EDITORIALE – Dal doppio binario al Capolinea Giusto Processo
Di Alberto Marcheselli
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I. Le presenti brevi note hanno un oggetto nel contempo semplice e ambizioso: inquadrare in modo armonioso e moderno i rapporti tra processo penale e processo tributario.
La tesi di fondo è che sia già avvenuta una importante – e salutare, e proporzionata – evoluzione, di cui però non ci si è ancora avveduti.
Lo spunto lo offre la recente pronuncia della Cassazione, già commentata in questa Rivista (Cass.,14 febbraio 2025, n. 3800, su cui Salvati A., Innocenti evasori, la Cassazione verso il terzo binario e oltre, 2025, 1 e pubblicata online il 20 febbraio 2025, www.rivistadirittotributario.it ), che affronta una questione – importantissima – quella dell’effetto del giudicato penale nel processo tributario, in un modo che ha fatto molto “rumore”, perché in contrasto con la volontà del legislatore.
Non è però tanto questo il profilo interessante, ancorché verrà trattato approfonditamente: quello che è veramente prezioso è che tale questione è lo “spigolo” di una costruzione concettuale molto più ampia. La sentenza illumina, per così dire, la chiave di volta di una cattedrale del diritto: lo standard probatorio dei due processi e, allargando l’inquadratura, per così dire, si cattura un evento epifanico: il salto quantico che sta facendo – doverosamente – la giustizia tributaria.
Le nostre riflessioni saranno scandite, allora, in tre movimenti, corrispondenti a tre modeste critiche e proposte di ricostruzione, idonee – ci pare – a dare al processo tributario la armoniosa solidità di una cattedrale gotica, pronta a sfidare il tempo e ad elevarsi, nel rispetto della Costituzione, a presidio dei doveri di solidarietà e dei principi di giustizia.
II. In estrema sintesi, la decisione della Cassazione, alla domanda su quale sia la efficacia del giudicato penale dibattimentale di assoluzione nel processo tributario, risponde che essa è limitata alla applicazione delle sanzioni.
Tale dispositivo poggia, grossomodo, su due premesse cui intendiamo dedicare la nostra attenzione.
La prima premessa è che una soluzione diversa, e, cioè, l’applicazione del giudicato penale anche nella materia delle imposte, renderebbe l’accertamento dei tributi meno efficiente. Si determinerebbe una lesione dell’art. 53 della Costituzione, oltre che la sottrazione dell’Italia gli obblighi internazionali e di rispetto del diritto dell’Unione.
Lasciata da parte la prima impressione e in esito a una lettura meditata, tale parte della motivazione risulta, in effetti, di carattere più retorico e suggestivo, che non argomentativo, sul piano della logica giuridica. Essa è, indubbiamente, molto efficace sul piano della enfasi persuasiva, ma non sembra costituire – né poter costituire, il fondamento giuridico del decisum della Suprema Corte.
Ciò per diverse, e – ci pare – decisive, ragioni: innanzitutto, e in modo provocatorio e un po’ caciarone, potrebbe osservarsi che, né l’art. 53 della Costituzione, né il diritto unionale o internazionale obbligano l’Italia a …tassare gli innocenti. Fuor di celia e in modo più raffinato, non si vede perché sarebbe un fattore di efficienza, perché sarebbe meglio soddisfatto l’art. 53 della Costituzione, se fosse soggetto ad imposizione chi, sulla base del più accurato accertamento che viene effettuato in sede penale, risulti non avere evaso alcuna imposta. Ovvero, se si deve comunque riaccertare in sede tributaria l’assolto in sede penale.
