Sui retroscena processuali della sentenza di Cassazione n. 3800/2025: una reazione ad una assoluzione penale sbrigativa e mal motivata?
Di Giuseppe Ingrao (con postilla di Raffaello Lupi)
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Abstract (*)
La sentenza in questione, riguardante il rapporto tra processo penale e processo tributario in presenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, ha fatto molto discutere per la non condivisibile restrizione del campo di applicazione dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74/2000, ai profili sanzionatori, così consentendo al giudice tributario una differente valutazione dei medesimi fatti materiale al fine di ritenere dovuta l’imposta. L’orientamento dei giudici di legittimità (che potrebbe essere a breve sconfessato dalle Sezioni Unite) ci sembra frutto di una sentenza assolutoria penale che, come evidenzieremo, appare sbrigativa e mal motivata rispetto alle prove indicate dai verificatori per sostenere la contestazione di inesistenza oggettiva delle operazioni economiche. Questo tentativo di razionalizzare la sentenza lascia, comunque, insoddisfatti, se non altro per le conseguenze in termini di incertezza del diritto che finisce per alimentare.
On the procedural background to the judgment of the Italian Supreme Court no. 3800/2025: a reaction to a hasty and poorly motivated criminal acquittal? – The ruling in question, concerning the relationship between criminal proceedings and tax proceedings in the presence of acquittal because the fact does not exist, has caused much discussion for the unacceptable restriction of application of art. 21-bis, Legislative Decree no. 74/2000, to the sanctioning profiles, thus allowing the tax judge a different evaluation of the same material facts in order to deem the tax due. The orientation of the judges (which could soon be disavowed by the United Sections) seems to us to be the result of a criminal acquittal ruling which, as we will highlight, appears hasty and poorly motivated with respect to the evidence indicated by the auditors to support the contestation of objective non-existence of the economic operations. This attempt to rationalize the ruling leaves, however, dissatisfied, if only for the consequences in terms of legal uncertainty which ends up fueling.
Sommario: 1. La portata dirompente della sentenza n. 3800/2025 nel nuovo assetto dei rapporti tra processo tributario e processo penale. – 2. Un approfondimento della vicenda sottostante. – 3. Gli elementi di prova utilizzati dal Fisco per sostenere la contestazione di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. – 4. La pronuncia della Commissione tributaria provinciale di primo grado. – 5. La sentenza assolutoria del Tribunale e il suo recepimento da parte della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado. – 6. La forzatura interpretativa della Cassazione nel contesto di un sommario accertamento dei fatti in sede penale. – Postilla.
1. La sentenza della Corte di Cassazione, sez. V civ, n. 3800 del 14 febbraio 2025 – al pari di quelle precedenti dello stesso tenore evidenziate nell’ordinanza interlocutoria del 4 marzo 2025, n. 27278, di rimessione della questione alle Sezioni Unite che in verità erano rimaste “sotto traccia” – è certamente destinata a “fare scuola”, nel senso che rappresenta un caso evidente di “giurisprudenza creativa”, meritevole di essere attenzionato anche nelle aule universitarie per far comprendere agli studenti in modo agevole la rilevanza del fenomeno.
È proprio vero che stiamo un periodo di “crisi delle fonti del diritto”, e della legge in particolare, a favore di una “vocazione per la giurisdizione”; situazione riconducibile a varie ragioni, tra cui il c.d. pluralismo giuridico, cioè la moltiplicazione dei canali di produzione (internazionali, comunitari, statali, regionali, ecc.), che non risparmia evidentemente il diritto tributario.
La poca chiarezza della legislazione, oltre ai vuoti normativi, sta inevitabilmente rafforzando la tendenza alla creazione giurisprudenziale del diritto: il giudice, che è privo di legittimazione democratica, finisce per sostituirsi al legislatore, andando oltre la funzione che deve svolgere; si prospettano soluzioni che non hanno una precisa base legislativa, con inappropriati riferimenti a principi europei, costituzionali e a volte a clausole generali. In altri termini, si va oltre l’idea di estrapolare dalla legge il significato più coerente ed equilibrato alla luce dei principi dell’ordinamento giuridico in generale e del settore di riferimento in particolare, e si finisce con l’introdurre discrezionalmente nuove regole, disapplicando quelle esistenti.
La “creazione del diritto” sarebbe giustificata, secondo l’approccio della giurisprudenza, in relazione all’inevitabile interpretazione evolutiva a cui il giudice non può sottrarsi, soprattutto perché è chiamato ad applicare, oltre ai principi interni, anche quelli desumibili dal diritto europeo.
Il fenomeno succintamente descritto si riscontra nella sentenza in commento, la quale, come è ormai ampiamente noto, ha palesemente forzato l’interpretazione dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74/2000, introdotto con la riforma fiscale del 2023, secondo cui «La sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nelprocesso tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi».
