Genesi, struttura e ricadute sull’interpretazione della nuova disposizione sull’onere della prova nel processo tributario
Di Giuseppe Vanz
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Abstract (*)
Si prospetta una possibile lettura del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 sull’onere della prova nel processo tributario, in termini di interpretazione autentica, muovendo dai lavori parlamentari che hanno condotto alla sua introduzione e dalla coerente e peculiare formulazione che ne è scaturita.
Genesis, structure, and implications for the interpretation of the new rule on the burden of proof in tax litigation – A possible reading of the new paragraph 5-bis of Article 7 of Legislative Decree No. 546/1992 concerning the burden of proof in tax proceedings, as an authoritative interpretation by the legislator, emerges from the parliamentary work that led to its introduction and from its specific wording.
Sommario: 1. Premessa. – 2. La struttura della regola sull’onere della prova introdotta con l’art. 6 della legge n. 130/2022. – 3. La genesi parlamentare e lo scopo dichiarato nei lavori preparatori di determinare una inversione dell’onere della prova. – 4. Segue: ancora sui lavori preparatori e sul significato della perseguita inversione – 5. L’inversione delle inversioni di matrice giurisprudenziale. – 6. Segue: precisazioni sulle inversioni giurisprudenziali. – 7. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 quale interpretazione autentica per il settore tributario della regola generale evincibile dall’art. 2697 c.c. – 8. Segue: … e il definitivo superamento di tesi rivenienti dal passato. – 9. Sulla retroattività dell’intervento normativo. – 10. Sul dovere per l’interprete di ricercare un significato utile nelle nuove disposizioni. – 11. Le conferme ritraibili dall’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, come riformato dal D.Lgs. n. 219/2023.
1. Con l’espressione “onere della prova” ci si intende normalmente riferire a quanto esplicitato nell’art. 2697 c.c. (il quale è appunto così intitolato), cioè alla regola per la quale chi vuol fare valere in giudizio un diritto, o chi nella medesima sede lo intende contestare, deve provare i fatti che ne stanno a fondamento.
Sino al 2022, nel processo speciale tributario, in mancanza di una specifica disposizione al riguardo, si è in prevalenza ritenuta applicabile, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, la regola di cui al predetto art. 2697, in quanto espressiva di un principio generale dell’ordinamento (per tutti: Manzoni I., Potere di accertamento e tutela del contribuentenelle imposte dirette e nell’IVA, Milano, 1993, 6 s.).
Con la conseguenza che, nel tipico giudizio di impugnazione degli atti impositivi (avvisi di accertamento in particolare), nel quale ricorrente è il contribuente, ma chi fa valere in giudizio un diritto di credito (dopo averlo fatto valere in sede amministrativa mediante l’atto impositivo) è l’amministrazione finanziaria, si è per lo più ritenuto che fosse la stessa amministrazione a dover dimostrare i fatti alla base del diritto fatto valere.
A meno che la legge non disponesse una inversione dell’onere della prova, mediante delle presunzioni legali relative, come ad esempio la presunzione di residenza nel territorio italiano, prevista ai fini IRPEF dall’art. 2, comma 2-bis, D.P.R. n. 917/1986.
È in questo contesto che è intervenuta la riforma della giustizia tributaria attuata con la legge 31 agosto 2022, n. 130.
Si è trattato – come ben noto – di una riforma degli organi della giurisdizione speciale, più che del processo nel suo svolgimento.
Ma tra le novità relative allo svolgimento, forse la più significativa (cfr. Glendi C., L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!, in Dir. prat. trib., 2022, 2192) è l’inserimento, mediante l’art. 6 della citata legge, di un nuovo comma 5-bis nell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: comma nel quale l’espressione “onere della prova” non compare, ma ne ha chiaramente il contenuto.
2. Dal 2022 abbiamo pertanto, anche nel processo tributario, una specifica regola sulla distribuzione dell’onere della prova, nei seguenti termini testuali (ma corsivi aggiunti):
– quanto all’amministrazione finanziaria: «L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni» (primo e secondo periodo);
– quanto al contribuente: «Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati» (terzo periodo).
La prima considerazione che suscita il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 è che, se l’art. 2697 c.c. si caratterizza – com’è peculiare delle originarie disposizioni del codice civile – per la sua essenzialità, chiarezza ed equilibrio tra le parti che lo compongono (primo comma: «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento»; secondo comma: «Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda»; nulla di più), a sua volta il comma 5-bis si caratterizza:
per essere ridondante e ripetitivo quanto all’onere attribuito all’amministrazione finanziaria: possono a mio avviso contarsi ben cinque affermazioni del medesimo concetto (riconducibili alle parole sopra evidenziate in corsivo), pur se sotto profili diversi e con varie accentuazioni e specificazioni (a tacer d’altro non capita spesso di trovare due “comunque” in uno stesso periodo);
per essere estremamente scarno, se non sciatto, quanto all’onere demandato al contribuente.