Il punto che deve tenersi fermo è che si deve accertare se ci sia stata l’evasione. L’art. 53 della Costituzione non prevede che devono essere raccolti comunque i mezzi di finanziamento della spesa pubblica (idea non nuova: sia consentito il rinvio a Marcheselli A., Il giusto processo tributario in Italia. Il tramontodell’interesse fiscale, in Dir. prat. trib., 2001, 5, I, 793 ss.), ma una cosa ben diversa e, cioè, che il dovere di solidarietà, cardinale ed essenziale, deve essere adempiuto, in modo proporzionato e giusto, da chi è stato accertato essere titolare di una effettiva capacità contributiva.
Non esiste un interesse fiscale, quale interesse giuridicamente tutelato a recuperare finanza purchessia (sic!): esiste la giusta imposta. Il bisogno di denaro non è un valore o interesse giuridicamente tutelato, che si debba ponderare volta per volta con i diritti La Costituzione effettua già magnificamente tale giudizio di ponderazione: si può pretendere solo la giusta imposta.
Sotto altro profilo, la tesi si potrebbe giustificare soltanto assumendo che il processo penale sia inefficiente nello svolgere la sua funzione: che cioè coloro che sono assolti in dibattimento perché il fatto non sussiste o non lo hanno commesso possano essere, e siano in un numero significativo di casi, evasori “che l’hanno scampata”.
Si tratterebbe di argomentazione che, così formulata, pare, innanzitutto, sostanzialmente illogica: se il processo penale è quello con l’accertamento probatorio più approfondito, e con l’utilizzo dei mezzi istruttori più affidabili, il suo risultato è quello più sicuro, non il contrario. Ovvero, per dirlo in altro modo, pare difficile ipotizzare che ci siano delle prove che… ostacolano l’accertamento della verità e impediscono di colpire gli evasori fiscali.
Argomentazione, poi, pericolosamente prossima all’idea, totalmente estranea all’alto argomentare della Suprema Corte, ma spesso alitante nella prassi amministrativa, che chi è soggetto a una indagine tributaria sia un evasore fiscale e che le regole e garanzie procedimentali (ad esempio, il contraddittorio, la motivazione, ecc.) siano solo degli improvvidi ostacoli.
Idea illogica, anche questa, visto che il procedimento serve proprio a determinare che cosa è successo, cosa che non si sa all’inizio, sulla base di una precognizione.
E idea pericolosa, visto che potrebbe portare a sacrificare gli strumenti per l’accertamento della verità, a favore di una malintesa efficienza. Così come il processo penale non serve a condannare velocemente gli imputati (ma a stabilire quali sono colpevoli), il procedimento tributario non serve a recuperare soldi velocemente, ma a far pagare chi doveva farlo e non lo ha fatto. Altrimenti, verificato che le multe per divieto di sosta fanno cassa, si potrebbe – paradossalmente ma logicamente – multare anche chi non ha l’auto: accertare se avesse veramente parcheggiato in zona vietata fa perdere tempo e soldi.
Certamente, è possibile, in teoria e pratica, che ci siano degli aggravi procedimentali che rendono i procedimenti inefficienti, rispetto al loro scopo di accertare la verità. Ma, se ci sono, essi vanno individuati ed eliminati da tutti i procedimenti: tutti i procedimenti devono essere proporzionati ed efficienti. Detto altrimenti, quali sarebbero gli orpelli inutili o ostativi all’accertamento della verità del processo penale? E, se mai vi fossero, essi sarebbero certamente da eliminare, e sarebbero stati eliminati. Devono essere ammesse solo garanzie utili e proporzionate, ma queste poi vanno rispettate sempre. E, fino qui, evocare l’efficienza dell’accertamento tributario e il solenne valore degli obblighi di solidarietà sociale ha solo un valore enfatico: perché mai sarebbe sacrificato nel e dal processo penale? Isolatamente presa, è una mera petizione di principio.
La sostanza deve allora essere altrove, come vedremo.
III. Il discorso cambia e si fa solidamente logico e solidamente giuridico se si passa a considerare la questione degli standard probatori, rispettivamente del processo penale e del processo tributario. In effetti, se gli standard probatori sono diversi, tra processo penale e tributario, non ha alcun senso predicare una efficacia di giudicato.
