IL PUNTO SU… Trust e Convenzioni contro le doppie imposizioni (in materia sia di redditi e patrimonio sia di successioni e donazioni)

Di Karim Elsisi -

Sommario: 1. Premessa. – 2. Cenni in merito alla soggettività passiva del trust transnazionale a livello convenzionale. – 2.1 Lo “storico” problema dell’inquadramento del trust quale “persona” ai fini convenzionali. – 2.2 Determinazione della residenza del trust secondo la Convenzione e concetto di “liablity to tax” nello Stato di residenza. – 3. Applicazione delle Convenzioni bilaterali alle varie categorie di reddito prodotte trust e l’annosa tematica del beneficiario effettivo. – 4. Inquadramento ai fini convenzionali delle somme attribuite ai beneficiari. – 5. Il trust e l’applicabilità delle Convenzioni contro le doppie imposizioni in materia di donazioni e successioni. – 6. Considerazioni conclusive.

1. Il trust si sta sempre più diffondendo quale strumento altamente efficace per la gestione e la pianificazione patrimoniale, nonché per la corretta ed ordinata “programmazione” dei fenomeni successori. Attraverso questo istituto, come noto, un soggetto (“Settlor”) dispone (vincolandoli) dei propri beni mediante il trasferimento di questi ad un amministratore fiduciario (“Trustee”). Per effetto di tale trasferimento, il Settlor perde la titolarità giuridica degli asset apportati ed il Trustee assume l’onere della loro gestione in favore di uno o più beneficiari, i quali possono essere individuati anche genericamente o addirittura non essere ancora esistenti al momento dell’istituzione del trust (cfr., per tutti, Lupoi M., Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, 2024, Padova, 1 ss.).

Questa configurazione giuridica si caratterizza frequentemente per la sua natura transnazionale; non è raro, infatti, che la residenza del Trustee, dei beneficiari o il luogo in cui si trovano le fonti di reddito derivanti dalla gestione degli asset apportati si collochino in Stati diversi.

In tale scenario emerge chiaramente come l’efficacia e i benefici derivanti dall’utilizzo dell’istituto possano dipendere in misura più o meno significativa anche dal regime fiscale cui lo stesso è in concreto soggetto.

Un aspetto cruciale nell’economia legata alla scelta circa l’implementazione di un trust è quello relativo alla possibilità di applicare allo stesso le previsioni contenute nelle convenzioni bilaterali stipulate per ridurre o eliminare i fenomeni di doppia imposizione in materia di imposte sui redditi e patrimonio (“Convenzioni sul reddito e patrimonio”), garantendo così l’operatività – anche in questi casi – dei meccanismi previsti in via pattizia tra gli Stati per evitare casi di tassazione sovrapposta sul medesimo elemento di reddito.

Altra tematica di rilievo è poi quella relativa alla possibilità – di non secondaria importanza – di applicare al trust le convenzioni stipulate per evitare la doppia imposizione in materia di donazioni e successioni (“Convenzioni sulle successioni e donazioni”). Tale ultima categoria di convenzioni bilaterali – seppur dalla diffusione certamente più limitata rispetto alle Convenzioni sul reddito e patrimonio – rappresenta uno strumento di assoluto rilievo per limitare il carico impositivo in alcuni dei momenti fondamentali della “vita” del trust.

2. La prima problematica da affrontare è quella legata alla verifica della possibilità per il trust di qualificarsi quale “entity” idonea ad essere ricompresa nell’ambito applicativo delle Convenzioni sul reddito e patrimonio redatte secondo il Modello OCSE di convenzione, aggiornato da ultimo nel 2017 (“Modello”).

Tale possibilità è definita – in termini generali – sulla base di due requisiti fondamentali, entrambi identificati all’art. 1 del Modello.

In prima istanza, un soggetto che intenda beneficiare della disciplina prevista dalle Convenzioni sul reddito e patrimonio si deve qualificare quale “persona” (“person”). Lo stesso art. 1 del Modello chiarisce poi che le previsioni convenzionali si applicano alle “persone” che sono altresì considerate “residenti” (“resident”). Di conseguenza, un trust può fruire delle agevolazioni previste da una data Convenzione sul reddito e patrimonio (o, secondo le consuete formulazioni anglosassoni, “may claim treaty benefits” ovvero “is entitled to treaty benefits”) a condizione che soddisfi il requisito di essere una persona residente in uno degli Stati contraenti un dato Trattato.

Ciò detto, occorre però sottolineare che la sfera di significato delle predette definizioni non si esaurisce all’interno dell’art. 1 del Modello ma anzi presuppone un riferimento anche ai successivi artt. 3 e 4.

Quest’ultima disposizione introduce poi un ulteriore – e altrettanto rilevante – requisito che le persons (quindi anche il trust) devono necessariamente integrare affinché possano beneficiare del trattamento di favore previsto dai trattati in discorso: il riferimento è al requisito della c.d. liability to tax, ossia l’essere assoggettato ad imposizione in uno degli Stati contraenti.

2.1 Come detto, il primo “passo” da compiere nell’analisi circa la possibilità per il trust di essere considerato idoneo a beneficiare delle previsioni convenzionali è necessariamente quello di verificare se lo stesso possa qualificarsi come “persona” secondo le previsioni pattizie.

