Riforme del(la riforma del) processo tributario: cui prodest? L’amaro caso della tutela cautelare
Di Francesco Tundo
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Abstract (*)
Viene analizzata l’attuazione del criterio direttivo di cui all’art. 19 della legge delega 9 agosto 2023, n. 111, in punto di modifiche alla fase cautelare del processo tributario. Emergono i possibili contrasti con la legge delega e i profili di incostituzionalità di una opinabile modalità di attuazione della delega, così come gli esiti probabilmente dirompenti della novella. In particolare, è oggetto di disamina l’introduzione di una forma d’impugnazione dell’ordinanza cautelare nonché l’inserimento, nel processo tributario, della possibilità per il giudice di decidere in forma di “sentenza in forma semplificata” all’esito della domanda di sospensione cautelare.
Reforms of (the reform of) the tax process: cui prodest? The bitter case of precautionary protection – The paper analyses the implementation of the criterion set forth in Article 19 of Enabling Law No. 111 of 9 August 2023, in terms of changes to the precautionary phase of the tax trial. In this regard, the paper outlines the possible contrasts with the enabling act and the Constitution; moreover, the paper outlines the disruptive and potentially deleterious outcomes of such a reform. In particular, the paper focuses on the introduction of a form of appeal against the precautionary order, as well as the inclusion, in the tax procedure, of the possibility for the judge to decide in the form of a ‘simplified ruling’ at the end of the application for a precautionary suspension.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il sistema ante riforma e il criterio direttivo individuato dalla legge delega: una soluzione (forse) superflua. – 3. L’oggetto della novella: impugnazione delle ordinanze cautelari e introduzione della “sentenza semplificata”. – 4. (Amare) riflessioni conclusive.
1. Intendo formulare alcune riflessioni in relazione ad un intervento innovatore che si rivela solo apparentemente marginale nell’economia generale del processo: mi riferisco alle modifiche alla fase cautelare approntate dal D.Lgs. n. 220/2023, di attuazione dei criteri direttivi di cui alle lett. f) e g) dell’art. 19 della legge delega n. 111 dello stesso anno.
Anticipo subito che a mio giudizio si tratta, per le ragioni che approfondirò a breve, di un intervento non solo eccentrico rispetto all’impianto generale della legge delega e ai suoi criteri direttivi, ma altresì ambiguo e potenzialmente portatore di notevoli ripercussioni all’attuale assetto del processo, peraltro su un comparto, quello appunto attinente alla fase cautelare, del quale non si sentiva un’impellente esigenza di riforma. Da ciò l’inevitabile interrogativo: cui prodest?
Ma andiamo con ordine.
Ritengo utile contestualizzare l’iniziativa in esame nel più ampio quadro dell’attuazione della legge delega per la c.d. riforma fiscale (L. 9 agosto 2023, n. 111), ormai alle battute finali. In generale, mi pare che sia possibile confermare le sensazioni già manifestate, che ho anticipato anche in un recente lavoro (Tundo F., La legge delega per la riforma tributaria e la ragionevolezza del sistema fiscale nella giurisprudenza costituzionale, in Riv. dott. comm., 2023, 3, 541).
A mio giudizio siamo dinanzi ad un complesso di misure che purtroppo non si connotano per l’auspicata coerenza organica, che avrebbe dovuto costituirne tratto distintivo, né sembrano essere parte di un progetto apprezzabile nel suo complesso. Come avevo già osservato, il tratto più evidente della delega è la carenza di quella “visione” che possa consentire al diritto tributario di (ri)trovare una coerenza sistematica; la sensazione, in altri termini, è di trovarsi dinanzi ad un vasto ed articolato insieme di previsioni mirate, dirette a taluni specifici problemi, che peraltro non sempre si è riusciti a risolvere, talvolta giungendo addirittura a peggiorare la situazione ex ante. Alcune misure, isolatamente considerate, sono meritevoli di un qualche apprezzamento, altre lo sono un po’ meno e altre ancora rischiano di costituire un vulnus, un’insidia per gli equilibri generali dell’ordinamento fiscale. Avevo da subito ipotizzato, invero, che i provvedimenti in corso di adozione non avrebbero risposto alle altisonanti enunciazioni e alle aspettative eccessivamente ottimistiche che le hanno accompagnate. Alcuni dei decreti attuativi confermano purtroppo questo timore. Del resto anche tra molti degli osservatori, operatori del settore, studiosi e commentatori che, pur con talune significative eccezioni, avevano manifestato una grande apertura di credito verso l’iniziativa nel suo complesso, inizia a serpeggiare, seppur tardivamente, una certa delusione per il risultato finale che sta ormai prendendo forma.
Si pensi, a titolo d’esempio, all’art. 19 della delega, che si riferisce testualmente alla «revisione della disciplina e l’organizzazione del contenzioso tributario»: già sul piano meramente terminologico il richiamo al «contenzioso» suscitava perplessità e strideva con la L. n. 130/2022 che recava, non a caso, «[d]isposizioni in materia di giustizia e di processo tributari». Non si tratta di un isolato lapsus calami perché l’infelice locuzione, purtroppo, è stata recepita anche nel D.Lgs. n. 220/2023, rubricato «[d]isposizioni in materia di contenzioso tributario». Le preoccupazioni che si insidiano nell’interprete sono correlate al timore che questa scelta sia deliberata, ed espressione di un obiettivo di depotenziamento della caratura giurisdizionale delle Corti di Giustizia tributaria. Ritengo si possa almeno dire che si tratta di una scelta lessicale infelice, che forse rivela un retropensiero di chi ha materialmente steso i testi normativi, verosimilmente intenzionato a correggere il rango acquisito dalla nostra giurisdizione con la riforma della L. n. 130/2022, e dare primo corpo ad un’inversione di tendenza.