Se la prova tributaria è più labile, per esempio, si arriverebbe all’assurdo, ipotizzando l’efficacia del giudicato penale, che l’evasore che avesse la ventura di passare per un procedimento penale, concluso con l’assoluzione, avrebbe diritto a un accertamento più rigoroso della sua effettiva responsabilità per il debito tributario, anche in sede amministrativa, dell’evasore che non passi per il processo penale. Due persone, nella stessa identica situazione sostanziale, andrebbero incontro ad accertamenti tributari con standard probatori diversi per il mero fatto, estrinseco e casuale, dell’essere uno stato processato penalmente e l’altro no.
Su questa base, il sostanziale disallineamento dei sistemi probatori, la Suprema Corte, molto elegantemente e coerentemente, ritaglia l’efficacia di giudicato per le sole sanzioni: se per i tributi vale uno standard diverso, le assoluzioni penali non possono avere effetto vincolante.
Schematicamente la Corte corregge l’interpretazione dell’art. 21-bis D.Lgs. n. 74/2000 con il seguente sillogismo.
Premessa maggiore: l’estensione del giudicato presuppone identità di standard probatori.
Premessa minore: lo standard probatorio tributario è diverso da quello penale.
Conclusione: il giudicato penale non si può estendere ai tributi.
Soluzione perfettamente logica.
Ma che ha un punto tutto da verificare: la premessa minore.
Esso è stato per lungo tempo consolidato: nel tributario era preclusa la testimonianza e sono applicabili anche presunzioni, ad attendibilità attenuata e legali. Più in generale, la soglia di convincimento del giudice penale è ritenuta tradizionalmente più alta di quella tributaria.
Qualcosa, però, è mutato, nelle norme e nella sensibilità giuridica.
Non solo il fatto che è ora ammissibile la testimonianza (scritta) anche nel processo tributario, ma ben di più.
In effetti, secondo una massima ricorrente, mentre in materia tributaria ai fini di prova sarebbe necessaria una probabilità nella forma del più probabile che non, in materia penale, ai sensi dell’art. 533 c.p.p., sarebbe necessario il raggiungimento della soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Indubbiamente, se fossero prescritti dalle norme questi due diversi standard ai fini del raggiungimento della soglia della prova, la differenza avrebbe una fonte legale. Il problema è che, mentre per la materia penale, la regola dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” è positivamente e inequivocabilmente sancita all’art. 533 c.p.p., la regola del “più probabile che non”non trova un fondamento, né legislativo, né sistematico.
Rilevato che nessuna norma lo prevede, sul piano sistematico va osservato che la tesi che qui si analizza implicherebbe che l’evasione potrebbe essere provata a fini tributari pur in presenza di … ragionevoli dubbi. Si tratta di un’affermazione che suscita …più che ragionevoli dubbi.
In primo luogo, essa pare francamente insostenibile in materia di sanzioni amministrative tributarie. Non vi è dubbio che esse abbiano la natura “penale”, nel significato che a queste espressioni si dà nel diritto internazionale e costituzionale, e che, in materia penale, viga la presunzione di non colpevolezza di cui, tra l’altro, all’art. 6 CEDU. È affermazione consolidata che, corollario della presunzione di non colpevolezza, è che la colpevolezza potrebbe affermarsi soltanto in assenza di ogni ragionevole dubbio, ovvero, per dirla in latino, che in dubio pro reo.