Il primo comma dell’art. 3 del Modello stabilisce che si considerano persons: (i) le persone fisiche; (ii) le società; e le (iii) altre associazioni di persone (other body of persons).

In linea generale, dunque, salvo alcuni limitati casi di deviazione dal Modello (quali, per l’Italia, le Convenzioni sul reddito e patrimonio sottoscritte con Arabia Saudita, Ghana, Canada e Stati Uniti; con quest’ultimo Trattato che è peraltro basato sul c.d. Modello US), il trust non compare esplicitamente all’interno dell’elencazione di cui al comma primo del predetto articolo.

Ciò comporta la necessità di verificare se sia possibile inquadrare l’istituto in discorso all’interno di una delle tre categorie generali previste all’art. 3 del Modello.

In merito si evidenzia, innanzitutto, per il Commentario OCSE all’art. 3 del Modello (par. 1.2) la lista contenuta nella stessa disposizione non sè da ritenersi esaustiva ma che anzi il termine “person” va inteso “in a very wide sense”.

Inoltre, alcuni riferimenti espressi ai trust sono presenti nella più recente versione dello stesso Commentario OCSE al Modello. In primis, una menzione del trust è contenuta nel Commentario OCSE all’art. 10 del Modello (par. 67.1), laddove viene fatto riferimento ai Real Estate Investment Trusts (REITs), ossia entità d’investimento costituite nella forma proprio di un trust. Ancora, lo stesso Commentario OCSE all’art. 3 del Modello (par. 25) chiarisce che ai Collective Investment Veichles (CIVs) costituiti nella forma dei trust non potrà negarsi soggettività (quindi, la qualifica di persons) ai fini convenzionali.

Da ultimo, non può non sottolinearsi come il Commentario OCSE all’art. 3(1)(i) del Modello (par. 10.9) affermi esplicitamente che la definizione di “recognised pension fund” contempla anche quei fondi pensione che sono costituiti sotto forma di trust, specificando inoltre che in questi casi si applicherà la definizione di cui alla disposizione in commento (e, quindi, la possibilità di beneficiare delle previsioni convenzionali) qualora l’ente sia riconosciuto quale soggetto autonomo.

Sulla base di quanto sin qui ricostruito, appare sostenibile che i trust (quantomeno quelli che perseguono le finalità di entità d’investimento o di fondi pensione) possano essere inquadrati all’interno della definizione di “persons” ai fini convenzionali. Tuttavia, tale conclusione dovrebbe – fermo quanto si dirà in seguito – potersi estendere anche alla generalità dei trust (cfr., in tal senso, Corasaniti G., La residenza fiscale dei trust, in AA. VV., I professionisti e il Trust, Atti del IV Congresso Nazionale dell’Associazione “Il Trust in Italia” – Milano 2008, Quaderni di Trusts e attività fiduciarie, 2008, Milano, 73), restando comunque da chiarire all’interno di quale delle categorie elencate all’art. 3 del Modello possano trovare collocazione.

In tal senso, taluna dottrina ha ritenuto che la sussumibilità del trust in una o nell’altra categoria dipenderebbe essenzialmente dalla natura soggettiva dei Trustee, che – in quanto persone fisiche o giuridiche – permetterebbero di volta in volta la determinazione della categoria nella quale far rientrare il trust.

Tale soluzione è stata tuttavia oggetto di critiche poiché presterebbe il fianco a pratiche di natura elusiva legate alla scelta del Trustee in base ad una sua collocazione in Stati con Convenzioni sul Reddito e Patrimonio maggiormente “favorevoli” (c.d. fenomeno del treaty shopping) (cfr., tra gli altri, Palumbo G., Profili tributari dei common law trusts, in Riv. dir. trib., 1995, 1, 195 ss.). La citata tesi appare altresì criticabile in ragione della difficile conciliabilità con la natura stessa dell’istituto. È fatto noto che il trust può caratterizzarsi per una struttura organizzativa estremamente “flessibile” e che si adatta alle necessità sottese alla implementazione dell’istituto nel caso specifico. In tal senso, seppur è vero che molti trust presentano una struttura minima – che nei fatti coincide con quella dei Trustee – altri trust sono invece dotati di assetti organizzativi assai più articolati. In questi ultimi casi ci si trova di fronte a realtà ben più complesse e per le quali risulterebbe pertanto “riduttivo” condizionarne la qualifica soggettiva a quella dei Trustee (come lo sarebbe se si condizionasse la qualifica soggettiva di un ente a quella degli amministratori).

Volendo invece tentare di inquadrare il trust in maniera autonoma rispetto alla figura dei Trustee, posta la evidente impossibilità di sussumere tale strumento all’interno della categoria delle persone fisiche, non resta che chiedersi se lo stesso possa trovare collocazione all’interno della categoria delle “società” ovvero degli “other body of persons”.

Una parte della dottrina sostiene proprio che il trust dovrebbe generalmente inquadrarsi all’interno di quest’ultima categoria di “persons” (cfr., su tutti, Baker P., Double Taxation Conventions and International Tax Law: a Manual on the OECD Model Tax Convention on Income and on Capital of 1992, 1994, Londra, 85 ss.).

