La clausola del beneficiario effettivo nelle Direttive europee: le sentenze “danesi” e i rapporti con il divieto di abuso del diritto

Di Loredana Carpentieri -

Abstract (*)

Uno snodo fondamentale nell’evoluzione del concetto di beneficiale ownership può ricollegarsi alle prime pronunce sul tema da parte della Corte di Giustizia, nell’ambito delle controversie attinenti all’interpretazione delle Direttive interessi e royalties e madre-figlia: si tratta delle c.d. sentenze danesi, cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16, in tema di interessi, e cause riunite C-116/16 e C-117/16, in tema di dividendi, pubblicate il 26 febbraio 2019. In queste sentenze, la Corte di Giustizia afferma che per interpretare la clausola del beneficiario effettivo ai fini della Direttiva occorre seguire l’evoluzione della corrispondente nozione in sede OCSE: in questa prospettiva, la clausola del beneficiario effettivo finisce per assumere, anche nel diritto unione, una connotazione antielusiva, diventando uno degli elementi da valutare per contrastare le strategie di creati shopping attuate attraverso l’interposizione di società conduit.

The beneficial owner clause in EU directives: the “Danish” rulings and the relationship with the prohibition of abuse of rights – A fundamental turning point in the evolution of the concept of beneficial ownership can be linked to the first decisions on the subject by the Court of Justice, in the context of disputes concerning the interpretation of the interest and royalties and parent-subsidiary directives: these are the so-called Danish decisions, joined cases C-115/16, C-118/16, C-119/16 and C-299/16, on interest, and joined cases C-116/16 and C-117/16, on dividends, published on 26 February 2019. In these decisions, the Court of Justice states that in order to inter-Pret the beneficial owner clause for the purposes of the directive, it is necessary to follow the evolution of the corresponding notion in the OECD: from this perspective, the beneficial owner clause ends up taking on, even in EU law, an anti-elusive connotation, becoming one of the elements to be evaluated in order to counter treaty shopping strategies implemented through the interposition of conduit companies.

Sommario: 1. L’adozione della clausola del beneficiario effettivo nella Direttiva interessi e royalties e nel contesto domestico. – 2. Le sentenze “danesi” della Corte di Giustizia e il complesso percorso interpretativo dal test del beneficiario effettivo all’abuso del diritto.

1. Comparsa per la prima volta nella versione del 1977 del Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, la nozione di beneficiario effettivo è approdata nel diritto unionale, sia pure in modo asimmetrico, nel 2003.

Come noto, una delle priorità dell’Unione Europea è la rimozione degli ostacoli, anche fiscali, al funzionamento del Mercato unico; e uno di questi ostacoli era rappresentato proprio dalla doppia imposizione creata dall’applicazione delle ritenute nello Stato della fonte su redditi in uscita destinati ad essere tassati nello Stato di residenza del beneficiario. Da qui, fin dagli anni ‘90, la proposta della Commissione volta ad abolire le ritenute alla fonte sul pagamento di interessi tra imprese appartenenti allo stesso gruppo, poi tradottasi nella Direttiva interessi e royalties del 2003.

La nozione di beneficiario effettivo viene così inserita espressamente, quale condizione per l’accesso all’esenzione dalla ritenuta, nella Direttiva interessi e royalties 2003/49/CE – cioè nella Direttiva che disciplina il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi – ma, asimmetricamente, non la si ritrova nella Direttiva madre-figlia, né nella versione originaria (Direttiva 90/435/CEE) né in quella attualmente in vigore (Direttiva 2011/96/UE), nonostante entrambe le Direttive siano mosse dalla preoccupazione di limitare la doppia imposizione giuridica internazionale, rispettivamente eliminando l’obbligo di ritenuta alla fonte su interessi o royalties ed esentando i dividendi distribuiti a società dello stesso gruppo, ma localizzate in Stati membri diversi.

La ragione di tale “asimmetria” – asimmetria nonostante la quale giurisprudenza e prassi degli Stati membri hanno richiamato la clausola del beneficiario effettivo con riferimento ad entrambe le Direttive e ad entrambe le relative norme di attuazione – è legata alla circostanza che, coerentemente con l’obiettivo, più volte sottolineato dalla Corte di Giustizia, di favorire le aggregazioni societarie all’interno dell’Unione europea attraverso la concentrazione dell’imposizione presso l’entità che ha prodotto l’utile, la Direttiva madre-figlia persegue, per le società che rientrano nel suo perimetro applicativo, la totale eliminazione non solo della doppia imposizione giuridica, ma anche della doppia imposizione economica.