I giudici di legittimità hanno affermato, infatti, che «l’art. 21-bis si riferisca esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non riguardi l’imposta, né la decisione del giudice tributario sulla pretesa impositiva» (9.1).
Molteplici sono le argomentazioni prospettate per motivare tale conclusione.
Innanzitutto, in un’ottica sistematica, si è rilevato che «l’art. 21-bis trova la sua fonte primaria nei principi e nelle direttive mirate alla nuova determinazione dell’assetto sanzionatorio tributario e penale», tant’è che «l’intervento riformatore si è sviluppato nell’alveo della disciplina sanzionatoria già esistente» (10.1).
Secondariamente, con un approccio storico, si è aggiunto che nel delineare il rapporto tra processo penale e processo tributario, l’esigenza tutelata dal legislatore – già presente nelle originarie previsioni normative – «è quella di trattare in termini unitari, per evitare criticità o incongruenze, gli esiti finali sanzionatori derivanti dalla necessaria separatezza dei giudizi, penale e tributario, e del procedimento amministrativo tributario» (14.1).
Da ultimo, sul piano letterale, la formulazione della norma – nella parte in cui dispone che l’efficacia di giudicato si applica “anche” nei confronti della persona fisica nell’interesse della quale ha agito il dipendente, il rappresentante legale o negoziale, ovvero nei confronti dell’ente e società, con o senza personalità giuridica, nell’interesse dei quali ha agito il rappresentante o l’amministratore anche di fatto, nonché nei confronti dei loro soci o associati – secondo i giudici, «si spiega soltanto in chiave sanzionatoria, poiché l’accertamento del tributo è naturalmente riferito al soggetto passivo, che è l’imprenditore individuale o la società, non certo alla persona che abbia agito per loro, né ai soci e agli associati, che rispondono ad altro titolo» (15).
Su queste premesse, «l’art. 21-bis D. Lgs. n. 87 del 2024, secondo una interpretazione letterale e sistematica, è suscettibile di esplicare i suoi effetti in termini diretti esclusivamente con riguardo alla sanzione irrogata, mentre con riguardo all’imposta la valutazione della sentenza penale di assoluzione resta tuttora ancorata ai principi afferenti alla circolazione della prova, esclusa ogni automatica estensione al giudizio tributario».
In definitiva, per l’accertamento dell’imposta evasa i fatti materiali oggetto della sentenza penale assolutoria hanno rilevanza nell’ambito del processo tributario quali prove soggette ad autonoma valutazione del giudice, e da apprezzare insieme alle altre prove eventualmente acquisite nel giudizio. Pertanto, i fatti materiali posti a base di una contestazione fiscale valutati come insussistenti nell’ambito di una sentenza assolutoria penale potranno – quanto meno in casi limite – supportare la richiesta di maggiori imposte (in quanto i fatti su cui poggia vengono considerano sussistenti dal giudice tributario); solo nella dimensione punitiva penale e amministrativa il fatto non sussiste.
2. Non è nostra intenzione esaminare la correttezza dei passaggi argomentativi contenuti nella sentenza. Per questi profili rinviamo alle puntuali e condivisibili riflessioni prospettate “a caldo” su questa Rivista da autorevoli studiosi (cfr. Marcheselli A., Dal doppio binario al capolinea giusto processo, 2025, 1 e pubblicato online il 4 marzo 2025, www.rivistadirittotributario.it; Salvati A., Innocenti evasori: la Cassazione verso il triplo binario (e oltre), 2025, 1 e pubblicato online il 20 febbraio 2025, www.rivistadirittotributario.it).
Ci prefiggiamo, invece, di comprendere più a fondo la vicenda processuale, per cercare di capire per quale ragione i giudici si siano prodigati in un esercizio interpretativo così faticoso e delicato, certamente svalutativo delle innovazioni apportate dalla riforma 2023 (tra le più recenti occasioni in cui la giurisprudenza ha smentito le iniziative del legislatore, si cita la sentenza sul termine di decadenza per la rettifica degli oneri pluriennali Cass., 21 febbraio 2024, n. 4638, emanata pochissimo tempo dopo l’entrata in vigore della nuova normativa).
È stata una mera riaffermazione della tendenza creativa della giurisprudenza, ovvero c’è qualcos’altro? Non crediamo che la tendenza a creare diritto possa toccare punte così elevate, come il caso che ci occupa che interviene su un tema avente un’amplissima risonanza (il predetto esempio involge invece una questione “di nicchia”).
Nonostante l’evidenza del fenomeno, invero, stentiamo a credere che lo scollamento tra diritto scritto e diritto vivente sia divenuto ormai un obiettivo precostituito della giurisprudenza da perseguire ad ogni costo; riteniamo piuttosto che possano emergere casi nei quali la “svista” giurisprudenziale sia stata indotta da vicende opache che finiscono per indurre i giudici a sopportare “il peso” (l’emanazione di una sentenza di dubbia conformità al diritto scritto) di norme elaborate in modo frettoloso.