Tuttavia, tale tesi non convince, ancora una volta perché non permetterebbe di garantire un corretto inquadramento valevole per tutte le tipologie di trust. Come sostenuto da altri, infatti, il generale inquadramento del trust tra gli “other body of persons non rispecchia la realtà di molti trust che in base alle normative interne del proprio Stato risultano autonomamente assoggettati ad imposta (cfr., su tutti, Maisto G., L’applicazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni ai trusts, in Fransoni G. – De Renzis Sonnino N., a cura di, Teoria e pratica della fiscalità dei Trust, 2008, Milano, 89 ss.; Contrino A., Trust, vincoli di destinazione e sistema tributario, 2021, Pisa, 317 ss.; Bizioli G., L’applicazione al trust delle Convenzioni contro le doppie imposizioni e del MLI, in Guerrieri G. et al., a cura di, Fiducia e destinazione patrimoniale, 2022, Bologna, 217 ss.).

In tal senso, appare opportuno segnalare che, secondo quanto disposto dall’art. 3(1)(b) del Modello, il termine “società” comprende qualsiasi entità dotata di personalità giuridica o considerata tale ai fini fiscali.

In base proprio alla definizione di “company” fornita dal Modello, nell’ambito delle Convenzioni sul reddito e patrimonio assurgono al rango di “società” (ai fini di cui alla disposizione in commento) non soltanto i soggetti che possiedono personalità giuridica in senso stretto, ma anche quelli che, in base alla normativa interna di uno degli Stati contraenti, sono trattati ai fini tributari in modo analogo ai soggetti con personalità giuridica. Conferma ciò anche il Commentario OCSE all’art. 3 del Modello (par. 1.3), ove viene chiarito che l’espressione “company” comprende qualsiasi entità soggetta a imposizione che sia trattata come una persona giuridica ai fini della legislazione fiscale dello Stato contraente di cui è residente.

In aggiunta, è stato altresì chiarito che per essere considerata entità assimilata a una persona giuridica ai fini fiscali, l’entità oggetto di analisi deve essere soggetta all’imposta sul reddito delle società e tassata separatamente dai suoi azionisti, partecipanti o soci (Rust A., Article 3, in Rust A. – Reimer E., a cura di, Klaus Vogel on Double Taxation Conventions, 2015, Alphen aan den Rijn, 186).

Emblematico in tal senso è proprio il caso dei c.d. trust “opachi”.

Si tratta, secondo la normativa fiscale italiana, di quei trust non interposti e in cui i beneficiari non dispongono del diritto a pretendere dal Trustee l’attribuzione di reddito o patrimonio del trust. Come noto, tali categorie di trust sono soggetti passivi in Italia e scontano l’imposta sul reddito delle società (IRES) in virtù della previsione contenuta all’art. 73 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“TUIR”). Ora, per le ragioni anzidette, si dovrebbe ritenere che tale tipologia di trust possa essere considerata “person” ai fini convenzionali ed essere inquadrata all’interno della categoria delle “company”. Diversamente, nei casi di quei trust che non sono soggetti autonomi d’imposta nel proprio Stato al pari di una società (quali, ad esempio, i c.d. trust “trasparenti”), pare corretto l’inquadramento precedentemente delineato all’interno della categoria degli “other body of persons”.

2.2. La classificazione dei trust all’interno dell’una o dell’altra categoria di “persons” non è priva di implicazioni (quantomeno sul piano teorico) anche in relazione al secondo elemento necessario affinché lo stesso possa essere considerato “entitled” per l’applicazione dei benefici convenzionali.

Innanzitutto, l’art. 4(1) del Modello chiarisce che ai fini convenzionali si considera residente di uno Stato contraente quella “person” che, ai sensi della normativa interna di tale Stato, è ivi assoggettata a imposizione (liable to tax) sulla base del domicilio, della residenza, della sede di direzione effettiva o di ogni altro criterio di natura analoga.

Volendo affrontare per primo il c.d. criterio della liability to tax, si osserva preliminarmente che – al fine di integrare tale requisito – il trust deve risultare illimitatamente assoggettato ad imposizione in uno dei due Stati contraenti.

In tal senso, non sarà sufficiente l’assoggettamento a tassazione sulla base di un regime che consenta l’imposizione solo per determinati componenti di reddito prodotti nel territorio dello Stato (c.d. criterio di tassazione su base territoriale) ma sarà necessario che il trust risulti assoggettato a tassazione secondo il principio c.d. worldwide, ossia in relazione ai redditi ovunque prodotti nel mondo (c.d. full liability to tax), laddove il sistema impositivo dello Stato contraente sia improntato su tale ultimo principio. Con riferimento alle persone assoggettate a tassazione per i soli redditi prodotti nel territorio dello Stato in ragione di un sistema impositivo su base territoriale (che sia applicabile indistintamente a tutti i soggetti passivi), esse dovrebbero ritenersi in grado di assolvere il requisito della c.d. liability to tax previsto all’art. 4 del Modello (cfr. Maisto G., Note sull’applicazione dell’articolo 4, paragrafo 1) del Modello di Convenzione OCSE negli ordinamenti che adottano un sistema di imposizione su base territoriale, in Riv. dir. trib., 2024, 2, 17 ss.).