La Direttiva madre-figlia prevede che l’utile venga tassato una sola volta in capo alla figlia e che i dividendi derivanti da quell’utile siano non solo distribuiti in esenzione da ritenuta nel Paese della fonte (che già tassa la società figlia sugli utili di esercizio), ma siano anche esenti da tassazione nel Paese della madre (consentendo peraltro a quest’ultimo Paese di utilizzare, in luogo dell’esenzione, il credito d’imposta indiretto a fronte delle imposte pagate dalla figlia nell’altro Stato). In questa prospettiva, la circostanza che il percettore del flusso di dividendi sia o meno il beneficiario effettivo cessa di avere rilevanza; è necessario e sufficiente che il suddetto percettore risponda ai requisiti necessari per essere ricompreso nel perimetro applicativo della Direttiva (quindi sia titolare di una partecipazione al capitale almeno pari al 10%, sia un soggetto corporate e liable to tax).

Le due Direttive si muovono dunque comprensibilmente su binari parzialmente diversi.

In particolare, l’art. 1, par. 1, della Direttiva interessi e royalties afferma che «i pagamenti di interessi o di canoni provenienti da uno Stato membro sono esentati da ogni imposta applicata in tale Stato su detti pagamenti, sia tramite ritenuta alla fonte sia previo accertamento fiscale, a condizione che il beneficiario effettivo degli interessi o dei canoni sia una società di un altro Stato membro o una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro di una società di uno Stato membro». L’ispirazione al Modello OCSE è evidente; ma, come nel Modello OCSE, anche nella Direttiva interessi e royalties non viene fornita una chiara definizione di beneficiario effettivo, dato che il successivo par. 4 dell’art. 1 della Direttiva si limita ad aggiungere che «una società di uno Stato membro è considerata beneficiario effettivo di interessi o canoni soltanto se riceve tali pagamenti in qualità di beneficiaria finale e non di intermediaria, quale agente, delegato o fiduciario di un’altra persona».

Quanto alle modalità di prova del possesso di tale requisito, la Direttiva in questione prevede la possibilità, per gli Stati membri, di introdurre una certificazione dei requisiti richiesti ai fini dell’esenzione, rimettendo in sostanza la questione alle Amministrazioni dei singoli Stati membri.

Nel nostro ordinamento, la norma di recepimento della Direttiva interessi e royalties è l’art. 26-quater D.P.R. n. 600/1973, il quale prevede, al comma 4, che «la disposizione di cui al comma 1 (cioè l’esenzione degli interessi da ogni imposta, n.d.r.) si applica se […] le società non residenti […] sono beneficiarie effettive dei redditi indicati nel comma 3” e che “a tal fine, sono considerate beneficiarie effettive di interessi o canoni: 1) le predette società, se ricevono i pagamenti in qualità di beneficiario finale e non di intermediario, quale agente, delegato o fiduciario di un’altra persona».

Dunque, in linea con le raccomandazioni della Direttiva, per concedere la disapplicazione della ritenuta, la norma domestica impone al sostituto di imposta di acquisire, prima del pagamento, una certificazione delle Autorità fiscali del Paese estero che attesti la residenza del beneficiario effettivo, nonché una dichiarazione che attesti la sussistenza di tutti gli altri requisiti previsti per beneficiare dell’esenzione: in questa prospettiva, il soggetto residente che dovesse trovarsi a corrispondere interessi e/o royalties al soggetto non residente sembrerebbe legittimato a fare affidamento sulla detta documentazione per applicare, quale sostituto d’imposta, i benefici convenzionali

La Direttiva madre-figlia, come già ricordato, non menziona invece la clausola del beneficiario effettivo, ma – in esito alle modifiche ad essa apportate dalla Direttiva 2014/86/UE – detta una clausola generale antiabuso, con la finalità di evitare qualsiasi forma di directive shopping.