Ed è da queste considerazioni che ritengo di dover muovere nell’esame della nuova disposizione tributaria (in particolare della sezione dedicata all’amministrazione finanziaria), per verificare se dalla sua peculiare formulazione possano trarsi delle indicazioni utili ai fini della sua interpretazione e, quindi, della sua applicazione.
3. In proposito, la prima osservazione è che la legge n. 130/2022 è una legge di iniziativa governativa, che scaturisce da un disegno di legge presentato dal Governo, nel quale però non vi è traccia del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992. Quindi, anche nella relazione governativa al disegno di legge, nulla si dice al riguardo.
Si tratta infatti di una disposizione inserita ex novo solo in sede parlamentare, quale emendamento al disegno governativo (il quale neppure contemplava un art. 6), ad iniziativa di quattro senatori (Siri, Bagnai, Montani e Borghesi) e ad opera delle Commissioni riunite 2^ (Giustizia) e 6^ (Finanze e tesoro) del Senato in sede redigente: emendamento poi confermato in aula dal Senato in sede deliberante e tale e quale approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati.
Le uniche indicazioni sulla genesi dell’art. 6 della legge n. 130/2022 (che ha appunto inserito il nuovo comma 5-bis nell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992), le troviamo pertanto nei resoconti dei lavori delle Commissioni riunite 2^ e 6^ del Senato e nelle relazioni e dichiarazioni in aula, prima del Senato e poi della Camera, da parte dei parlamentari chiamati al voto.
E qui la cosa che più colpisce, almeno ad avviso di chi scrive, è la ricorrente affermazione secondo cui, attraverso l’inserimento del nuovo comma 5-bis nell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, i parlamentari proponenti e votanti abbiano inteso determinare una «inversione dell’onere della prova» in materia tributaria.
Non manca qualche timida affermazione discordante, ma questa è la motivazione nettamente prevalente, affermata per lo più con toni risoluti. Ne è significativo esempio la relazione di uno dei due relatori di maggioranza (Ostellari per la Commissione 2^) al disegno di legge con emendamenti ai fini della votazione finale nell’aula del Senato, nel cui resoconto stenografico si legge: «Un… punto importante è il principio dell’inversione dell’onere della prova; un principio delicato sul quale abbiamo discusso e sul quale ci siamo ritrovati tutti a cercare una condivisione attraverso la formulazione di un emendamento che è stato accolto, e ciò a vantaggio non di qualche parte politica, ma in questo caso del contribuente: sarà quindi lo Stato a dover provare maggiormente – e questo deve essere anche specificato e sottolineato – la sua pretesa nei confronti del cittadino» (Senato della Repubblica – XVIII Legislatura – Fascicolo Iter DDL S. 2636 – Resoconto stenografico – 1.5.2.1. – Seduta n. 460 del 4-8-2022 – 476).
Ma nello stesso senso può richiamarsi anche la dichiarazione di voto in aula della senatrice Toffanin, la quale osserva: «… si deve e si può riformare il sistema Italia. Un… aspetto fondamentale di questo cambiamento si basa sulla visione del rapporto tra Stato e contribuente. Con questa riforma finalmente si inserisce il principio dell’inversione dell’onere della prova: non più un contribuente che deve necessariamente dimostrare lui stesso la propria innocenza o non responsabilità, ma un’amministrazione che deve provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato, così come avviene in ogni nazione civile o nel nostro processo penale. …Un cambio di passo… da sempre auspicato per raggiungere un modello di fisco moderno ed equo» (Senato della Repubblica, cit., 487).
Affermazioni analoghe, anche se con divergenti valutazioni a seconda dell’appartenenza politica, si ritrovano nelle dichiarazioni nell’aula della Camera da parte di numerosi deputati (Camera dei deputati – XVIII Legislatura – Resoconto stenografico dell’Assemblea – Seduta n. 739 di martedì 9 agosto 2022). Tra esse possiamo ad esempio segnalare quella secondo cui «…i correttivi apportati in Senato alla riforma ci consegnano uno strumento che potrà comunque contribuire a riformare il sistema Italia. Ritengo fondamentale la rivoluzione copernicana recata dalla riforma del rapporto tra Stato e contribuente. Con questa riforma finalmente si inserisce il principio dell’inversione dell’onere della prova: non più il contribuente che deve necessariamente dimostrare, lui stesso, la propria innocenza o non responsabilità, ma un’amministrazione che deve provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato, così come avviene in ogni Nazione civile o nel nostro processo penale» (Rossello, 10). Addirittura vi è chi, in chiave critica, definisce il novello comma 5-bis come «…un timido tentativo di introdurre l’inversione dell’onere della prova, del tutto insufficiente» (Bignami, 30).
4. Trattandosi di affermazioni che stridono con le comuni conoscenze in materia, essendo pacifico in punto di diritto che, già prima dell’inserimento del comma 5-bis nell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, l’onere della prova dovesse in via di principio ricadere sull’amministrazione finanziaria (quantomeno rispetto alla generalità degli atti impositivi e fatte salve le presunzioni legali relative), ci si deve allora chiedere che cosa volessero esattamente intendere i parlamentari che hanno proposto e/o votato il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992.