Tanto premesso, pare possibile affermare che il regime di imposizione italiano previsto all’art. 73 TUIR per i c.d. trust “opachi” permetta l’integrazione di tale requisito. Ad opposta conclusione, invece, si dovrebbe giungere in relazione ai c.d. trust “trasparenti”, i quali non potranno dirsi in Italia “fully liable to tax” (cfr. Della Valle E., Luci ed ombre della circolare sui trust, in Riv. dir. trib., 2007, 2, 734 ss.; Contrino A., Double tax treaties and Trust: an italian perspective in light of the new international scenario, in Riv. dir. trib., 2021, 5, 189 ss.). In quest’ultimo caso, però, nonostante l’inapplicabilità della Convenzione sul reddito e patrimonio al trust, si potrebbe comunque sostenere l’opportunità di verificare i requisiti per applicare il trattato con riferimento ai beneficiari del trust, come emerge da quanto affermato nel report OCSE denominato The Application of the OECD Model Tax Convention to Partnerships del 1999 (cfr. Nicolosi F., Beneficiari non residenti di trust italiani: manca una disciplina, in il fisco, 2023, 37, 3518 ss.).

Con riferimento poi alla verifica dello status di residente in uno dei due Stati contraenti, i criteri di collegamento previsti dal diritto interno non potranno che risultare differenti a seconda della tipologia di “person” sulla quale è condotta l’analisi (da qui la rilevanza del tentativo di inquadramento compiuto nel paragrafo precedente).

Qualora il trust sia qualificato come “company” sulla base di quello che si è poc’anzi detto, al fine di accertarne la residenza in uno Stato non potranno che essere utilizzati i criteri ivi definiti per le persone giuridiche (cfr. Contrino A., Trust, vincoli di destinazione, cit., 321).

Nella normativa italiana il riferimento è, ovviamente, ai criteri dettati all’art. 73 TUIR (recentemente riformato ad opera dell’art. 2 D.Lgs. 27 dicembre 2023, n. 209). Stante l’inapplicabilità al trust del criterio della “sede legale” (perché il trust, ancorché possa essere soggetto autonomo d’imposta, non rappresenta comunque un soggetto giuridico a sé stante), l’indagine andrà necessariamente svolta con riferimento agli altri due criteri (che spesso risultano peraltro sovrapposti in relazione all’istituto in commento), ossia il criterio della “sede di direzione effettiva” e quello del luogo della “gestione ordinaria in via principale”.

Per il primo dei due criteri assume rilievo il luogo in cui il Trustee esercita abitualmente e continuativamente la propria attività di assunzione delle decisioni “strategiche” relative al trust, adottando le scelte gestorie di maggior rilievo. In relazione al secondo requisito, invece, assume rilevanza il luogo in cui sono svolti i compiti di amministrazione ordinaria del trust, che può essere compiuta dalla eventuale struttura amministrativa che si occupa della gestione day-by-day, ovvero dagli stessi Trustee (da qui il rischio di sovrapposizione cui si è fatto prima cenno).

Riguardo poi ai trust che si qualificano come “other body of persons” (e che, dunque, non sono soggetti ad imposta secondo le medesime modalità delle “company”), la verifica circa la loro residenza ai fini in commento – sempre operata sulla base della normativa interna degli Stati contraenti – potrebbe esser compiuta avendo riguardo sempre alla figura dei Trustee. In tale senso, la dottrina assolutamente maggioritaria ritiene che la verifica circa la residenza del trust debba in questi casi essere svolto avendo riguardo al luogo in cui i Trustee esercitano il loro “ufficio”, compiendo in relazione ad essi una valutazione di tipo collegiale (cfr. Garbarino C., La soggettività del trust nelle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni, in Dir. prat. trib., 2000, 3, 394 ss.).

Discorso parzialmente diverso da quello sin qui svolto meritano, invece, le previsioni contenute nelle Convenzioni sul reddito e patrimonio stipulate dagli Stati Uniti, le quali – come detto – non sono redatte secondo il Modello e individuano specifiche regole rispetto alle modalità di determinazione della residenza del trust ai fini convenzionali.

Da ultimo, merita di essere ricordato che anche nel caso dei trust ben potrebbero verificarsi fenomeni di c.d. doppia residenza, dovuti all’accertamento del suo status di residente con criteri diversi da parte dei due Stati contraenti una medesima Convenzione sul reddito e patrimonio: in questi casi risulta pacificamente applicabile – al fine di dirimere il predetto conflitto – la previsione di cui all’art. 4(3) del Modello (recante le c.d. tie-breaker rules) e si deve ritenere applicabile il criterio del c.d. place of effective management (o sede di direzione effettiva), in quanto valevole in relazione a tutte le “persons” diverse dalle persone fisiche.

3. Affrontata molto brevemente la tematica legata alla possibilità di riconoscere al trust i benefici convenzionali, non resta che concentrarsi sulle disposizioni del trattato relative alla distribuzione della potestà impositiva tra gli Stati.

Per economia di trattazione, nel prosieguo ci si concentrerà esclusivamente sulle fattispecie di maggiore rilevanza pratica per l’istituto in questione: in particolare, l’analisi verterà sull’applicabilità al trust delle disposizioni di cui agli artt. 10 (dividendi), 11 (interessi), 12 (canoni o royalties) e 13 (plusvalenze) del Modello.

