. In particolare, nelle Conclusioni dell’Avvocato Generale Mancinelli nella causa San Giorgio, si evidenzia come la struttura del fenomeno traslativo impedisca, nella maggior parte dei casi, a entrambe le parti di dimostrare con certezza se la perdita patrimoniale sia stata o meno compensata dall’incorporazione dell’imposta nel prezzo della merce, dato che il prezzo è il risultato di dinamiche di mercato complesse e influenzate da molteplici fattori, spesso difficili da conoscere.

Le conclusioni dell’Avvocato Generale Tesauro nella causa Comateb (C-192/95, punto 18) vanno nella stessa direzione, affermando che la prova dell’effettiva traslazione (o della sua assenza) costituisce una probatio diabolica, tanto per l’operatore economico quanto per l’Amministrazione finanziaria, poiché si tratta di una valutazione in gran parte ipotetica, influenzata da variabili difficili da prevedere, come la strategia commerciale dell’impresa.

Di fronte alla riconosciuta difficoltà probatoria, pare opportuno interrogarsi sull’individuazione delle prove rilevanti ai fini dell’accertamento dell’effettiva traslazione del tributo, o della sua assenza. Il bilancio del contribuente può costituire un primo, significativo elemento indiziario. La giurisprudenza di legittimità ha infatti chiarito che la modalità di appostazione dell’imposta nel bilancio d’esercizio può offrire utili indicazioni circa il trattamento economico-fiscale del tributo. In particolare, nella decisione Cass. civ., sez. VI-5, ord., 26 ottobre 2022, n. 31679, si è affermato che «mentre una appostazione nella voce “oneri diversi di gestione” assume una valenza indubbiamente neutra, l’inserimento nella voce “B)6” del conto economico (o in altra ad essa sostanzialmente riconducibile) è connotato da intrinseca specificità», sottolineando che, in tal caso, «si è tenuto conto dell’imposta nella determinazione del prezzo finale», secondo una logica di riversamento dell’onere sul consumatore.

Tuttavia, il bilancio, da solo, non è sempre risolutivo. In presenza di voci generiche o non analiticamente suddivise, si rende necessario estendere l’accertamento anche alle scritture contabili e ai conti di contabilità generale, i quali possono chiarire se l’imposta sia stata trattata come un costo ordinario di produzione, offrendo così un’indicazione indiretta della volontà del contribuente di riversare l’onere nel prezzo finale del bene.

Ulteriori elementi di prova possono poi emergere da un’analisi economica dell’impatto dell’imposta su prezzi, volumi di vendita e margini di profitto. Come ricordato nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Slynn nella causa Bianco e Girard, il giudice nazionale può verificare l’esistenza di un arricchimento senza causa «se l’onere è stato trasferito e se non vi è stata perdita di profitti», evidenziando che la contrazione dei margini può costituire un indizio del mancato trasferimento del tributo.

Nella medesima direzione si muovono anche le conclusioni dell’Avvocato Generale Jacobs nella causa Weber’s Wine (C-147/01), in cui si osserva che il contribuente potrebbe aver scelto di assorbire l’onere fiscale riducendo i propri profitti, oppure aumentando i prezzi e subendo una diminuzione dei volumi di vendita, sicché «in tutti questi casi […] egli avrà sofferto una perdita economica in conseguenza dell’imposizione di un’imposta illegittima» e, pertanto, non potrà dirsi integralmente arricchito dal rimborso.

Alla luce di quanto sopra esposto, si impone una riflessione sulla corretta ripartizione dell’onere della prova, alla luce del principio di vicinanza della prova.

Se infatti elementi quali l’appostazione contabile dell’imposta, le scritture generali, e l’analisi dei margini, dei prezzi e dei volumi rappresentano indici sintomatici rilevanti per accertare l’effettiva incidenza economica dell’imposta, occorre allora considerare che questi elementi rientrano pienamente nella disponibilità probatoria del contribuente, e non già dell’Amministrazione. Quest’ultima, infatti, non ha accesso alla contabilità aziendale, né può autonomamente ricostruire i comportamenti economici e le scelte di pricing dell’impresa.

Ciò evidenzia un rischio di asimmetria processuale: porre in capo alla Regione (accipiens) l’onere di provare la traslazione, senza accesso ai dati rilevanti, equivale a configurare una sorta di sentenza San Giorgio all’inverso, in cui il diritto del contribuente al rimborso verrebbe riconosciuto in via presuntiva, senza che l’Amministrazione possa efficacemente difendersi, per materiale impossibilità di offrire prova contraria. Una tale impostazione, oltre a violare il principio del contraddittorio, si porrebbe in contrasto con l’evoluzione giurisprudenziale che, proprio a partire dalla sentenza San Giorgio, ha sempre mirato a evitare l’imposizione di oneri probatori eccessivi o impossibili.

In quest’ottica, come già riconosciuto dalla Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. lavoro, sent. 25 luglio 2008, n. 20484), il principio di vicinanza della prova si impone quale criterio correttivo fondato sull’art. 24 Cost., volto a evitare che l’interpretazione delle norme processuali renda troppo difficile o impossibile l’esercizio del diritto in giudizio. Secondo le Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., sent. 30 ottobre 2001, n. 13533), la vicinanza si valuta in termini di “sfera di azione” e disponibilità degli elementi probatori: nel caso di specie, è chiaro che tutta la documentazione e gli elementi necessari alla dimostrazione della mancata traslazione – come le scritture contabili, le appostazioni di bilancio, i dati economici su profitti e vendite – appartengono unicamente alla sfera del contribuente.

Ne consegue che una corretta applicazione del criterio di vicinanza impone di ricollocare l’onere probatorio in capo a chi è in grado di assolverlo: cioè al contribuente che chiede il rimborso. In assenza di prova circa l’impoverimento effettivo o l’assenza di traslazione, non può configurarsi un indebito arricchimento dell’Amministrazione, ma semmai un difetto probatorio del soggetto che agisce in giudizio.

Questa impostazione garantisce un equilibrio tra le parti, evitando una disparità irragionevole in danno dell’Amministrazione e mantenendo la coerenza del sistema con i principi costituzionali in materia di giusto processo.

Applicando questi principi al caso dell’IRBA, si deve riconoscere che la difficoltà di ricostruire documentalmente l’incidenza dell’onere tributario – specie in assenza di un’esplicita evidenza contabile – non può tradursi in una presunzione automatica di non traslazione.

Dovrebbe dunque spettare al contribuente fornire la prova, anche solo indiziaria, della mancata traslazione o, in subordine, dell’impoverimento effettivamente subito.

L’effettività del diritto al rimborso, infatti, non giustifica una deroga indiscriminata all’onere della prova, ma impone piuttosto un’applicazione del principio di proporzionalità che tenga conto dell’equilibrio tra le parti in giudizio. Solo così si può evitare, da un lato, un’irragionevole barriera all’accesso alla giustizia e, dall’altro, un uso strumentale dell’azione di ripetizione che esponga l’Amministrazione al rischio di rimborsi indebiti.

Va tuttavia rilevato che, nella pronuncia in esame, la Corte di Cassazione non si è espressa su queste nodali questioni attinenti il riparto dell’onere della prova. Si dovrà dunque sperare in eventuali nuove pronunce per verificare se sarà possibile ottenere dalla Supremo Corte più precise indicazioni quanto alla ripartizione dell’onere della prova.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 1/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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