Ed analizzando – attraverso i resoconti stenografici disponibili nei siti istituzionali del Senato e della Camera – i vari interventi dei senatori e deputati, tanto nel corso dei lavori delle Commissioni riunite 2^ e 6^ del Senato, quanto nell’aula del Senato e della Camera (sia in termini di relazioni parlamentari che di singole dichiarazioni), se ne può trarre che il ragionamento seguito da senatori e deputati sia stato il seguente:
nell’ipotesi degli atti impositivi, in base alla regola enunciata nell’art. 2697 c.c., l’onere della prova dovrebbe gravare sull’amministrazione finanziaria;
tuttavia l’amministrazione finanziaria, con il determinante avallo di una larga parte della giurisprudenza, hanno di fatto e in misura cospicua svuotato di contenuto tale regola, applicando in un crescente numero di casi delle inversioni dell’onere non previste dalla legge: ritenendo cioè, in sede procedimentale e poi processuale, che non ricadesse sull’amministrazione l’onere di dimostrare la pretesa, ma che gravasse invece sul contribuente l’onere di dimostrarne l’insussistenza;
data questa situazione di fatto, valutata politicamente dai parlamentari come ingiusta, era necessario rimediare ad essa, ripristinando nella sua pienezza la regola onus probandi incumbit ei qui dicit;
come? Invertendo l’inversione (di fatto): tornando cioè al punto di partenza, la regola legale di cui all’art. 2697 c.c.
Per questo il relatore Ostellari, la senatrice Toffanin e la deputata Rossello sostengono nella rispettiva aula – con l’enfasi tipica della classe politica (su cui in particolare i brani trascritti nel precedente paragrafo) – che un punto importante della riforma in corso di approvazione fosse proprio «il principio dell’inversione dell’onere della prova», arrivando a parlare di una «rivoluzione copernicana» (Rossello).
Ed altrettanto fa – con pari enfasi – l’altro relatore di maggioranza nell’aula del Senato (D’Alfonso per la Commissione 6^) al termine della propria relazione: «Concludo con una sola annotazione che mi preme evidenziare. É stato profuso uno sforzo anche per fare in modo che si attivasse una modifica culturale, un cambio di mappe cognitive per quanto riguarda l’inversione dell’onere della prova nel rapporto tra ordinamento tributario e contribuente. Si è messo un punto da valorizzare, che naturalmente non è esaustivo, ma che vale come luce per indicare il cammino nuovo, senza che questo scardini il meccanismo delle regole dell’ordinamento» (Senato della Repubblica, cit., 476).
5. Resta da chiarire meglio quale fosse la “stortura” che i parlamentari hanno inteso raddrizzare mediante l’introduzione nell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 del comma 5-bis.
La sintesi è quella sopra riportata (inversione dell’onere della prova per via amministrativa e giurisprudenziale in carenza di legge) e trova ad esempio riscontro nella dichiarazione di voto in aula del senatore Marino, il quale osserva: «Tra le modifiche apportate vi è… l’annullamento dell’atto impositivo nel caso di vizi della prova circa la relativa fondatezza che serve a superare tutte quelle inversioni probatorie via via elaborate nel tempo dalla giurisprudenza, quali eccezioni al generale onere della prova gravante in capo al fisco per porlo invece in capo al contribuente» (Senato della Repubblica, cit., 481).
Oltre non si va, almeno esplicitamente, nei lavori preparatori.
Nondimeno penso, non solo per alcuni accenni comunque presenti (tra cui quello sopra trascritto), ma anche e soprattutto per la logica che traspare dalle varie dichiarazioni rese da senatori e deputati nel corso dei lavori (solo in parte più sopra trascritte), che il riferimento sia:
I) alle c.d. “presunzioni giurisprudenziali”, in base alle quali, in determinate e predefinite circostanze, si determina un’automatica e indifferenziata inversione dell’onere della prova di fonte non legale ma giurisprudenziale. Esempio ormai classico è la presunzione giurisprudenziale di distribuzione di utili ai soci nel caso di accertamento di un maggior reddito in capo ad una società di capitali a ristretta base partecipativa (non a caso più di recente oggetto anche di un esplicito intervento limitativo da parte della legge-delega per la riforma fiscale del 2023: art. 17, comma 1, lett. h, n. 4, legge 9 agosto 2023, n. 111, peraltro ancora in attesa di attuazione);
II) al c.d. “principio della vicinanza o prossimità o riferibilità della prova” (di seguito in breve: vicinanza della prova): criterio di ripartizione dell’onere della prova assunto dalla giurisprudenza come complementare o sussidiario rispetto a quello generale evincibile dall’art. 2697 c.c., ma che in effetti ne comporta la deroga, determinando il trasferimento dell’onere della prova da una parte all’altra (cioè dalla parte onerata ai sensi di legge a quella che non lo sarebbe ma che si trova più “vicina” alla prova) nel singolo caso concreto. Si pensi ad esempio agli accertamenti per imposte sui redditi in materia di transfer pricing, di cui all’art. 110 TUIR;
III) alla tendenza, palesata da una quota significativa della giurisprudenza oltre che dall’amministrazione finanziaria, a partire da affermazioni rispettose della regola generale desumibile dall’art. 2697 c.c., ma a giungere poi, “pesando” diversamente l’onere della prova a seconda che questo gravi sul contribuente o sull’amministrazione, a risultati opposti (o quasi).