In particolare, l’art. 1, par. 2, della Direttiva madre-figlia prevede che «Gli Stati membri non applicano i benefici della presente direttiva a una costruzione o a una serie di costruzioni che, essendo stata posta in essere allo scopo principale o a uno degli scopi principali di ottenere un vantaggio fiscale che è in contrasto con l’oggetto o la finalità della presente direttiva, non è genuina avendo riguardo a tutti i fatti e le circostanze pertinenti. Una costruzione può comprendere più di una fase o parte. Ai fini del paragrafo 2, una costruzione o una serie di costruzioni è considerata non genuina nella misura in cui non è stata posta in essere per valide ragioni commerciali che riflettono la realtà economica. La presente direttiva non pregiudica l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali necessarie per evitare l’evasione fiscale, la frode fiscale o l’abuso».

Dunque, con riferimento ai dividendi, in assenza della clausola del beneficiario effettivo, è questa clausola antiabuso a garantire il ricorso “fisiologico” ai benefici convenzionali, evitando che la Convenzione diventi solo uno strumento per evitare l’applicazione delle norme interne al Paese della fonte che legittimano un’imposizione sui dividendi in uscita.

Proprio in attuazione di quanto disposto dall’art. 1 della Direttiva madre-figlia, l’art. 27-bis, comma 5, D.P.R. n. 600/1973 già prevedeva, nella sua formulazione in vigore fino al 1° gennaio 2016, una specifica disposizione antiabuso, che subordinava l’esenzione da ritenuta sui dividendi distribuiti da società figlie a società madri unionali, controllate a loro volta da società extraUE, alla condizione che le controllanti extraUE non detenessero la partecipazione «allo scopo esclusivo o principale di beneficiare del regime in parola». A seguito della modifica recata dall’art. 26, comma 2, L. n. 122/2016, la previsione in questione è stata sostituita con il rinvio alla generale norma antiabuso introdotta nell’art. 10-bis L. n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), che è così diventata norma di riferimento anche per disconoscere l’applicazione della Direttiva madre-figlia e, dunque, l’esenzione della ritenuta sui dividendi distribuiti da società figlie UE: una soluzione normativa che, come rilevato in dottrina (cfr.: Corasaniti G., L’evoluzione della nozione di beneficiario effettivo tra il modello di Convenzione OCSE e la giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Dir. prat. trib., 2021, 6, 2524) riconduce la clausola del beneficiario effettivo alla sua originaria funzione di disconoscere la limitazione dell’imposizione alla fonte nei confronti di soggetti che non si qualificano quali “possessori” del reddito.

2. Uno snodo fondamentale nell’evoluzione del concetto di beneficial ownership può ricollegarsi alle prime pronunce sul tema da parte della Corte di Giustizia, nell’ambito delle controversie attinenti all’interpretazione delle Direttive interessi e royalties e madre-figlia: si tratta delle c.d. sentenze danesi, cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16, in tema di interessi, e cause riunite C-116/16 e C-117/16, in tema di dividendi, pubblicate il 26 febbraio 2019 (peraltro, ad avviso di una parte della dottrina – cfr.: Contrino A., Note in tema di dividendi “intraeuropei” e “beneficiario effettivo”, tra commistioni improprie della prassi interna e nuovi approdi della giurisprudenza europea, in Riv. tel. dir. trib., 2020, 1, 106, queste sentenze non si esprimerebbero sulla rilevanza della clausola del beneficiario effettivo in tema di dividendi infraUE ma andrebbero piuttosto a rielaborare, rispetto alla precedente giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia, la nozione di costruzione artificiosa per ricomprendervi, ai fini dell’applicazione della Direttiva madre-figlia, anche la nozione di beneficiario effettivo).

I giudici danesi avevano sollevato davanti alla Corte di Giustizia questioni interpretative del tutto analoghe a quelle che si pongono i giudici italiani nel valutare la spettanza dei benefici convenzionali: si trattava, nei casi di specie, di valutare la legittimità dell’applicazione dell’esenzione da ritenuta sugli interessi e sui dividendi pagati da società residenti in Danimarca nei confronti di consociate residenti in altri Stati UE. Minimo comune denominatore di queste vicende era rappresentato dalla circostanza che i percettori degli interessi e dei dividendi erano tutti entità societarie intermedie, a loro volta riconducibili a soci residenti al di fuori dell’Unione Europea, con attività sostanzialmente limitata alla percezione dei suddetti proventi, e obbligate a ritrasferirli a monte. Proprio in ragione di tale configurazione, l’Amministrazione finanziaria danese contestava ai percettori l’applicabilità del regime di esenzione da ritenuta, nel presupposto che le suddette entità intermedie non potessero qualificarsi come beneficiari effettivi, ma come meri soggetti intermedi indebitamente interposti al solo fine di fruire di una Direttiva che altrimenti non avrebbe potuto trovare applicazione.