In altri termini, potrebbe accadere che i giudici, nell’interpretare le regole generali ed astratte fissate dal legislatore, tendano in alcuni casi ad “aggiustarle”, qualora la loro applicazione letterale conduca a risultati ingiusti. Si va, quindi, alla ricerca di un significato da attribuire alla legge che, pur allontanandosi dal dato testuale, possa in qualche modo tenere insieme tutti i valori che impattano sulla vicenda. Il livello dell’asticella entro cui può operare l’interpretazione giurisprudenziale, senza sconfinare sul piano della pura creazione delle regole, non è però determinabile in astratto, dipendendo da vari fattori: dal contesto storico, dalla completezza delle regole, dalle ricadute su altri giudizi, dalla numerosità di soggetti interessati alla vicenda giuridica, ecc.
L’esigenza di comprendere più a fondo la vicenda sottostante la pronuncia dei giudici di legittimità è dovuta non solo all’ampia rilevanza del tema affrontato, ma anche al fatto che la sentenza è ambigua nella parte in cui, inizialmente, fa riferimento ad una contestazione di utilizzo di fatture per operazioni “oggettivamente” inesistenti che hanno determinato la rettifica della dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto e la conseguente richiesta di maggiori imposte; mentre più in avanti (punto 5) richiama la giurisprudenza in tema di frodi carosello ove si discute della dimostrazione della consapevolezza del contribuente del coinvolgimento in una operazione finalizzata all’evasione di imposta.
Leggendo la sentenza è emerso, cioè, il dubbio che, nel caso portato all’attenzione dei giudici di legittimità, l’asserita inesistenza delle operazioni fosse di tipo “soggettivo” e, quindi, l’assoluzione in sede penale potesse essere giustificata dalla mancanza del dolo specifico, ossia dalla inconsapevolezza da parte del contribuente di aver inserito in dichiarazione fatture emesse da soggetti diversi da quelli che hanno effettuato le operazioni (sul tema cfr. Piantavigna P., Note a margine di una pronuncia della Cassazione sulla rilevanza della buona fede del concessionario nelle operazioni soggettivamente inesistenti, in Riv. dir. fin., 2019, 1, II, 60); e ciò al di là della formula utilizzata dal Tribunale che, in caso di assoluzione per mancanza di dolo, avrebbe dovuto essere “perché il fatto non costituisce reato” e non perché “il fatto non sussiste”.
In questa prospettiva, sarebbe scorretto affermare che l’utilizzo non puntuale di una formula assolutoria potesse comunque condizionare il processo tributario (peraltro – mettendo da parte la questione del ne bis in idem sostanziale – in caso di assoluzione penale per mancanza del dolo anche la sanzione amministrativa sarebbe dovuta essendo sufficiente la colpa).
Al riguardo, occorre rammentare che sul piano amministrativo tributario, prima che su quello penale, in merito alle operazioni soggettivamente inesistenti, la giurisprudenza tributaria ha in più occasioni affermato la detraibilità ai fini dell’imposta sul valore aggiunto sul presupposto che il contribuente dimostrati l’inconsapevole e involontaria partecipazione alla frode fiscale (di recente cfr. Cass. n. 4428/2020). Quest’ultimo profilo non rileva, invece, ai fini delle imposte sui redditi, in quanto l’art. 14, comma 4-bis, L. n. 537/1993, legittima la deduzione dei costi connessi a fatture soggettivamente inesistenti, anche se il beneficiario sia a conoscenza della frode del suo fornitore (cfr. Cass. n. 23466/2020; Cass. n. 8480/2022; Cass. n. 11020/2022; Cass. n. 25474/2022), salvo il caso in cui i beni o i servizi acquistati siano stati direttamente utilizzati per attività delittuose.
Solo nelle contestazioni di fatture soggettivamente inesistenti ha, quindi, senso evocare il tema dell’estraneità del contribuente rispetto alla frode fiscale. In presenza di operazioni oggettivamente inesistenti appare superfluo discutere di consapevolezza e di dolo, essendo il soggetto acquirente attore principale della vicenda evasiva che determina l’incriminazione penale; ciò anche quando le fatture oggettivamente false venissero utilizzate per “compensare” il mancato incasso di fatture attive (sul punto cfr. Cass. n. 12351/2015, che in tale ipotesi ha correttamente affermato la sussistenza del reato di dichiarazione fraudolenta, in quanto il mancato incasso di fatture attive viene bilanciato dalla deduzione di una perdita su crediti).
Su queste basi – si ribadisce – riteniamo opportuno indagare in modo più approfondito la vicenda, rispetto a ciò che risulta dalla lettura della sentenza della Cassazione, attingendo direttamente ai provvedimenti giudiziari sottostanti.