Tre concorrenti fenomeni sui quali ci permettiamo di rinviare al nostro Ripartizione dell’onere della prova, “vicinanza della prova” e giusto processo tributario, in Studi in memoria di F. Tesauro, vol. IV, Milano, 2023, 2714 s., ove i richiami alla pertinente giurisprudenza.
6. Se i primi due riferimenti (presunzioni giurisprudenziali e principio della vicinanza della prova) riguardano fenomeni ampiamente noti, e come tali esaminati e commentati ad ogni livello, per contro il terzo riferimento richiede qualche breve precisazione.
Questo perché la tendenza ivi descritta, pur se riconducibile ad unità, in realtà si dispiega attraverso diverse modalità. O meglio: si articola attraverso il richiamo di concetti e nozioni solo in parte coincidenti, ma che sono protesi ad un medesimo risultato, che è quello di trasferire sul contribuente, in misura preponderante, un onere che invece, secondo la regola generale ritraibile dall’art. 2697 c.c., dovrebbe interamente gravare sull’amministrazione finanziaria.
Il che avviene:
ritenendo che l’amministrazione abbia assolto all’onere su di essa gravante mediante un “principio di prova” oppure una “prova di verosimiglianza” oppure una “prova prima facie” oppure delle presunzioni obiettivamente prive dei requisiti di precisione, gravità e concordanza (sussistendo nel caso concreto solo meri indizi variamente apprezzabili): ciò al di fuori delle specifiche ipotesi in cui l’utilizzo di tali figure è eccezionalmente consentito dalla legge; e
ritenendo che a quel punto la “palla” passi al contribuente, conseguentemente gravato dall’onere di dare la prova contraria, che nel suo caso si pretende piena e convincente (come per lo più avviene, ad es., nell’ipotesi di contestazione di costi relativi ad asserite operazioni inesistenti).
Il tutto con evidente menomazione dei precetti del giusto processo, secondo cui ogni processo deve svolgersi in condizioni di parità tra le parti davanti a un giudice terzo e imparziale (art. 111, comma 2, Cost.; art. 6, par. 1, Convenzione europea dei diritti dell’uomo; art. 47, par. 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Cosa che evidentemente confligge col “pesare” diversamente l’onere della prova a seconda che questo gravi su una parte o sull’altra, senza che sussista una significativa diversità di posizione tra le due parti in termini di conoscibilità e dimostrabilità dei fatti di causa (al riguardo ci permettiamo ancora di rinviare al nostro Ripartizione dell’onere della prova…, cit., spec. 2724 s., ove i richiami alla giurisprudenza di riferimento). Ciò in relazione ai poteri di indagine attribuiti all’amministrazione finanziaria, che sono in larga parte equiparabili a quelli demandati alla polizia giudiziaria e al pubblico ministero ai fini della ricerca e del perseguimento dei reati. Poteri questi ultimi che, non a caso, si innestano in un sistema che, quanto alla colpevolezza, pone l’onere della prova interamente a capo del pubblico ministero.
E tutto questo a prescindere, nel presente scritto, da ogni considerazione circa la linearità di un ragionamento che mescola criteri di valutazione della prova e criteri di distribuzione dell’onere della prova (su cui può comunque vedersi Marcheselli A., La prova nel nuovo processo tributario, Milano, 2024, 240-242).
7. Sono naturalmente consapevole che i lavori preparatori degli atti normativi abbiano un’importanza relativa ai fini dell’interpretazione.
Al tempo stesso penso però che in questo caso i lavori preparatori forniscano una sensata chiave di lettura della formulazione del comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: del perché tale disposizione sia uscita ridondante e ripetitiva quanto all’onere gravante sull’amministrazione e quasi inesistente quanto all’onere del contribuente.
A ben vedere, il comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 dice le stesse cose dell’art. 2697 c.c. Ma, con riferimento all’onere dell’amministrazione, le ripete più volte, sotto diversi profili, con varie ed articolate accentuazioni e con ripetuti “comunque”, al fine evidente di chiarire bene il concetto ed evitarne fraintendimenti (valorizza tali aspetti, tra gli altri, Viotto A., Prime riflessioni sulla riforma dell’onere della prova nel giudizio tributario, in Rass. trib., 2023, 336).
Ora, tutto questo trascende i lavori preparatori, perché si è tradotto in un dato testuale, in una particolare formulazione della disposizione, non a caso diversa rispetto al parametro di riferimento rappresentato dall’art. 2697 c.c.