Ne consegue, per via logica inattaccabile, che non può essere vero che esiste uno standard probatorio differente tra sanzioni amministrative tributarie e sanzioni penali tributarie: a entrambe si applica la regola della colpevolezza solo oltre ogni ragionevole dubbio. Del resto, a identiche conclusioni giunge la giurisprudenza, quanto alle sanzioni amministrative. Quanto alle sanzioni in materia Consob, la Corte d’Appello di Milano (Corte d’Appello Milano, sez. I, sent., 25 luglio 2023, n. 2461) ha avuto modo di affermare che alle sanzioni amministrative pertiene, come al diritto penale generale, la regola probatoria della necessità di prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
Si può, allora e in proposito, registrare la siderale distanza dai principi della disinvoltura, quasi automatica con cui la giurisprudenza afferma, in materia tributaria, che la colpa si presumerebbe. E sotto questo aspetto la sentenza della Suprema Corte in commento è già assai preziosa: visto che il giudicato penale si applica alle sanzioni amministrative nel processo tributario, le sanzioni debbono essere accertate con esattamente lo stesso rigore nel processo tributario, indipendentemente dalla questione del giudicato e dalla pendenza di un parallelo processo penale sul fatto.
Si tratta di un corollario della sentenza che non è stato colto ma che è già rivoluzionario, rispetto all’attuale assetto: nel processo tributario le sanzioni vengono applicate come un mero accessorio del tributo, senza alcun approfondimento. Sul punto occorre un deciso cambio di passo, prima di tutto nella impostazione delle difese.
Giunti a questo punto, si potrebbe ritenere, logicamente, esattamente come fa la Corte nella decisione in commento, che il differente standardprobatorio non riguardi, genericamente, il diritto tributario e il diritto penale, ma solo il diritto penale e il diritto tributario sostanziale, non quello sanzionatorio.
La conseguenza, logica, è, però, una cosa finora inaudita in materia tributaria, e cioè che esisterebbe un doppio standard, nei processi tributari e negli atti amministrativi tributari, perché la parte relativa all’imposta potrebbe fondarsi solo sul “più probabile che non”, mentre la parte sanzionatoria dovrebbe attingere il livello dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Tale distinzione, di cui non vi è alcuna traccia nella giurisprudenza tributaria finora, è completamente innovativa e potrebbe essere apprezzata come ulteriore corollario della sentenza della Suprema Corte.
Essa, tuttavia, appare piuttosto difficile da giustificare già sul piano logico. Nella stessa sentenza l’evasione potrebbe esistere quando si tratta di tassare, ma non quando si tratta di sanzionare. Ai giuristi piace distinguere, più che cogliere le simmetrie, ma si può avere qualche dubbio sul fatto se la logica e l’aristotelico principio di non contraddizione non accendano qui un semaforo rosso insuperabile.
Ma non minori perplessità sorgono sul piano costituzionale. Sarebbe congruo e costituzionalmente giustificato pretendere dal contribuente il pagamento di un tributo di cui è ragionevolmente dubbio che sussista il presupposto giustificativo? O, per ricorrere a considerazioni di logica e di semantica, come potrebbe sostenersi che si “accerta” un tributo quando esso, invece che certo, è ragionevolmente dubbio?
La conclamata e abituale differenza di standard probatorio tra penale e tributario (o tra sanzioni e imposte) sembra allora non avere né base legale né fondamento sistematico e costituzionale.
Ma vi è di più: in una lettura atomistica e non sistematica è sfuggito a molti commentatori un dato di diritto positivo: che la comunanza di standard sembra anche doversi ritrarre dalla riforma del processo tributario e in particolare da quella, assai meritoria, attuata dalla L. n. 130/2022. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 prevede espressamente che l’atto tributario debba essere annullato quando la prova manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.
Tale norma ha due contenuti che urlano, sperando che qualcuno li ascolti: il primo è che prevede uno standard probatorio pieno e assimilabile a quello del giudizio penale, diverso da quello della giurisprudenza relativa al sistema previgente nel processo tributario. Il secondo è che lo standard legale è unitario per tributi e sanzioni amministrative tributarie.
Questo profilo appare di importanza assolutamente cardinale: non è ancora stato percepito a pieno, ma si tratta della pietra angolare del sistema, il punto di appoggio su cui fa leva il salto quantico che sta compiendo la giustizia tributaria: un quinta magistratura con standard processuali adeguati ai valori costituzionali e internazionali.