Una delle questioni preliminari poste alla Corte dai giudici danesi è come si dovesse interpretare la locuzione di beneficiario effettivo contenuta nella Direttiva: se «conformemente alla corrispondente nozione di cui all’art. 11 del Modello di Convenzione fiscale dell’OCSE del 1977» e, in caso affermativo, «se detta nozione debba essere interpretata esclusivamente alla luce dei commentari di cui all’art. 11» del Modello OCSE del 1977 «o se nell’interpretazione si possa tenere conto dei commentari successivi».

L’Avvocato generale, inquadrando la direttiva interessi e royalties in un’ottica tradizionale, quale strumento per mitigare la doppia imposizione giuridica dei flussi transnazionali di interessi attraverso l’attribuzione della potestà impositiva allo Stato membro di residenza del percettore (dove quest’ultimo ha sostenuto i costi per la raccolta dei capitali o per la ricerca e lo sviluppo), propendeva per un’interpretazione della nozione di beneficiario effettivo ancorata a criteri qualificatori di tipo giuridico-formale (cfr.: conclusioni dell’Avvocato generale Juliane Kokott presentate in data 1° marzo 2018 nel procedimento C-115/16, parr. 48-55). In questa prospettiva, l’Avvocato generale sosteneva che la nozione di beneficiario effettivo di matrice comunitaria conservasse una connotazione autonoma rispetto ai criteri offerti dall’art. 11 del Modello OCSE e dalle elaborazioni del Commentario OCSE e dovesse coincidere con il soggetto che riceve gli interessi in nome e per conto proprio, nel senso che «può decidere da solo in merito all’impiego degli interessi e sopporta altresì da solo il rischio di perdita»; requisito destinato a venir meno quando il percettore è «vincolato nei confronti di un terzo in misura tale che è il terzo stesso a sopportare, in ultima analisi, il rischio di perdita (nella specie, degli interessi»). Dunque, una definizione distinta da quella più recentemente elaborata dall’OCSE, nella quale si fa leva sull’assenza di vincoli di retrocessione, di diritto o di fatto, sul flusso reddituale.

La nozione di beneficiario effettivo proposta dall’Avvocato generale è stata però disattesa dalla Corte di Giustizia, la quale, probabilmente mossa dalla volontà di contrastare più efficacemente gli abusi posti in essere tramite le interposizioni di società conduit nell’ambito dei gruppi multinazionali, ne ha proposto una lettura maggiormente sostanziale e in linea con quella elaborata nel Commentario al Modello OCSE, sposando un approccio case by case.

In particolare, partendo dal concetto di beneficiario effettivo la Corte ha seguito un excursus che giunge fino all’abuso del diritto, cercando al contempo di sottolineare – in una dinamica dai non sempre impeccabili approdi – la differenza tra abuso e semplice mancanza del requisito del beneficiario effettivo. In primis, la Corte ha chiarito come la nozione di beneficiario effettivo «debba essere interpretata nel senso che designa un’entità che benefici realmente degli interessi corrispostile» (enfasi/sottolineatura aggiunta) sulla base di una valorizzazione della «realtà economica»: in questa prospettiva «il termine beneficiario riguarda non un beneficiario individuato formalmente, bensì l’entità che benefici economicamente degli interessi percepiti e disponga, pertanto, della facoltà di disporne liberamente la destinazione» (cfr.: par. 88 e 89 della sentenza); dunque, nell’individuazione del beneficiario effettivo non è possibile limitarsi a identificare il destinatario formale del flusso reddituale.