3. Iniziamo col descrivere l’operato dell’Agenzia delle Entrate. Le contestazioni mosse fanno seguito a una verifica fiscale condotta dall’Ufficio periferico nel corso dell’anno 2018, per il periodo di imposta 2015, conclusasi con la redazione di un processo verbale di constatazione, sulla base del quale è stato notificato della società E.M. srl un avviso di accertamento ai fini IRES, determinando il reddito di impresa in 499.273 euro (a fronte di un reddito dichiarato di circa 120.000 euro) con una maggiore imposta di 104.247 euro, nonché due ulteriori accertamenti ai fini IVA, per imposta indebitamente detratta pari a 76.024 euro, ed IRAP per cui non risultano le maggiori somme pretese dall’Ufficio.
La società “verificata” operava nel settore della “Confezione in serie di abbigliamento esterno”, con un fatturato di circa 1.500.000 euro, e l’attività economica era svolta a favore di un unico cliente, che peraltro era proprietario degli immobili e dei macchinari utilizzati in locazione dalla società.
La rettifica delle dichiarazioni tributarie da parte dell’Ufficio è scaturita da due tipologie di contestazioni:
contabilizzazione di fatture per operazioni inesistenti per complessive 345.563,56 euro;
contabilizzazioni di costi non di competenza pari a 33.515,00 euro.
Tralasciando la disamina della contestazione di cui al punto b), per la quale la Commissione tributaria provinciale di Lecce ha accolto la tesi difensiva della società contribuente, soffermiamoci sulla contestazione di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.
Le fatture “incriminate” erano riconducibili a quattro fornitori.
Il primo fornitore è una ditta individuale (S.A.C.) che ha effettuato cessione di materiale igienico/sanitario per la somma di 30.924 euro, oltre IVA.
L’Ufficio impositore ha sostenuto l’inesistenza delle operazioni evidenziando che: a) l’attività economica dichiarata dal fornitore era di “Commercio all’ingrosso di elettrodomestici”, utilizzando un immobile di 30 mq.; b) non aveva mai effettuato acquisti di materiale igienico/sanitario; c) il pagamento delle fatture da parte della società acquirente era regolato in contanti, mediante contabilizzazione di un debito verso soci per capitale da rimborsare, nonostante questi ultimi avessero dichiarato di non aver avuto alcun rapporto finanziario con tale fornitore; d) l’attività era svolta senza l’ausilio di dipendenti; e) il soggetto, pur avendo presentato le dichiarazioni dei redditi negli anni dal 2014 al 2017, non aveva mai provveduto al versamento delle imposte. A ciò si è aggiunto che la società sottoposta a verifica non aveva esibito alcuna documentazione relativa a trattative o accordi prodromici alla fornitura.
Il secondo fornitore è la ditta individuale “Pubblicizzando”, che ha effettuato una vendita di merce consistente in etichette, buste e cartoni porta abiti per un imponibile di 169.767 euro, oltre IVA.
L’Ufficio impositore ha sostenuto l’inesistenza delle operazioni evidenziando che: a) l’attività economica dichiarata era sino al 2012 “Commercio al dettaglio di carni”, dal 2015 “Vendita di spazi pubblicitari propri” e dal 2016 ha assunto la titolarità di una “Trattoria”; b) il fornitore in questione non aveva mai effettuato acquisti di materiale per il confezionamento di abiti; c) la quantità di merce ceduta (109.750 etichette e 117.000 buste) era eccessiva rispetto ai capi confezionati dalla società sottoposta a verifica; d) l’attività era svolta senza l’ausilio di dipendenti; e) il soggetto, pur avendo presentato le dichiarazioni dei redditi, aveva provveduto ad esigui versamenti di imposta.
Il terzo fornitore è la ditta individuale D.E., che ha effettuato una vendita di merce consistente in etichette, buste e cartoni porta abiti, per un imponibile di 117.816 euro, oltre IVA.
L’Ufficio impositore ha sostenuto l’inesistenza delle operazioni evidenziando che: a) l’attività economica svolta dal soggetto era “Altri servizi di sostegno alle imprese”, avviata lo stesso giorno di emissione di una fattura di vendita fatta alla società sottoposta a verifica, con trasporto eseguito personalmente dall’imprenditore; b) il fornitore in questione non aveva mai effettuato acquisti di materiale per il confezionamento di abiti; c) la quantità di merce ceduta (63.650 etichette e 10.000 buste) era eccessiva rispetto ai capi confezionati dalla società sottoposta a verifica, anche tenuto conto delle quantità di medesimi beni acquistati dal fornitore “Pubblicizzando”, prima evidenziata, e dalla ditta Public Images (34.000 etichette e 21.800 buste), quest’ultima non oggetto di contestazione da parte dell’Ufficio fiscale; d) l’attività era svolta senza l’ausilio di dipendenti; e) il soggetto, pur avendo presentato le dichiarazioni dei redditi, non aveva mai effettuato versamenti di imposta. A ciò si è aggiunto che la società sottoposta a verifica non aveva esibito alcuna documentazione relativa a trattative o accordi prodromici alla fornitura.