E se l’interprete è certamente legittimato a superare le risultanze dei lavori preparatori (dato che, una volta approvata, la disposizione si distacca dai suoi autori ed assume una sua valenza oggettiva all’interno dell’ordinamento rapportandosi soltanto con le altre disposizioni che lo compongono e armonizzandosi con esse per quanto possibile), non altrettanto può dirsi per il modo in cui la disposizione risulta formulata, per le parole che la compongono e per la loro connessione, per la funzione che le si può conseguentemente e coerentemente attribuire nel sistema in cui essa viene ad operare.
Una funzione, quella del comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, che alla stregua di quanto sin qui esposto ritengo consista nell’indirizzare in campo tributario l’interpretazione ed applicazione della regola generale riconducibile all’art. 2697 c.c., in un senso diverso da quello sinora seguito dall’amministrazione finanziaria e dalla prevalente giurisprudenza (in proposito: Pistolesi F., Il processo tributario, 3^ ed., Torino, 2024, 128; cfr. anche Sartori N., I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023, 77 s.).
Insomma, una forma di interpretazione autentica dell’art. 2697 c.c. per il (solo) settore tributario (cfr. in proposito anche Ficari V., Modifiche normative ed onere della prova tra procedimento e processo tributario, in Riv. dir. trib., 2023, I, 605): nel senso che, fatte salve le ipotesi di presunzioni legali relative (effettivamente previste dalla legge), l’onere della prova degli atti impositivi gravi pienamente e interamente sull’amministrazione finanziaria, in ordine a tutti gli elementi costitutivi della pretesa impositiva che essa fa valere.
Non mi sembra possa ragionevolmente attribuirsi altro significato alla categorica affermazione contenuta in apertura del comma 5-bis, secondo cui «L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato». Tanto più in quanto ribadita e precisata in quattro successivi passaggi del medesimo comma (come meglio evidenziato nel precedente par. 2).
Si noti oltretutto che l’affermazione primaria ed i suoi corollari sono del tutto indistinti. Non si discerne cioè tra elemento ed elemento della fattispecie impositiva che si assume violata distribuendo il relativo onere della prova tra amministrazione e contribuente a seconda della tipologia di ciascuno di essi (ad es. componenti positive e negative di reddito).
Al contrario, tutto ciò che sta alla base dell’evasione (cioè la violazione delle norme impositive e il conseguente inadempimento dell’obbligazione tributaria) dev’essere dimostrato dall’amministrazione finanziaria.
Per cui, ad esempio, se l’amministrazione intende contestare l’insussistenza di un costo ai fini delle imposte sul reddito, è l’amministrazione stessa a doverlo dimostrare in giudizio. E deve farlo non già con un “principio di prova” o una “prova di verosimiglianza” o una “prova prima facie” o delle presunzioni obiettivamente prive dei requisiti di precisione, gravità e concordanza (tranne che nelle tassative ipotesi in cui ciò è consentito dalla legge), pretendendo in tal modo di trasferire sul contribuente l’onere di dimostrare l’esistenza del costo. Perché questo è attualmente precluso dal comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, il quale, dopo aver statuito che è l’amministrazione a dover provare in giudizio le violazioni contestate, precisa altresì che «Il giudice… annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza… è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, …le ragioni oggettive su cui si fonda… la pretesa impositiva…».
Quindi: non più mezze prove, ma solo prove per intero (evidenzia la necessità di una dimostrazione della pretesa impositiva al di là di ogni ragionevole dubbio: Giovannini A., La presunzione di onestà e la fondatezza del credito impositivo “oltre ogni ragionevole dubbio”, in Giustizia insieme, 13 marzo 2023, par. 5).
8. Al tempo stesso, il nuovo comma 5-bis segna anche il definitivo superamento dell’ulteriore tesi giurisprudenziale, ancor più radicale rispetto a quelle sopra esposte, secondo la quale l’onere di provare le componenti negative dei redditi di impresa e di lavoro autonomo, a differenza di quelle positive, graverebbe sul contribuente, in quanto riconducibili – le componenti negative – al secondo comma dell’art. 2697 c.c. (per la tesi secondo cui le componenti positive del reddito di impresa sarebbero ascrivibili al primo comma dell’art. 2697 c.c., mentre le negative al secondo: Cass. civ., sez. trib., 10 febbraio 2012, n. 1946, ove richiami ai precedenti; anche se, più di recente, non mancano decisioni di segno contrario: ad es. Cass. civ., sez. trib., 12 gennaio 2021, n. 230; in dottrina, considerazioni critiche sull’orientamento sopra descritto sono ad es. presenti già in Cipolla G.M., La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 600-602).
Tesi non condivisibile perché, nel reddito di impresa (ma anche di lavoro autonomo) i costi non sono elementi impeditivi, modificativi o estintivi di un’obbligazione riconducibile ai ricavi, ma sono elementi che, al pari dei ricavi, concorrono a far sorgere l’obbligazione tributaria e a determinarne il contenuto (cfr. Muleo S., Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, in La riforma della giustizia e del processo tributario, a cura di Carinci A. e Pistolesi F., Milano, 2023, 94). Quindi, i costi sono componenti del reddito (“formanti” potremmo dire con altro linguaggio) e non fatti impeditivi; e tanto meno fatti modificativi o estintivi (cfr. Tundo F., La tela di Penelope delle riforme fiscali, tra Giustizia e legge delega: epicedio della certezza del diritto? Parte prima, in questa Rivista, 7 novembre 2023, par. 2.1).