Altrettanto chiare, nella sentenza della Corte (cfr.: par. 84), sono sia l’affermazione secondo cui la nozione di beneficiario effettivo rilevante ai fini della Direttiva ha un significato autonomo rispetto alle nozioni di diritto interno dei singoli Stati membri, sia soprattutto l’affermazione secondo cui per interpretare la nozione di beneficiario effettivo ai fini unionali può farsi utile riferimento al Commentario OCSE, per di più come modificato nel corso del tempo, dato che la Direttiva interessi e royalties si ispira all’art. 11 del Modello e ne condivide la ratio (che è quella di evitare la doppia imposizione e di prevenire la frode e l’evasione fiscali) («La nozione di beneficiario effettivo, che figura nelle convenzioni bilaterali fondate su tale modello nonché nelle successive modifiche ivi apportate e nei relativi commentari, è pertanto pertinente ai fini dell’interpretazione della Direttiva 2003/49»; così il par. 90 della citata sentenza). In questa prospettiva, il valore interpretativo del Commentario non solo trascende le Convenzioni bilaterali costruite sul Modello OCSE per approdare anche sul piano delle Direttive, ma addirittura deve essere seguito nelle sue evoluzioni temporali

La Corte di Giustizia ha giustificato questa interpretazione affermando che già nella iniziale proposta di Direttiva interessi e royalties del 1998 si faceva riferimento all’art. 11 del Modello di Convenzione OCSE e se ne sottolineava l’identità di ratio; tuttavia quello prospettato dalla Corte resta un passaggio interpretativo piuttosto forte e foriero di dubbi in punto di certezza del diritto, visto che collega una definizione del diritto unionale (che pure dovrebbe costituire, ad avviso della stessa Corte di Giustizia, un «diritto speciale ed originale»; cfr.: Corte di Giustizia, 5 febbraio 1963, causa C-26/62 [Van Gend en Loos] e 15 luglio 1964, causa C-6/64 [Costa c. ENEL] e la conseguente interpretazione a documenti OCSE non solo privi di valore normativo ma, per di più, assunti in una prospettiva dinamica (in contrasto con la lettura data dall’Avvocato generale Kokott che aveva sottolineato come l’attribuzione di un valore ermeneutico all’evoluzione del Commentario finisce per assoggettare l’interpretazione di una Direttiva alle scelte fatte dai due Stati membri in sede di contrattazione della singola Convenzione).

In ogni caso, se per interpretare la clausola del beneficiario effettivo ai fini della direttiva occorre seguire l’evoluzione della corrispondente nozione in sede OCSE, tale clausola finisce per assumere, anche nel diritto unionale, una connotazione antielusiva, diventando uno degli elementi da valutare per contrastare le strategie di treaty shopping attuate attraverso l’interposizione di società conduit.

Questa “mutazione” della natura originaria della clausola è destinata a pesare sul tema della ripartizione dell’onere della prova (per approfondimenti sul tema, sia consentito il rinvio a Carpentieri L., L’onere della prova in tema di beneficiario effettivo, in Anelli F. – Briguglio A. – Chizzini A. – De Poli M. – Gragnoli E. – Orlandi M. – Tosi L. (a cura di), L’onere della prova, Milano, 2024). Nelle citate sentenze danesi la Corte di Giustizia afferma che «al fine di negare ad una società il riconoscimento dello status di beneficiario effettivo di interessi ovvero di accertare la sussistenza di un abuso, un’Autorità nazionale non è tenuta ad individuare la o le entità che essa consideri beneficiari effettivi degli interessi medesimi» (cfr.: sentenza cause riunite C-115/16, C-116/16 e C-299/16, par. 145); ciò in quanto «l’Amministrazione finanziaria nazionale non dispone necessariamente, alla luce della complessità di talune costruzioni finanziarie e della possibilità che le società interposte ivi coinvolte siano stabilite al di fuori dell’Unione, delle informazioni che le consentano di procedere all’identificazione dei beneficiari stessi» e dunque «non può pretendersi dall’Amministrazione medesima di produrre prove che essa sia impossibilitata a fornire» (cfr. par. 143 della suddetta sentenza). Allontanandosi dalle sue stesse precedenti pronunce (cfr.: sentenza 7 settembre 2017, C-6/16, caso Eqiom, par. 36) la Corte di Giustizia afferma che l’Amministrazione può disconoscere i benefici della Direttiva limitandosi ad affermare la natura “economicamente dipendente” della società intermedia all’interno del gruppo; può cioè limitarsi ad «accertare che il preteso beneficiario non è altro che una società interposta tramite la quale è stato realizzato un abuso» (Cfr.: par. 143 delle sentenze 26 febbraio 2019, procedimenti riuniti C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16) senza dover necessariamente individuare i beneficiari effettivi dei flussi di reddito, cioè i soggetti che hanno effettivamente conseguito un trattamento fiscale più vantaggioso rispetto a quello al quale avrebbero avuto diritto.