Il quarto fornitore è la ditta individuale R.M., che ha effettuato prestazioni di pulizia, per un imponibile di 27.685 euro, oltre IVA.
L’Ufficio impositore ha appurato che: a) l’attività economica svolta dal soggetto rientrava tra i “Servizi di pulizia”; b) il pagamento delle fatture da parte della società acquirente era regolato in contanti, mediante contabilizzazione di un debito verso soci per capitale da rimborsare, nonostante questi ultimi avessero dichiarato di non aver avuto alcun rapporto finanziario con tale fornitore; c) il soggetto, pur avendo presentato le dichiarazioni dei redditi, non aveva mai effettuato versamenti di imposta.
4. Soffermiamoci ora sulla sentenza della Commissione tributaria provinciale di Lecce, n. 1269, depositata in data 16 luglio 2019. I giudici di primo grado, con specifico riferimento alle fatture per operazioni inesistenti, hanno ritenuto provate le contestazioni dell’Ufficio per gli acquisti riconducibili ai primi tre fornitori, mentre hanno ritenuto non provate quelle riconducibili al quarto fornitore. Vi è stato, quindi, un accoglimento parziale delle ragioni esposte dal contribuente.
Dalla lettura della sentenza emerge una puntuale ricostruzione dei fatti contestati dall’Ufficio ed una altrettanto puntuale argomentazione della decisione. Si evidenzia in particolare che, con riguardo ai predetti tre fornitori, «l’Amministrazione finanziaria abbia fornito la prova che le operazioni commerciali oggetto delle fatture contestate non siano state poste in essere con le modalità dalle stesse risultanti, indicando gli elementi (forniti di gravità, precisione e concordanza) sui quali ha fondato le sue contestazioni; da parte sua la ricorrente non ha idoneamente e compiutamente assolto all’onere, su di essa incombente, di dimostrare la effettiva esistenza delle transazioni, non essendo sufficiente neppure la regolarità formale delle scritture contabili o le evidenze contabili dei pagamenti (questi ultimi, nella specie, eseguiti vieppiù per contanti)». Si è aggiunto poi che la prova dell’inesistenza delle operazioni non può essere superata «dalla assunta ed indimostrata vendita da parte della ricorrente di capi di abbigliamento in nero per € 72.234, riferita in sede di accertamento con adesione».
Quanto al quarto fornitore, i giudici affermano che «pur valutando le perplessità che possono generare le modalità di pagamento, il fornitore seppur inadempiente agli obblighi fiscali comunque svolgeva l’attività di pulizie, confermata dalla presenza di dipendenti» e che «l’estensione dell’azienda giustifica la dichiarata utilizzazione da parte del fornitore di due unità operative al giorno», a nulla rilevando il fatto che le prestazioni lavorative erano rese anche in periodi in cui l’attività produttiva era ferma, «non potendosi escludere la necessità di pulizie non agevolmente effettuabili nei periodi di inoperatività, al fine di essere in regola con i requisiti igienico-sanitari prevista dalla normativa in materia di tutela del lavoro».
La sentenza di primo grado è stata oggetto di impugnazione in via principale dalla società E.M. srl e in via incidentale dall’Ufficio.
5. Veniamo ora all’assoluzione penale e al suo recepimento nel giudizio tributario di secondo grado. La sentenza del Tribunale di Lecce n. 1281, depositata in data 5 maggio 2022, ha assolto l’amministratore della società con la formula “il fatto non sussiste”. L’istruttoria si è basata sull’esame del consulente tecnico di parte della difesa, posto che quest’ultima ha rinunciato, con il consenso delle parti, all’esame di tutti i testi ad eccezione appunto del consulente. Sentito il consulente, la cui relazione è stata formalmente acquisita in contraddittorio, il Tribunale ha dichiarato chiusa l’istruttoria e, udite le conclusioni delle parti, all’esito della camera di consiglio ha pronunciato sentenza di assoluzione dell’imputato.
Nella parte motiva del provvedimento giudiziario si evidenzia che «le prove offerte dalla difesa convincono al di là di ogni ragionevole dubbio della insussistenza del reato contestato ed in particolare dell’assenza del presupposto dell’inesistenza oggettiva delle operazioni sottese alle fatture contabilizzate e riportate nelle dichiarazioni tributarie». A tale conclusione il Tribunale è giunto «condividendo le osservazioni mosse dal consulente della difesa in relazione all’attività di accertamento espletata dall’Agenzia», il quale «ha dimostrato, riferendosi agli studi di settore elaborati per le imprese esercenti analoga attività rispetto a quella svolta dalla società E.M. srl, che i costi risultano pienamente coerenti con il volume di affari dichiarati e che l’inesistenza dei costi contestata all’imputato avrebbe determinato una evidente anomalia nei flussi di reddito d’impresa». La sentenza evidenzia ancora che lo status di evasore (in tutto o in parte) dei fornitori non prova di per sé sola l’inesistenza oggettiva delle operazioni: “in altri termini la condotta di evasione a monte non può rilevare a valle”.