In altri termini, l’obbligazione non nasce dai ricavi, ma dall’esistenza di un differenziale positivo tra ricavi e costi. Accertare un reddito (o un maggior reddito) significa pertanto accertare tanto i ricavi quanto i costi (cfr. Russo P., Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, in questa Rivista, 7 dicembre 2022, par. I), pena la tassazione di un reddito in tutto o in parte inesistente.
Tanto è vero che la giurisprudenza di legittimità, con riferimento all’accertamento del reddito di impresa col metodo induttivo-extracontabile (art. 39, comma 2, D.P.R. n. 600/1973), ormai da tempo afferma, giustamente, che l’ufficio impositore deve determinare non soltanto i ricavi, ma anche i costi e quindi, per differenza, il reddito o la perdita (diversamente, essa dovrebbe dire che sia sufficiente per l’ufficio impositore dimostrare i ricavi, essendo poi onere del contribuente, se lo ritiene, dimostrare i costi). Ciò che, più di recente ed altrettanto giustamente, è stato esteso dalla giurisprudenza anche all’accertamento analitico-contabile (art. 39, comma 1, D.P.R. n. 600/1973): così Cass. civ., Sez. trib., 13 dicembre 2024, n. 32423, rifacendosi puntualmente alle indicazioni contenute in Corte cost., 31 gennaio 2023, n. 10, spec. par. 8.
9. Tutto ciò a valere non solo per il futuro, ma anche per il passato, data l’oggettiva natura di interpretazione autentica da assegnarsi a mio avviso al comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, in quanto tramite di esso si chiarisce come vada applicata in campo tributario la regola generale dell’onus probandi incumbit ei qui dicit, già presente nell’ordinamento ed esplicitata nell’art. 2697 c.c.
Né in proposito ritengo determinante la duplice circostanza che il comma 5-bis non si qualifichi espressamente come norma di interpretazione autentica, in relazione a quanto enunciato dall’art. 1, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente, e che la sua formulazione non corrisponda a quella più tipica delle norme di interpretazione autentica, non essendo presenti espressioni come “…si interpreta nel senso che…” o analoghe.
Da un lato, infatti, la richiamata disposizione dello Statuto dei diritti del contribuente è contenuta in una legge ordinaria, derogabile, anche implicitamente, da una fonte di pari grado successiva (secondo le normali regole della successione delle norme nel tempo), come appunto l’art. 6 della legge n. 130/2022, che ha introdotto il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992. Dall’altro lato, la componente strettamente letterale di una disposizione costituisce – come ben noto – soltanto il punto di partenza per la sua interpretazione, entrando poi in gioco gli altri criteri di interpretazione, tra cui, in posizione preminente, quelli d’ordine logico-sistematico. Il che, a contrario, può anche condurre a negare natura di interpretazione autentica a disposizioni che invece si qualificano espressamente come tali (cfr. ad es. Corte cost., 12 aprile 2017, n. 73, par. 4.3.4).
Nella direzione sopra indicata, sotto entrambi i profili, può ad esempio vedersi l’art. 1, comma 87, legge 27 dicembre 2017, n. 205, di interpretazione autentica dell’art. 20 D.P.R. n. 131/1986 (testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), avente ad oggetto l’interpretazione degli atti da sottoporre a registrazione ai fini dell’applicazione della pertinente imposta. Disposizione (l’art. 1 comma 87) che non si qualifica espressamente come di interpretazione autentica e che non ne rispetta la formulazione-tipo, ma che è stata ritenuta e dichiarata tale dal successivo art. 1, comma 1084, legge 30 dicembre 2018, n. 145. Entrambe disposizioni (l’art. 1 comma 87 e l’art. 1 comma 1084) poi ritenute conformi a Costituzione rispettivamente da Corte cost., 21 luglio 2020, n. 158 e da Corte cost., 16 marzo 2021, n. 39.
Giurisprudenza costituzionale che ha altresì avuto modo di precisare, in molteplici occasioni ed ambiti del diritto (tributario e non), che lo strumento dell’interpretazione autentica ben può essere «usato dal legislatore per rimediare ad un’opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza in un senso divergente dalla linea del diritto da lui giudicata più opportuna» (Corte cost., 22 dicembre 1992, n. 480, al fondo della motivazione; nei medesimi termini: Id., 18 novembre 1993, n. 402, par. 3; quanto all’ambito tributario: Id., 16 marzo 2021, n. 39, par. 3.2.3.1). In senso conforme, si veda peraltro anche Cass. civ., Sez. lav., 6 marzo 1992, n. 2740, ove si afferma, con riguardo ad una norma lavoristica di interpretazione autentica, che non è contestabile «la legittimità del ricorso a tale forma di produzione giuridica da parte del legislatore anche in presenza di omogeneo indirizzo della Corte di Cassazione, istituzionalmente investita del potere nomofilattico».