Non pare, pertanto, più vero che gli standard probatori tributari e penali siano – debbano essere, possano essere – diversi, in generale: la verità è una e i mezzi per accertarla comuni (del resto, essi appartengono alla epistemologia prima che al diritto: sul fatto il giudice è essenzialmente uno storico) e la necessità di punire chi uccide non è certamente inferiore a quella di far pagare i tributi: il doppio standard non, ha semplicemente, senso e fondamento.
IV. Resta sul tappeto un problema.
Ammesso che processo penale e tributario si siano ormai ravvicinati, anche attraverso l’introduzione della testimonianza tributaria, che fare con le presunzioni fiscali?
Secondo una quasi secolare giurisprudenza, esse non sarebbero applicabili in materia penale e, pertanto, sotto questo aspetto, permarrebbe un disallineamento tra i due giudizi.
È giunto il momento di fare giustizia di tali tralaticie affermazioni e verificarne la tenuta alla luce della evoluzione dell’ordinamento.
Bisogna, però, procedere ordinatamente e, segnatamente, isolare quattro ipotesi: la presunzione semplice, la c.d. presunzione semplicissima, la c.d. presunzione giurisprudenziale e la presunzione legale.
Quanto alla presunzione semplice, la risposta è… semplice: alla luce di quanto precede essa deve ritenersi ormai allineata alla prova valorizzabile penalisticamente ex art. 192, comma 2 c.p.p. Sia quella penalistica che quella tributaria hanno, innanzitutto, gli stessi requisiti legali (gravità, precisione e concordanza) e, anche ammesso che nel regime previgente (in modo peraltro difficile da giustificare, in base alla lettera della legge), questi requisiti avessero un significato diverso, ora essi non possono averlo più: le presunzioni semplici tributarie debbono avere lo stesso grado di solidità (non certezza assoluta, ma solida plausibilità tale da escludere dubbi ragionevoli). Se il giudice penale svaluta una presunzione adoperata in un accertamento, non è perché gli standard siano o possano essere diversi, ma perché quella presunzione tributaria era, semplicemente, sbagliata.
Quanto alle c.d. presunzioni semplicissime (quelle prive di gravità precisione e concordanza), utilizzabili eccezionalmente in sede tributaria, delle due l’una. O esse si intendono come possibilità di prova debole. O esse vengono intese semplicemente come indicazione sulla – ovvia – legittimità di una determinazione approssimata del quantum (non dell’an!!) della evasione quando non ne sia possibile la determinazione analitica.
Il primo significato, che già era dubbio nel regime previgente (Marcheselli A., Accertamenti tributari. Poteri del fisco e strategie del difensore, Milano, 2022, 427 ss.), ma è valorizzato dalla giurisprudenza tradizionale, è ora definitivamente sbarrato dalla evoluzione dell’ordinamento: la prova deve comunque essere solida. Esse sopravvivono e devono sopravvivere nel secondo significato, che è quello sano e fisiologico, che avrebbero dovuto avere sempre: se è certo che l’evasione c’è stata, non può essere di ostacolo il fatto che essa non possa essere determinata in una cifra analiticamente individuata: se si può solo avere la prova dell’ordine di grandezza di una evasione certa, non si può – è ovvio! – evitare di accertare chi ha certamente evaso: se si accerta l’importo minimo tra quelli compresi nella fascia di valori, ugualmente ragionevoli oltre un sano dubbio, lo standard probatorio costituzionale è rispettato, sia in sede penale che tributaria: se è certo che Tizio ha evaso e certamente una somma tra 100 e 200, accertare 100 è sicuro oltre ogni ragionevole dubbio. Stando così le cose, nessun disallineamento sopravvive tra il giudizio penale e quello tributario anche quanto a questo aspetto.