Per i dividendi, gli interessi e i canoni è notoriamente necessario – al fine di ottenere la limitazione o l’esenzione della ritenuta alla fonte d’imposta gravante sul flusso reddituale nello Stato della fonte – che il soggetto percipiente il reddito sia anche il beneficiario effettivo (beneficial owner) dello stesso.

Nonostante la centralità assunta dal concetto di beneficiario effettivo, testimoniata dalla introduzione dello stesso nel Modello, il significato di tale concetto non ha mai trovato in quella sede una declinazione concreta. In ragione di ciò necessario affidamento deve esser fatto alle (poche) indicazioni contenute nel Commentario OCSE.

Come certamente noto, nella versione del Commentario OCSE pubblicata nel 1977, il concetto di beneficiario effettivo era individuato con un meccanismo “di esclusione”. Invero, veniva escluso che potessero essere qualificati come tali soggetti quali: (i) l’agente, il fiduciario e l’intermediario (poichè percettori meramente formali dei redditi, e non anche possessori dello stesso); (ii) le cd. conduit companies, ossia quei veicoli societari attraverso i quali veniva fatto “transitare” il reddito dalla sua originaria fonte sino al reale beneficiario finale. Tuttavia, a causa delle ristrettezze derivanti dall’eccessivo formalismo che accompagnava tali categorie, la tecnica utilizzata dal’OCSE ha ceduto il passo ad una nuova modalità di individuazione del concetto di beneficiario effettivo maggiormente ispirata a criteri di tipo sostanzialistico. Nelle più recenti versioni del Commentario OCSE (sin dal 2003 e, più compiutamente, dall’aggiornamento operato nel 2014) il beneficiario effettivo di un determinato flusso reddituale è in sostanza definito come colui il quale, oltre alla formale titolarità giuridica del reddito, ha un autonomo potere di disporre e godere dei redditi interessati, poiché non vincolato da obblighi legali o contrattuali di ritrasferimento dei flussi reddituali a terzi soggetti (cfr. Contrino A., Rimborso del credito d’imposta sui dividendi e trust nel Trattato Italia-Regno Unito: questioni in punto di soggettività convenzionale, beneficiario effettivo e subject to tax clause, in Riv. dir. Trib., 2020, 109 ss.).

Come osservato da una parte della dottrina (cfr. Sacchetto C., Brevi note sui trusts e le Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni sul reddito, in Trusts e attività fiduciarie, 2000, 1, 64 ss.), volendo trasporre “rigidamente” quanto appena ricostruito in termini generali ai trust, si giungerebbe ad affermare che un trust potrebbe essere considerato beneficiario effettivo dei redditi derivanti dai beni presenti nel trust fund solamente quando, sulla base delle previsioni contenute nell’atto istitutivo, sia possibile affermare che il Settlor, i Trustee e i beneficiari non dispongano di un effettivo e concreto potere decisionale in relazione al patrimonio apportato in trust. Secondo questa linea di ragionamento, qualora uno dei soggetti summenzionati disponesse di un potere di tale natura, soltanto a questi potrebbe essere attribuibile la qualifica di beneficiario effettivo dei redditi del trust.

Se si dovesse accogliere tale prospettiva, si renderebbero di fatto inapplicabili a priori al trust tutte le disposizioni convenzionali in commento. E ciò per la evidente ragione che il Trustee esercita, istituzionalmente, poteri e facoltà che comporterebbero sempre una sua identificazione quale beneficiario effettivo dei beni del trust e dei redditi da questi prodotti. In ragione di ciò, vi è dunque la necessità di trovare un “adattamento” della figura in questione alla particolare natura dell’istituto del trust.

Altra parte della dottrina, muovendo proprio dalla particolarità dell’istituto e dalla ratio sottesa alla figura del beneficiario effettivo, si è spinta sino ad affermare che la clausola in questione non sarebbe di fatto mai applicabile ai trust (cfr. Lupoi M., Trusts, 2001, Milano, 212 ss.). Tale posizione è stata accolta con alcune “riserve” (cfr., Contrino A., Trust, vincoli di destinazione, cit., 334). In particolare, si è sostenuto che l’affermazione di cui sopra vada intesa nel senso di ritenere che il trust risulta sempre essere il beneficiario effettivo del reddito prodotto dagli asset presenti nel trust fund a meno che non ci si trovi di fronte a situazioni “patologiche” (ad esempio, nel caso del c.d. bare trust) o ad ipotesi come quella del c.d. trust trasparente (che distribuisce il reddito prodotto ai beneficiari nel medesimo periodo d’imposta in cui lo consegue).

Secondo altra parte della dottrina, nel caso dei c.d. trust opachi questi dovrebbero sempre esser ritenuti beneficiari effettivi dei redditi ricevuti e non distribuiti durante l’anno (cfr. Bizioli G., op. cit., 226). Tale posizione ricalca il Commentario OCSE all’art. 12 del Modello (par. 4), ove si afferma (in relazione ai canoni) che «where the trustees of a discretionary trust do not distribute royalties earned during a given period, these trustees, acting in their capacity as such (or the trust, if recognised as a separate taxpayer) could constitute the beneficial owners of such income for the purposes of Article 12 even if they are not the beneficial owners under the relevant trust law».