D’altra parte, che l’interpretazione (autentica) per il settore tributario della regola generale dell’onere della prova, portata dal comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, fosse un’interpretazione ragionevolmente desumibile dalla regola generale (e quindi in essa già ricompresa e non innovativa se non in termini di certezza del diritto), ci sembra dimostrato dalla circostanza che la prevalente dottrina tributaristica (oltre ad una parte della giurisprudenza) era orientata in quello stesso senso quantomeno a partire dalla metà del secolo scorso (per tutti: Allorio E., Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 383 s.; Manzoni I., Potere di accertamento e tutela del contribuente…, cit., 6 s.).
10. Sarà sufficiente il comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 per raggiungere il risultato ragionevolmente perseguito?
Non penso sarà così facile. Anche perché lo stesso art. 2697 c.c., all’apparenza così chiaro e lineare nel suo significato, è stato in molte occasioni interpretato ed applicato in modo difforme, in ambito civilistico, prima ancora che tributario. Al punto che un attento studioso del processo civile non ha esitato nel parlare al riguardo di “manipolazioni” dell’art. 2697 c.c. da parte della giurisprudenza (Taruffo M., da ultimo, riprendendo precedenti scritti, in Verso la decisione giusta, Torino, 2020, 199 s. e 349 s.).
Sovviene inoltre, quanto all’ambito tributario, la recente vicenda – cui si è fatto cenno nel precedente paragrafo – che ha riguardato l’art. 20 D.P.R. n. 131/1986, concernente l’interpretazione degli atti da sottoporre a registrazione.
Anch’essa disposizione chiara e lineare nel suo significato, ma “stravolta” dall’amministrazione finanziaria e dalla prevalente giurisprudenza, che ne avevano indebitamente fatto una norma anti elusione/abuso del diritto tributario, con particolare riferimento all’imposta di registro.
Come già ricordato, sono state necessarie due leggi di interpretazione autentica (di cui la seconda – evento se non unico certamente raro – interpretazione autentica della precedente interpretazione autentica) e due decisioni della Corte costituzionale (cui si assomma Corte di giustizia UE, 21 dicembre 2022, causa C-250/2022, Fallimento Villa di Campo Srl che ha dichiarato manifestamente irricevibile la domanda pregiudiziale circa la conformità alle direttive IVA delle suddette disposizioni di interpretazione autentica), per ricondurre l’art. 20 D.P.R. n. 131/1986 al significato suo proprio.
Temo che qualcosa del genere attenda pure il comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992.
Ma quel che, soprattutto, non mi sembra accettabile, è la tendenza, emersa già nelle prime applicazioni del predetto comma 5-bis, ad intendere le disposizioni da esso recate come prive di nuovi effetti: anche solo l’eliminazione di un’incertezza normativa, com’è nel caso dell’interpretazione autentica (tra le più recenti: Cass. civ., Sez. trib., 16-12-2024, n. 32887, punti 4.5 e 4.6, ove si afferma che il comma 5-bis in questione «non stabilisce un onere probatorio diverso, o più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia» e che il medesimo sarebbe «senza alcuna valenza interpretativa di altre disposizioni in tema di valutazione delle risultanze probatorie»; Id., 11-12-2024, n. 32002, punto 3.1.1, secondo cui il comma 5-bis «non ha fatto altro che ribadire un principio già presente nell’ordinamento»; evidenziava il rischio di letture svalutative già Lovisolo A., Sull’onere della prova e sulla prova testimoniale nel processo tributario: prime osservazioni in merito alle recenti modifiche e integrazioni apportate all’art. 7 d.lgs. n. 546 del 1992, in Dir. prat. trib., 2023, par. 2).
É un preciso dovere dell’interprete, quello di ricercare nelle nuove disposizioni un significato utile, una modifica del precedente assetto.
Prima di sostenere che una nuova disposizione non cambi nulla rispetto al passato, che essa si limiti a ripetere precetti già esistenti, che in definitiva essa sia inutiliter data (o addirittura tamquam non esset), l’interprete dovrebbe sforzarsi di trovare alla stessa una funzione positiva nell’ordinamento.
Diversamente, ne risulterebbe svilito il ruolo del legislatore, che in uno Stato democratico significa il Parlamento, cui verrebbero ascritti dei comportamenti del tutto inutili, essenzialmente delle perdite di tempo, come se non avesse di meglio da fare (per similari considerazioni, con specifico riferimento alla disposizione qui in esame, può ad es. vedersi Contrino A., Irragionevolezze ordinamentali e innovazioni processuali (rilevanti) della recente riforma della giustizia tributaria, in Il nuovo diritto delle società, 2023, 314).