A bene vedere, si tratta di una sentenza che, in merito ai fatti materiali contestati, “non accerta nulla”, al di là della formula assolutoria utilizzata. Non emergono, infatti, argomentazioni e prove in grado di far cadere le puntuali contestazioni dell’Ufficio. Le affermazioni del consulente di parte della difesa sembrano, invero, atteggiarsi quale mera premessa di una successiva puntuale confutazione degli elementi probatori individuati nel processo verbale di constatazione.
A seguito di tale assoluzione penale, i giudici della Corte di Giustizia tributaria della Puglia, con sentenza n. 1544, depositata il 19 maggio 2023, hanno preso atto dell’intervento della sentenza assolutoria penale, da cui «appare evidente che le prove offerte dalla difesa hanno convinto gli inquirenti dell’insussistenza del reato contestato». La sentenza penale, per i giudici tributari di secondo grado, è pienamente condivisibile, anche perché l’Agenzia delle Entrate non ha confutato la tesi del consulente della difesa, secondo cui i costi dichiarati dalla società, anche riferendosi agli studi di settore risultano pienamente coerenti con il volume di affari dichiarato. Per il resto la sentenza offre una succinta parafrasi – se non un “copia incolla” – dei “passaggi salienti” della sentenza del Tribunale di Lecce.
Sembra, invero, che i giudici tributari di secondo grado abbiano trovato il modo per “liberarsi” rapidamente della causa, appoggiandosi acriticamente a quanto deciso in sede penale.
6. La sentenza della Corte di Cassazione n. 3800/2025 è intervenuta dopo la conferma della decisione del Tribunale di Lecce da parte della Corte di Appello di Lecce, con sentenza n. 1374/2024, nel frattempo divenuta irrevocabile.
Come sin qui rilevato, i giudici di legittimità si sono trovati di fronte ad una assoluzione basata su una consulenza che ha posto l’accento su un ragionamento presuntivo di coerenza tra costi aziendali e volume di affari, anche alla luce degli studi di settore, ma che nulla ha eccepito a proposito delle numerose anomalie riscontrate nella posizione fiscale dei fornitori e nelle modalità inusuali del pagamento delle fatture di importi cospicui.
L’unica affermazione condivisibile del Tribunale di Lecce è che la sistematica condotta di evasione fiscale del fornitore non può di per sé fondare l’accusa di inesistenza delle operazioni economiche da egli fatturate; d’altra parte la stessa CTP di Lecce non ha accolto la tesi dell’Ufficio con riguardo al quarto fornitore che non aveva sistematicamente versato le imposte. Sul punto possiamo aggiungere che l’acquirente non solo non è tenuto ad effettuare una verifica circa la “fedeltà fiscale” del fornitore, ma anche ove avesse piena contezza che egli sia un “evasore seriale” può comunque intrattenere rapporti economici per acquistare beni e servizi, in relazione ai quali esercitare il diritto di deduzione dal reddito d’impresa e il diritto di detrazione in ambito IVA. Il dovere di collaborazione che connota il rapporto Fisco-contribuente non può, infatti, spingersi sino al punto di pretendere verifiche (controllare il fornitore) e conseguenti condotte (non acquistare da chi evade), pena la contestazione di indeducibilità ai fini delle imposte sui redditi e di indetraibilità ai fini IVA (per chi appunto si rivolge ad evasori fiscali). In presenza di circostanze obiettive e facilmente riscontrabili in relazione alle quali emerge un forte rischio di evasione può al limite sussistere un obbligo di “evidenziazione separata” nella dichiarazione tributaria delle spese, come nel caso delle operazioni intercorse con imprese o professionisti localizzati in territori esteri non collaborativi inclusi in una specifica black list, per i quali resta ferma la deducibilità sia nei limiti indicati dall’art. 110, comma 9-bis, TUIR.
L’irrilevanza dell’evasione fiscale del fornitore, tuttavia, può far venir meno uno degli elementi probatori prospettati nel processo verbale di constatazione del Fisco a supporto della contestazione di inesistenza delle operazioni economiche; sui restanti elementi probatori nulla si è detto.
Occorreva, quindi, un ulteriore sforzo argomentativo da parte del Tribunale per giungere alla conclusione circa l’insussistenza dei fatti assunti a presupposto del reato di cui all’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000.