In relazione al tema in esame, la Suprema Corte sembra aver adottato (ancorché in modo implicito) una posizione orientata a ritenere beneficiario effettivo dei redditi percepiti – previa verifica «della struttura del trust, dei vincoli posti in capo al trustee, della possibilità di identificazione del beneficiario, a sua volta palese oppure occulto» – il trust che si qualifichi come c.d. trust opaco (cfr., Cass. civ., sez. V, ord. 5 febbraio 2020, n. 2618). Ancorché un c.d. trust opaco si qualifichi quale beneficiario dei redditi conseguiti in relazione ai beni presenti nel trust fund, non si potrà comunque prescindere – come affermato dalla Corte di Cassazione nella pronuncia summenzionata – da un’analisi riguardo la concreta struttura del trust, che conduca altresì alla individuazione della ragione sottostante alla sua istituzione, al fine di escludere una mera strumentalità dell’istituto rispetto alle necessità di accedere ai benefici del trattato.

Una “guida” per stabilire se il trust possa essere considerato o meno beneficiario effettivo dei redditi conseguiti potrebbe giungere proprio da un recente filone giurisprudenziale elaborato della Suprema Corte in tema di “beneficial ownership”.

In tale contesto, la Cassazione ha più volte ribadito che è onere del contribuente provare la propria qualità di “beneficial owner” dei redditi percepiti e che, per far ciò, questi dovrà superare congiuntamente tre test, autonomi e disgiunti tra loro, «[…] che, in rapporto alla fattispecie concreta, prendono in considerazione dei parametri spia o indici segnaletici» (cfr. Cass. civ., sez. V., sent. 28 febbraio 2023, n. 6005; Cass. civ., sez V., sent. 17 ottobre 2024, n. 26923). Secondo tale giurisprudenza, per qualificarsi quale beneficiario effettivo di un dato elemento di reddito è necessario che il percipiente superi congiuntamente: (i) il “substantive business activity test”, con la finalità di riscontrare l’effettivo svolgimento di un’attività economica da parte del contribuente, escludendo così la sussistenza di una costruzione meramente artificiosa; (ii) il “dominion test”, al fine di dimostrare la sussistenza di una piena e libera capacità di disporre dei flussi reddituali percepiti; e (iii) il “business purpose test”, volto ad individuare le motivazioni che giustificano la “deviazione” del reddito verso il soggetto attenzionato (accertando, dunque, se sussistano valide ragioni economiche, diverse ed ulteriori rispetto al risparmio d’imposta). Pertanto, qualora il contribuente dimostri (attraverso prove documentali) di svolgere una effettiva attività economica, potendo disporre liberamente del reddito ricevuto, senza alcun obbligo di retrocessione dello stesso a terzi, questi potrà essere identificato quale beneficiario effettivo del flusso finanziario (cfr. Gatto A. – Rossetti D.A., Subholding pura e beneficiario effettivo di interessi alla luce della Direttiva 2003/49: un binomio possibile [Nota a Cass. n. 14756 del 2020], in Riv. dir. trib., 2021, 1, 16 ss.).

Tali criteri ben potrebbero applicarsi – con i dovuti adattamenti – per accertare la qualificazione del trust come beneficiario effettivo.

Invero, con riferimento al primo dei test citati, stante il fatto che la maggior parte dei trust non svolge un’attività commerciale propriamente intesa, la verifica circa la non artificiosità della struttura dovrebbe essere compiuta non con riferimento allo svolgimento di un’attività economica, quanto avendo riguardo al fatto che il Trustee sia impegnato in una effettiva gestione dei beni presenti nel trust fund, svolgendo pertanto un compito attivo di amministrazione degli stessi. In relazione poi al secondo test, esso dovrebbe ritenersi soddisfatto ogni qual volta non sia posto in capo ai Trustee un obbligo di attribuzione ai beneficiari del reddito ricevuto (nel caso dei c.d. trust opachi sarebbe sempre rispettata questa condizione) Infine, anche l’ultimo dei test dovrebbe ritenersi “superato” qualora sia possibile rinvenire delle ragioni che hanno portato alla istituzione del trust che siano diverse e ulteriori rispetto a quelle dell’ottenimento di mero risparmio d’imposta: se, ad esempio, il trust è stato istituto per una miglior gestione degli asset conferiti, per agevolare il passaggio generazionale ovvero per l’implementazione di una efficace struttura di amministrazione delle partecipazioni apportate (c.d. trust holding), ben dovrebbe ritenersi integrato anche il test in discorso.

Passando ora all’analisi dell’ultima disposizione menzionata, differenti contorni assume la tematica relativa all’applicazione al trust della norma convenzionale in materia di plusvalenze di cui all’art. 13 del Modello.

Vista la natura “multiforme” di questa disposizione (che si potrebbe definire, mutuando una categoria propria del campo penalistico, quale “norma a più fattispecie”), pare opportuno concentrarsi sugli elementi comuni alle diverse ipotesi in essa previste.

In particolare, con riferimento ai trust, assume rilievo la verifica circa la qualifica di “alienante” ai fini della disposizione in commento. Come rilevato in dottrina, è il Trustee (titolare formale dei beni) che dovrebbe sempre assumere tale qualifica, stante la propria caratteristica di “intestatario” dei beni oggetto di alienazione, nonché soggetto istituzionalmente deputato a compiere gli atti dispositivi degli asset detenuti dal trust stesso (cfr. Baker P., op. cit., 87). Ciò risulta ancora più evidente se si considera che, in riferimento all’art. 13 del Modello, non operano le considerazioni svolte in materia di beneficiario effettivo, non potendosi pertanto mai qualificare quale alienante neppure l’eventuale beneficiario del trust. In tal senso, dunque, poiché la cessione è effettuata dal Trustee in qualità di amministratore fiduciario dei beni apportati in trust, la Convenzione sul reddito e patrimonio applicabile non potrà che essere quella sottoscritta tra lo Stato di residenza del trust e il diverso Stato in cui sono situati i beni.