Quanto alle c.d. presunzioni giurisprudenziali, esse sarebbero, come noto, delle standardizzazioni probatorie di fonte giurisprudenziale: tali che, dato il ripetersi di un certo tipo di giudizio, non sarebbe più necessario provare certi fatti (ad esempio, visti i tanti precedenti di evasione dei soci di società a base ristretta, non sarebbe più necessario provare l’evasione dei soci, che sarebbe presunta). Qualunque opinione si avesse di esse nel regime previgente (sia nuovamente consentito rinviare a Marcheselli A., Accertamenti tributari. Poteri del fisco e strategie del difensore, cit., 416 ss.) pare pacifico che esse non sono più ammissibili. Il testo del comma 5-bis dell’art. 7 sbarra la strada alle presunzioni giurisprudenziali se intese come regole di creazione giurisprudenziale, visto che ribadisce che l’Agenzia deve provare il fondamento della sua pretesa in conformità della disciplina sostanziale. Con ciò ribadendo che: a) la prova è oggetto di un giudizio di fatto singolo, per ogni singolo processo, insuscettibile di standardizzazioni; b) la regola dell’onere della prova ha fonte legislativa e solo la legge può derogarlo; c) debbono essere oggetto di positiva prova tutti gli elementi della fattispecie sostanziale (ivi compresa, nell’esempio delle società, la distribuzione, che è il fatto su cui si fonda l’imposizione del socio). Le presunzioni giurisprudenziali sopravvivono, e sono pienamente efficienti per l’accertamento tributario, come ragionamenti probatori solidi, ma da verificare criticamente caso per caso, senza automatico richiamo al precedente. Anche per esse non vi è allora alcun disallineamento rispetto alla prova penale: si deve sempre trattare della prova positiva e solida di cui all’art. 192 c.p.p.
Quanto alle presunzioni legali, e cioè le puntuali norme di legge che positivamente prevedono che, dato un fatto, se ne presume un altro (esempio, dato un prelevamento di un imprenditore si presume un ricavo: fattispecie che secondo la giurisprudenza tributaria costituirebbe una inversione legale dell’onere della prova), esse sopravvivono alla riforma del processo tributario, da un lato, e dall’altro non vincolano il giudice penale, anche se possono certamente rilevare in sede penale (la differenza è che, a fronte del prelevamento dell’imprenditore, il giudice penale deve positivamente convincersi che ci sia stato il ricavo, non bastando il prelevamento non seguito da prova contraria).
Qui un disallineamento tra giudizio penale e tributario permane, ed è l’unico.
Esso non pare però in alcun modo giustificare il sacrificio della sostanziale unità dei paradigmi processuali: per risolvere l’impasse è sufficiente escludere l’effetto di giudicato delle sole (e per vero rarissime) assoluzioni nelle quali il giudice penale abbia ritenuto che l’unico modo per condannare l’imputato fosse fondarsi su una regola legale positiva (altrettanto rara) che onerava espressamente l’imputato della prova della sua innocenza.
In esito a tale ricostruzione, al processo tributario sono riconosciute le stimmate per entrare nell’Empireo dei processi giusti, nel significato che è ormai imposto dall’attuale livello di civiltà giuridica.
Processo giusto è solo quello idoneo a verificare efficacemente che la pretesa tributaria veicolata negli atti impositivi sia l’imposta giusta.
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Ai soggetti cui si riferiscono i dati spettano i diritti previsti dall’art. 7 del D.Lgs. 196/2003 che riportiamo di seguito:
1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile.
2. L’interessato ha diritto di ottenere informazioni:
a) sull’origine dei dati personali;
b) sulle finalità e modalità del trattamento;
c) sulla logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici;
d) sugli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2;
e) sui soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati.
3. L’interessato ha diritto di ottenere:
a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati;
b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati;
c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato.
4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:
a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta;
b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.
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