Anche l’operato del giudice di secondo grado appare lacunoso. Vero è che, in base alla normativa vigente all’epoca, la sentenza penale anche non definitiva – intesa quale documento che attesta l’esistenza di prove raccolte nel processo – rappresenta un elemento di prova dei fatti materiali contestati, utilizzabile in via esclusiva ai fini della formazione del convincimento (Cass. n. 4647/2023; Cass. n. 17619/20189). Non bisogna, però, trascurare che l’accertamento in sede penale deve essere oggetto di autonomo apprezzamento da parte del giudice tributario; aspetto che non emerge dalla decisione della CGT, posto che da essa più che altro traspare un “recepimento acritico” della sentenza assolutoria penale.
Nelle more della pronuncia della Cassazione, come è noto, è intervenuta la riforma tributaria 2023, che ha introdotto il citato art. 21-bis D.Lgs. n. 74/2000, disponendo l’efficacia di giudicato nel processo tributario dei fatti materiali oggetto di valutazione nel processo penale, limitatamente alle sentenze assolutorie con formula “perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso”.
Questa disposizione, in linea col principio del tempus regit actum, poteva essere applicata de plano dalla Cassazione per chiudere la vicenda con un esito pienamente favorevole alla società contribuente. Ed invece, i giudici di legittimità – probabilmente influenzati da una vicenda poco trasparente – si sono impegnati in un tortuoso percorso interpretativo intriso di discutibili riferimenti all’art. 53 Cost. e al diritto unionale per “limitare i danni”, cioè salvare la riscossione del tributo, rinunciando alla sanzione amministrativa.
Ove il giudice di secondo grado a cui viene rinviata la controversia per un nuovo esame riterrà che le operazioni in questione siano inesistenti, confermando la sentenza di primo grado, c’è il forte sospetto di tassare un “evasore che l’ha scampata” (per dirla con Marcheselli).
Tale conclusione è, però, spinosa. Non si può sottacere, infatti, che le “buone intenzioni” dei giudici di legittimità creeranno in futuro dei danni per un duplice ordine di ragioni: a) innanzitutto perché vi è il rischio di penalizzare i soggetti che ottengono una assoluzione penale perché il fatto non sussiste, in quanto i giudici tributari saranno tentati dal dichiarare comunque legittima la richiesta delle maggiori imposte partendo dall’errato presupposto che vi siano differenti standard probatori tra processo penale (oltre ogni ragionevole dubbio) e processo tributario (più probabile che non), così finendo per «tassare gli innocenti» (per dirla sempre con Marcheselli); b) secondariamente perché contribuiranno a creare uno stato di incertezza permanente che il diritto tributario non si può permettere.
In questa misura, sarebbe auspicabile che le Sezioni Unite, chiamate in causa qualche giorno dopo il deposito della pronuncia n. 3800 per dipanare il contrasto in merito all’interpretazione dell’art. 21-bis (oltre che sul contrasto relativo alla rilevanza ai fini dell’applicazione dell’art. 21-bis della formula assolutoria di cui all’art. 530, comma 2, c.p.p.), possano a breve segnare una netta inversione di tendenza, riportando l’interpretazione giurisprudenziale nell’alveo della mera ricerca di significato del testo, senza evidenti scollamenti rispetto a quanto emerge dalle parole e dalla volontà del legislatore, e ciò anche alla luce della trasposizione dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74/2000 nell’art. 119 del Testo Unico della giustizia tributaria di cui al D.Lgs. n. 175/2024. La valorizzazione del principio di coerenza e non contraddizione tra giudicati potrà determinare situazioni di evasori “che la faranno franca”; ma si ritiene che questi casi saranno sempre più sporadici: il giudice penale, avendo maturato l’affermazione del valore extra-penale degli accertamenti di fatto contenuti nelle sentenze assolutorie con la formula “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” e in particolare del vincolo di giudicato sul processo tributario sia per l’imposta che per la sanzione amministrativa, sarà indotto ad una più attenta e puntuale ricostruzione dei fatti materiali contestati, a prescindere dalla costituzione di parte civile del Fisco.
Un’ultima riflessione: in presenza di sentenze penali assolutorie con la formula “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” d’ora in avanti dovremmo interrogarci non tanto sulla scontata applicazione da parte del giudice tributario dell’art. 21-bis con effetti sia sulla sanzione che sull’imposta, quanto “a monte” sulla praticabilità del ritiro in autotutela obbligatoria dell’avviso di accertamento basato sui medesimi fatti materiali, trattandosi di una situazione riconducibile alla fattispecie dell’“errore sul presupposto”, di cui all’art. 10-quater, comma 1, lett. e), L. n. 212/2000; ritiro che determinerebbe la cessazione della materia del contendere e, peraltro, potrebbe involgere anche le sentenze non ancora irrevocabili. Non escludiamo che anche su questo punto gli Uffici attenderanno le Sezioni Unite!
Postilla (di Raffaello Lupi)
Le riflessioni qui svolte da Ingrao e quelle in precedenza effettuate da Marcheselli (pubblicate su questa Rivista in data 4 marzo 2025) cercano apprezzabilmente di razionalizzare la sentenza in questione. Essa certamente è una reazione a un problema oggettivo: come ben evidenziato, la sentenza penale di assoluzione era sbrigativa e mal motivata.