In altri termini, in questa prospettiva l’Amministrazione finanziaria che disconosca lo status di beneficiario effettivo non è tenuta a individuare i reali beneficiari del flusso reddituale (per l’ovvia difficoltà di conoscere le situazioni sottostanti): ha l’onere di provare che il preteso beneficiario effettivo è in realtà una conduit attraverso la quale è stato realizzato un abuso, mentre grava sul contribuente – che avrebbe, per “vicinanza”, accesso privilegiato alle informazioni necessarie a dimostrarlo (al par. 143 delle sentenze danesi la Corte afferma che «l’amministrazione finanziaria nazionale non dispone necessariamente, alla luce della complessità di talune costruzioni finanziarie e della possibilità che le società interposte ivi coinvolte siano stabilite al di fuori dell’Unione, delle informazioni che le consentano di procedere all’identificazione dei beneficiari stessi Orbene, non può pretendersi dall’amministrazione medesima di produrre prove che essa sia impossibilitata a fornire») – l’onere di provare lo status di beneficiario effettivo della società percettrice dei flussi o di altra società.

Sotto quest’ultimo profilo, la Corte di Giustizia ammette peraltro un approccio look through, nel senso che la mera presenza della conduit percettrice non sarebbe sufficiente a escludere l’applicazione della Direttiva, ben potendo gli interessi comunque essere trasferiti da tale conduit ad un beneficiario effettivo stabilito nell’Unione e con i requisiti per accedere ai benefici della Direttiva.

Quanto alla possibilità di reprimere anche eventuali abusi della Direttiva madre-figlia (che, come ricordato, non contiene la clausola del beneficiario effettivo) facendo riferimento alla clausola prevista dalle norme convenzionali, la Corte di Giustizia non solo richiama l’esistenza di un principio generale di divieto di pratiche abusive, immanente a livello di diritto dell’Unione, ma, per la prima volta, ne afferma l’applicabilità anche in tema di imposte non armonizzate (laddove invece le conclusioni dell’Avvocato Kokott, allineandosi alle precedenti pronunce della Corte di Giustizia – per tutte cfr. causa Kofoed, C-321/05 – continuavano a circoscrivere l’operatività del principio alle sole imposte armonizzate. In quest’ottica, il contribuente non può beneficiare di un diritto o di un vantaggio riconosciuto dal diritto dell’Unione quando l’operazione sia puramente artificiosa sul piano economico e sia diretta a sottrarre l’impresa alla normativa dello Stato membro interessato; le Amministrazioni e i giudici nazionali, dal canto loro, sono tenuti a contestare l’abusività delle strutture volte, in via esclusiva o prevalente, a beneficiare delle norme unionali, anche a prescindere dall’esistenza di una disposizione antiabuso nazionale o convenzionale. In termini di onere della prova, quindi, spetterebbe al contribuente dimostrare l’esistenza delle condizioni oggettive previste dalla Direttiva, mentre all’Amministrazione finanziaria che intenda disconoscere i benefici della Direttiva spetterebbe l’onere di dimostrare gli elementi costitutivi di una pratica abusiva, tenendo conto di tutti gli indizi dell’abuso, compreso il fatto che il destinatario dei dividendi non ne è il beneficiario effettivo.

Nelle sentenze “danesi” la Corte di Giustizia sembra effettivamente muoversi su un terreno un poco scivoloso: la clausola del beneficiario effettivo diventa una sorta di indizio, uno degli elementi da valutare ai fini della potenziale sussistenza dell’abuso. In controluce sembra di intravedere, dietro al ragionamento della Corte, la preoccupazione che il test del beneficiario effettivo, letto nel suo significato originario, si riveli strumento non del tutto efficace nei confronti di un possibile utilizzo abusivo delle strutture conduit in strategie di treaty shopping; strategie suscettibili invece di essere più facilmente arginate attraverso misure antiabuso. Da qui il collegamento (e forse persino la confusione) (cfr.: Contrino A., Note in tema di dividendi “intraeuropei” e “beneficiario effettivo”, tra commistioni improprie della prassi interna e nuovi approdi della giurisprudenza europea, cit.) tra clausola del beneficiario effettivo e abuso del diritto, anche se la clausola del beneficiario effettivo resterebbe una clausola antiabuso non generale, ma specifica, finalizzata a contrastare le specifiche forme di treaty shopping relative ai flussi transnazionali di passive income, mentre tutte le altre forme di treaty shopping dovrebbero essere contrastate con norme generali antiabuso con onere della prova a carico dell’Amministrazione finanziaria (sui rischi di un sostanziale “assorbimento” del requisito del beneficiario effettivo all’interno della nozione di “costruzione artificiosa” e sulla natura “onnivora” dell’abuso del diritto v. Ronco S.M., I piccoli passi forse non bastano più? Le acquisizioni della giurisprudenza sui casi danesi in tema di abuso del diritto, beneficiario effettivo e requisito dell’assoggettamento ad imposizione”, in Dir. prat. trib. int., 2020, 1, 345).