Da ultimo, pare opportuno segnalare che sembra condivisibile la tesi secondo la quale il successivo atto di distribuzione del ricavato ai beneficiari dovrebbe dar luogo ad un trasferimento di capitale e non di reddito, risultando pertanto escluso dall’ambito di applicazione delle imposte dirette (e, quindi, libero da ogni implicazione di natura convenzionale nei termini sin qui esposti) (Contrino A., Trust, vincoli di destinazione, cit., 336). In linea con questa interpretazione parrebbero porsi anche i chiarimenti contenuti nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 34/E/2022, salve le ipotesi dei trust stabiliti in Stati a fiscalità privilegiata ai sensi dell’art. 47-bis del TUIR ovvero dei cd. trust opachi commerciali. Sulla base dei chiarimenti espressi nel citato arresto di prassi, in entrambi i casi (seppur per diverse ragioni), qualora il trust distribuisca delle somme della natura suddetta, queste assumeranno una valenza reddituale in capo ai beneficiari residenti in Italia (comportando, in queste ipotesi, la possibile emersione di implicazioni di natura pattizia).

4. Dopo aver posto l’attenzione sul trattamento dei redditi in capo al trust, merita adesso tentare di individuare il regime convenzionale applicabile alle somme corrisposte ai beneficiari dal Trustee.

In prima istanza, appare opportuno rilevare come tale problema non si pone rispetto alle attribuzioni di capitale del trust, poiché queste non assumono ovviamente rilievo ai fini delle imposte sui redditi.

Passando invece alle attribuzioni di reddito ai beneficiari, le soluzioni proposte dalla dottrina sono essenzialmente di tre tipi (cfr. Baker P., op. cit., 87).

La prima è quella di far permanere in capo al reddito distribuito la originaria qualificazione assunta all’atto della maturazione. In tal senso, volendo esemplificare, qualora il Trustee attribuisse ai beneficiari redditi derivanti dallo svolgimento di attività di locazione passiva di beni immobili, questi redditi si qualificherebbero come redditi fondiari anche in sede di successiva attribuzione ai beneficiari del trust. L’interpretazione prospettata appare, tuttavia, priva di pregio. Anche non considerando l’intrinseca difficoltà nel determinare l’esatto collegamento tra le somme incassate dal trust e quelle successivamente distribuite ai beneficiari (poiché, come noto, il denaro è il bene fungibile per eccellenza), la prospettata interpretazione comunque mal si concilierebbe con la natura di quei trust che sono invece considerati autonomi soggetti d’imposta (si veda sempre il caso dei i cd. trust opachi in Italia).

Una seconda soluzione interpretativa vedrebbe di buon grado la qualificazione delle predette attribuzioni secondo una delle categorie reddituali prevista agli artt. 6-20 del Modello. Anche questa soluzione non convince. Difatti, a ben vedere, l’unica categoria nelle quale sarebbe possibile inquadrare tali attribuzioni di reddito potrebbe essere quella dei dividendi (art. 10 del Modello). Ebbene, appare di tutta evidenza come le attribuzioni provenienti da determinate categorie di trust presentino notevoli differenze con la predetta categoria di redditi, in primis per il fatto che in molti casi il beneficiario non vanta alcun diritto esigibile a vedersi riconosciuta l’attribuzione da parte del Trustee (in tal senso, sempre Sacchetto C., op. cit., 70).

Da ultimo, la terza soluzione prospettata, nonché quella cui si ritiene opportuno aderire, considera tali erogazioni assimilabili alla stregua dei c.d. other income (altri redditi) di cui all’art. 21 del Modello, laddove non diversamente previsto dagli Stati contraenti (cfr. Danon R., Chapter 6: Income from Trusts and Article 21 of the OECD Model, in Maisto G., a cura di, Revisiting Article 21 [Other Income] of the OECD Model, 2024, Amsterdam, 89 ss.).

5. Terminata questa sommaria disamina del regime convenzionale applicabile al trust (e ai beneficiari) in materia di redditi e patrimonio, pare opportuno svolgere alcune brevi riflessioni circa l’applicabilità all’istituto in discorso delle Convenzioni sulle successioni e donazioni.

Tali Convenzioni presentano una diffusione assai più ridotta rispetto a quelle in materia di imposte dirette. Basti pensare che – ad oggi – l’Italia ha sottoscritto solamente sei trattati aventi ad oggetto l’imposta di successione (con Danimarca, Regno Unito, Grecia, Israele, Stati Uniti e Svezia) ed uno soltanto (con la Francia) che riguarda anche l’imposta sulle donazioni. Le Convenzioni in questione sono redatte – seppur con le specifiche modifiche del caso – sulla base del Modello OCSE di Convenzione sulle successioni e donazioni, da ultimo aggiornato nel 1982 (“Modello ISD”).