É certamente non conforme alla nostra Carta costituzionale e al principio della separazione dei poteri in essa trasfuso adottare delle interpretazioni abroganti di disposizioni approvate dal Parlamento. Se una disposizione non piace o la si ritiene ingiusta, ci si può adoperare politicamente per cambiarla o abrogarla. Se la si ritiene incostituzionale, si può provare a percorrere la strada che conduce alla Corte costituzionale. Se risulta in contrasto con gli ordinamenti internazionale ed europeo, se ne potrà invocare, nei casi e modi previsti, l’incostituzionalità o la diretta disapplicazione. Come appunto è stato fatto in relazione al citato art. 20 D.P.R. n. 131/1986.
Ma l’interpretazione abrogante non è mai consentita (cfr. ad es. la già citata Corte cost., 21 luglio 2020, n. 158, par. 5.2). Tanto più se si tratta, come nell’ipotesi prevista dal comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, di una disposizione formulata in termini inequivoci (non foss’altro che per le molteplici ripetizioni che la caratterizzano), in coerenza con le finalità palesate nei lavori parlamentari di rimediare ad orientamenti contra legem dell’amministrazione finanziaria e della giurisprudenza.
11. A supporto della lettura di quest’ultima disposizione, che si è sopra prospettata sulla base dei lavori preparatori, della formulazione letterale e della presumibile intenzione del legislatore (intesa come funzione oggettiva della legge nel sistema in cui si trova ad operare), mi sembra infine che entri in gioco anche la sopravvenuta riforma dello Statuto dei diritti del contribuente (legge n. 212/2000), attuata mediante il D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219 (su tale correlazione, tra i molti, Sbroiavacca A., Nuovo onere probatorio ed impatto sulla motivazione degli atti dell’Amministrazione finanziaria, in questa Rivista, 3 ottobre 2024; nonché, già prima dell’introduzione del D.Lgs. n. 219/2023, sulla base delle previsioni contenute nella legge-delega: Tundo F., La tela di Penelope delle riforme fiscali…, cit., par. 1).
Il richiamo va in particolare al riformulato art. 7 dello Statuto, in forza del quale (corsivi aggiunti):
comma 1: «Gli atti dell’amministrazione finanziaria… sono motivati, a pena di annullabilità, indicando specificamente i presupposti, i mezzi di prova e le ragioni giuridiche su cui si fonda la decisione. …»;
comma 1-bis: «I fatti e i mezzi di prova a fondamento dell’atto non possono essere successivamente modificati, integrati o sostituiti se non attraverso l’adozione di un ulteriore atto, ove ne ricorrano i presupposti e non siano maturate decadenze. …».
L’amministrazione finanziaria, prima di emettere un atto impositivo, deve pertanto acquisire le prove dei fatti che intende contestare (per indicarle in atto deve necessariamente averle); ed a quei fatti e a quelle prove l’amministrazione rimane poi tendenzialmente vincolata nel corso dell’eventuale giudizio.
Risulta pertanto difficile sostenere che quelle prove l’amministrazione non debba poi produrle in giudizio, assumendosi in caso contrario il rischio dell’indimostrato.
Così come risulta difficile sostenere che l’amministrazione finanziaria possa assolvere alle tassative prescrizioni contenute nel citato art. 7, dicendo che essa non indica in atto alcuna prova, perché intende avvalersi di una presunzione giurisprudenziale o del principio della vicinanza della prova, e cercando in tal modo di “ribaltare” l’onere della prova sul contribuente.
Ammetterlo, significherebbe sostenere che l’amministrazione possa ancora oggi procedere all’emissione di un atto impositivo senza aver dato a sé stessa, prima ancora che al giudice, la prova dei fatti che si accinge a contestare (secondo la nota formula alloriana), basandosi pertanto su semplici congetture. Proprio quello che il nuovo art. 7 delle Statuto vuole evitare, sanzionando in ogni caso con l’annullabilità la mancata indicazione in atto dei mezzi di prova dimostrativi dei fatti addotti.
Vero è che l’art. 7 delle Statuto viene oggi a costituire la logica premessa del comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, “saldando” strettamente la fase amministrativa (quella che sfocia nell’atto impositivo) alla successiva (anche se solo eventuale) fase processuale e facendo della seconda una proiezione della prima, nella logica di una revisione dell’operato dell’amministrazione finanziaria da parte di un soggetto terzo e imparziale come il giudice, se ed in quanto adito dal contribuente a tutela della propria posizione giuridica (cfr. al riguardo: Melis G., L’onere della prova nel diritto tributario dopo la legge n. 130 del 2022 e il d.lgs. n. 219 del 2023, in Dir. prat. trib., 2024, par. 6; Marcheselli A., Motivazione e prova, nel procedimento e nel processo tributario. Il giudice tributario come garante della funzione tributaria, in questa Rivista, 7 gennaio 2025, par. 4).
(*) Lo scritto trae spunto dalla relazione tenuta dall’autore al convegno su “Le novità del processo tributario” organizzato in data 11 ottobre 2024 presso il Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino e costituisce parte di un più ampio lavoro in corso di elaborazione. Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 1/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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