L’approccio interpretativo seguito dalla Corte di Giustizia nell’avvicinare (fino quasi a sovrapporre) la nozione di beneficiario effettivo all’abuso appare particolarmente forzato con riferimento alla Direttiva interessi e royalties, nella quale la nozione di beneficiario effettivo è ben presente (cfr.: art. 1, par. 4 della Direttiva 2003/49/CE, secondo cui «una società di uno Stato membro è considerata beneficiario effettivo degli interessi o canoni soltanto se riceve tali pagamenti in qualità di beneficiaria finale e non di intermediaria, quale agente, delegato o fiduciario di un’altra persona») e dovrebbe vivere di vita propria rispetto alla clausola antiabuso. Lo stesso approccio interpretativo potrebbe essere invece più comprensibile se riferito alla Direttiva madre-figlia, la quale – come ricordato – non prevede la clausola del beneficiario effettivo (in tal senso Ballancin A., Direttrici evolutive della clausola del beneficiario effettivo: ritorno alle origini? in Corr. trib., 2020, 5, 478) con la conseguenza che l’applicazione della clausola antiabuso resta l’unica via percorribile dall’Amministrazione per disconoscere i benefici della Direttiva che siano stati indebitamente invocati. In effetti, nel quadro della Direttiva madre-figlia l’assenza del potere di disporre e godere del flusso reddituale transnazionale e l’impegno a retrocedere il provento entro breve termine ben possono essere interpretati come indici di una condotta abusiva, fermo restando il fatto che l’abuso deve essere provato dall’Amministrazione finanziaria; dunque, per disconoscere i benefici previsti dalla madre-figlia, non sarebbe sufficiente all’Amministrazione finanziaria dimostrare che il percettore immediato del dividendo non ne è anche il beneficiario effettivo ma occorrerebbe dimostrare l’abuso, con quel che ne consegue anche in termini di rispetto delle garanzie procedimentali imposte dall’art. 10-bis L. n. 212/2000 (come osserva Famà F., Clausola del “beneficiario effettivo” e articolazione dell’onere della prova nell’evoluzione del diritto tributario dei trattati ed europeo, in Riv. tel. dir. trib., 2021, 1, 600 questa conclusione non sembra divergere da quella proposta da Contrino A., Note in tema di dividendi “intraeuropei” e “beneficiario effettivo”, tra commistioni improprie della prassi interna e nuovi approdi della giurisprudenza europea, cit., secondo il quale dalle c.d. sentenze danesi emergerebbe una nuova nozione di “abuso del diritto” assorbente, ai fini della Direttiva madre-figlia, del concetto convenzionale di “beneficiario effettivo”: «in caso di distribuzione di dividendi intra-UE, la presenza degli elementi che indicano che la società percettrice non sia “beneficiaria effettiva” non comporta, di per sé, la negazione dei benefici della Direttiva “Madre-Figlia”; ma gli stessi costituiscono circostanze e indizi che insieme ad altri possono condurre a qualificare la società come “costruzione di puro artificio” e, dunque, a negare i vantaggi fiscali conseguiti dal gruppo di appartenenza»).

(*) Testo, con l’aggiunta delle citazioni bibliografiche, della relazione svolta dall’Autrice al Convegno “La clausola del beneficiario effettivo nel diritto tributario europeo e convenzionale”, organizzato dall’ANTI – sez. Lombardia e dal MDT dell’Università Bocconi, svoltosi il 15 novembre 2024 presso la sede dell’Ateneo milanese.

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