Con riferimento alla problematica relativa all’individuazione del trust quale autonomo soggetto (“person”) ai fini convenzionali, si deve innanzitutto rilevare che nel Modello ISD non è presente una specifica definizione di “persons”. Tale definizione, tuttavia, ben può comparire in alcuni dei trattati in concreto stipulati (per l’Italia, nella specie, tale termine è definito nelle convenzioni concluse con Israele e Francia).

E infatti, il Commentario OCSE all’art. 3 del Modello ISD (par. 3) riconosce che gli Stati contraenti sono liberi «to agree in bilateral negotiations upon a definition of the term by using the terminology used in the 1977 OECD Income Tax Model». Nel medesimo paragrafo, si afferma inoltre che – in ogni caso – tale definizione «should be read in a very wide sense […] covering all individuals, companies and other entities whose estates or gifts are, under the law of a Contracting State, subject to the taxes covered by the Convention».

Sulla base di ciò, qualora la definizione di “persons” adottata nello specifico trattato ricalchi quella prevista nel Modello, si dovrebbe poter concludere nel senso di un’estensione delle considerazioni svolte precedentemente in materia di Convenzioni sul reddito e patrimonio anche a questi casi.

Con riferimento invece a quei trattati in cui risulta assente una specifica definizione di persona, una possibile soluzione all’interrogativo circa l’applicabilità della Convenzione sulle successioni e donazioni in caso di trasferimenti da e verso trust potrebbe derivare oltre che dall’ampio senso del termine “persons” cui fa cenno anche il summenzionato paragrafo del Commentario OCSE all’art. 3 del Modello ISD – anche dalla previsione contenuta all’art. 3(2) del Modello ISD.

Tale previsione (replicata dalla maggior parte delle Convenzioni sulle successioni e donazioni sottoscritte dall’Italia) chiarisce che le espressioni non diversamente definite dal Trattato assumono il medesimo significato attribuitogli dalla legislazione nazionale (a meno che il contesto non richieda una diversa interpretazione).

In considerazione di ciò, si potrebbe pertanto affermare che, qualora il trust sia dotato di autonoma soggettività nell’ordinamento nazionale di uno dei due Stati contraenti, questi ben potrebbe essere considerato “person” ai fini dell’applicazione di tali Convenzioni sulle successioni e donazioni.

In tal senso, anche alla luce delle recenti modifiche apportate all’impianto normativo italiano (ad opera dell’art. 1 D.Lgs. 18 settembre 2024, n. 139) è fuori dubbio che il trust sia dotato nel nostro ordinamento di una autonoma soggettività ai fini del tributo donativo-successorio.

Da tale conclusione deriverebbe quindi la possibilità di applicare ai trasferimenti compiuti da e verso trust “italiani” le disposizioni per il contrasto dei fenomeni di doppia imposizione in materia successoria (e, nel caso della Francia, anche in materia di donazioni).

6. Volendo rassegnare alcune brevi conclusioni sul tema trattato, non si può non rilevare preliminarmente come – in un contesto di crescente utilizzo dell’istituto del trust in ambito transnazionale – assume sempre più rilievo la problematica legata alla possibilità per il trust di beneficiare delle norme di favore previste a livello convenzionale.

Ciò è certamente vero con riferimento alle Convenzioni sul reddito e patrimonio, ove tuttavia – nonostante la diffusione dell’istituto – la soggettività del trust al Trattato non è stata espressamente chiarita dal Modello, risultando esplicitata solo in alcuni passaggi del Commentario OCSE. Salvo espressi riferimenti contenuti in specifiche Convenzioni (rimessi pertanto alla “buona volontà” degli Stati contraenti), la ricostruzione circa la “treaty entitlement” del trust necessita di un’analisi sistematica della disciplina convenzionale, da coordinare con le normative nazionali dei singoli Stati.

Tuttavia, in esito a tale analisi, la risposta all’interrogativo circa la possibilità per il trust di beneficiare delle previsioni pattizie dovrebbe essere, al netto delle criticità di cui si è dato conto, positiva.

Con riferimento alle categorie proprie dell’ordinamento italiano, pare possibile riconoscere ai c.d. trust opachi una piena soggettività sul piano convenzionale, mentre più ardua è la ricostruzione qualora ci si trovi di fronte ad un c.d. trust trasparente.

In relazione poi all’applicazione delle norme “distributive”, si dovrebbe ritenere applicabile anche nel caso dei trust la clausola antiabuso del beneficiario effettivo, operando tuttavia i dovuti e necessari correttivi al fine di compiere la verifica in ordine alle concrete caratteristiche dell’istituto in commento.

Come si è visto, pare possibile poi giungere anche ad un inquadramento circa la natura, ai fini convenzionali, delle attribuzioni reddituali ricevute dai beneficiari del trust.

Da ultimo, non privo di rilievo risulta altresì l’interrogativo circa l’applicabilità ai trasferimenti da e verso il trust delle previsioni contenute nelle Convenzioni sulle successioni e donazioni.

Anche in tale contesto – seppur certamente di minore impatto rispetto al comparto delle imposte sui redditi – si dovrebbe poter ritenere estendibile l’applicazione delle disposizioni pattizie anche ai trust, pur sempre in assenza di espresse previsioni in questo senso.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 1/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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