Emerge, tuttavia, l’inconveniente del cosiddetto “insegnamento giurisprudenziale”, che per risolvere al meglio un caso particolare destabilizza concetti sistematici, facendo confusione, più che fare scuola. La confusione deriva anche dal fatto che buona parte della motivazione della sentenza è composta soprattutto di dispersivi riferimenti a materiali normativo-giurisprudenziali, anziché di vere e proprie argomentazioni giuridiche; davanti a questa “passerella” di riferimenti è difficile mantenere il controllo, con buona pace del preconcetto normativista secondo cui esiste sempre un senso all’interno della legislazione e della giurisprudenza.
Anzi, un corollario del brocardo Lex imperat non docet, valevole anche per la giurisprudenza, è che qualche volta per imperare, quando non si hanno le idee chiare, è preferibile non farsi capire.
Nella parte “descrittiva” della sentenza n. 3800 aumentano la confusione i riferimenti al diverso profilo del ne bis in idem tra sanzioni penali e amministrative, estraneo alla questione della valenza extrapenale dei fatti materiali accertati nel processo penale. Il principio di diritto, secondo cui le risultanze del giudicato penale varrebbero solo ai fini delle sanzioni amministrative, e non dell’imposta, appare così un forzato compromesso, ispirato alle caratteristiche del caso di specie, come giustamente rileva Ingrao.
Viene del tutto trascurato il lunghissimo retroterra storico, che va ben oltre il diritto tributario, della valenza extrapenale dei fatti accertati nel processo penale; salta agli occhi in proposito che l’efficacia extrapenale dei fatti materiali accertati dal giudicato penale riguarda per sua natura profili non punitivi, ma risarcitori. Al di là delle sfumature letterali cui fa riferimento la motivazione della sentenza, la questione va riportata alla formazione del convincimento giudiziale in punto di fatto. Quest’ultimo, come ripeto da decenni (da ultimo par. 5.4 de L’imposizione tributaria come diritto amministrativo speciale, LGS, 2023), è empirico probabilistico, formulabile a prescindere da valori o regole che li esprimano. Il giudizio di fatto appartiene insomma alla sfera dell’essere, non del dover essere, secondo concetti che, non essendo trasfusi in disposizioni legislative, sfuggono in genere agli studi giuridici e ai concorsi per le professioni legali.
Al di là delle razionalizzazioni di Ingrao e delle prognosi auspicabili, ma non so quanto probabili, di Marcheselli, la via di uscita per la Cassazione, rispetto a una sentenza penale ampiamente insoddisfacente, avrebbe potuto basarsi su riflessioni strutturali, provviste di riscontri normativi. Si poteva partire dal presupposto che non è la sentenza penale a fare prova, ma i giudizi su fatti materiali in essa contenuti, come ribadisce persino l’art. 21-bis D.Lgs. n. 74/2000. Questo punto di partenza contestualizza anche il tema delle limitazioni alla prova del diritto controverso, in quanto consente di non fare riferimento al tipo di processo in astratto, ma a come è stata ottenuta la prova del fatto materiale nel processo penale. Il limite serve solo a non recepire dalla sede penale a quella extrapenale mezzi di prova non ammessi in quest’ultima, e lascia quindi aperto il recepimento dal processo penale di convincimenti formati in base a prove che sarebbero teoricamente ammesse nel processo extrapenale.
Se si guarda al caso in esame, nel processo penale non era stato affermato in positivo un evento materiale, ma si erano ritenute insufficienti determinate presunzioni a ritenere dimostrata la falsità di una fattura. Non mi pare, quindi, fosse stato affermato il fatto materiale della veridicità delle fatture, ma si era espressa una formula dubitativa sull’idoneità delle presunzioni a tal fine utilizzate dall’Ufficio. La sentenza avrebbe potuto far leva su questo per sostenere la tesi secondo cui non tutte le questioni di fatto risolte dal giudice penale comportano l’accertamento di un fatto materiale idoneo a far stato in sede extrapenale.
In questo modo sarebbero rientrati, senza bisogno di scomodare il diritto costituzionale ed unionale, gli inconvenienti di sostanza cui la sentenza fa riferimento. L’assoluzione penale per mancata prova del superamento delle soglie di punibilità è, infatti, estranea al concetto di “fatto materiale” ed è compatibile con l’applicabilità dell’imposta in sede tributaria; anche l’inidoneità alla condanna penale delle presunzioni legali tributarie sui versamenti bancari è un’affermazione di principio, non un fatto materiale, e non pregiudica l’esito del processo tributario.
La possibilità dell’amministrazione finanziaria di costituirsi parte civile nel processo penale, verificatasi in alcuni importanti processi, contribuisce a rasserenare le preoccupazioni che ispirano la sentenza in rassegna.
(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 1/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
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