Pensiamo su un piano diverso anche alla sostanziale soppressione del Garante del contribuente, laddove le anticipazioni dichiaravano intenti diametralmente opposti, che ne avrebbero dovuto determinare un irrobustimento mediante la “promozione” al rango di Authority nazionale. E ancora, alle disposizioni in materia di contraddittorio (e nello specifico all’art. 6-bis L. 27 luglio 2000, n. 212), di fatto confinato alla fase terminale dell’istruttoria procedimentale e perciò sostanzialmente reso insignificante e addirittura espressamente escluso per un vastissimo novero di atti, in via amministrativa, dall’art. 2, comma 1, D.M. 24 aprile 2024, con l’inaudita opzione dell’ “inchino” dello Statuto dei diritti del contribuente ad una fonte di rango secondario, ad una determinazione amministrativa. Per tacere del più generale annacquamento dello Statuto, mediante l’innesto di una pletora di disposizioni procedimentali che avrebbero potuto e dovuto trovare ben altra collocazione, Statuto che piuttosto avrebbe meritato un rafforzamento a fronte dell’espansione dei poteri e dei mezzi istruttori degli enti impositori rispetto al tempo in cui fu adottato.
Mi sembra che abbia preso forma, infine, un vero e proprio disallineamento tra le “promesse” della legge delega (che, come detto, a sua volta prestava già il fianco a robuste critiche) e la concreta attuazione ad opera dei decreti legislativi, fenomeno che solo in parte si è riusciti a contenere grazie agli interventi correttivi dell’ultimo minuto posti in essere in occasione del passaggio per i pareri delle Commissioni parlamentari e allo sforzo di quella parte degli studiosi e degli operatori del settore che non hanno fatto mancare la critica propositiva che, evidentemente, è riuscita a lasciare un pur minimo segno.
Mi pare, come dicevo in apertura, che si sia anche verificata la singolare circostanza per cui alcuni dei criteri direttivi che a prima vista potevano apparire tutto sommato marginali rischino di determinare ripercussioni negative all’assetto generale previgente. È il caso, questo, proprio dell’intervento apportato dal legislatore sulla fase cautelare, di cui mi accingo a dire.
2. Occorre muovere proprio dalla legge delega e dai criteri direttivi che indirizzano e circoscrivono (o, forse sarebbe meglio dire, avrebbero dovuto) l’intervento del legislatore delegato in materia di procedimento cautelare. Come anticipato, ai nostri fini rilevano i criteri direttivi di cui alle lettere f) e g) dell’art. 19, rispettivamente vòlti ad «accelerare lo svolgimento della fase cautelare anche nei gradi di giudizio successivi al primo» e a «prevedere l’impugnabilità dell’ordinanza che accoglie o respinge l’istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato». Il primo di essi si colloca dichiaratamente nel programma dell’art. 19.
Fermiamoci però un attimo e guardiamo anche alla lett. h), che prevede «interventi di deflazione del contenzioso tributario in tutti i gradi di giudizio, ivi compreso quello dinanzi alla Corte di cassazione, favorendo la definizione agevolata delle liti pendenti». Qui varrebbe la pena di spendere qualche riflessione critica in relazione alla singolare “consacrazione” (peraltro in “bianco”) di sostanziali condoni fiscali, quale che ne sia la pudìca denominazione, in una legge delega per una così ambiziosa c.d. “riforma” tributaria, ma purtroppo si rischierebbe di aprire una parentesi fuorviante rispetto al tema qui in considerazione.
Ad ogni buon conto, la scelta di accelerare lo svolgimento della fase cautelare si pone in successione con la L. n. 130/2022, che all’art. 4, comma 1, lett. f) aveva però già disposto svariate modifiche proprio all’art. 47 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Il legislatore della (precedente) riforma, in particolare, interpolando i commi 2 e 4 ed abrogando il comma 5-bis dell’art. 47, era intervenuto proprio per accelerare la fase cautelare; ciò, in particolare, inserendo un termine specifico entro il quale fissare la camera di consiglio (comma 2) e disponendo che il collegio provvedesse con ordinanza «nella stessa udienza di trattazione dell’istanza» (comma 4) e così non si riesce a comprendere per quale ragione si ritorni nuovamente su un profilo che non solo non costituisce una priorità né certamente una tra le criticità maggiori della vicenda processuale tributaria, ma soprattutto è già stato oggetto di una revisione talmente recente che non è stato ancora possibile valutarne l’efficacia.
Inoltre, il criterio di cui alla lett. g) dell’art. 19 che, come detto, prevede l’impugnabilità dell’ordinanza che accoglie o respinge l’istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato desta in sé stesso non poche perplessità. La questione, è a tutti noto, si era già posta all’epoca del D.Lgs. n. 546/1992, il quale prevedeva (almeno fino alle modifiche qui in esame) all’art. 47, comma 4, che il collegio «provvede con ordinanza motivata non impugnabile». Nel previgente assetto, l’unica ipotesi di modifica dell’ordinanza cautelare era così quella prevista dall’art. 47, comma 8, secondo il quale «[i]n caso di mutamento delle circostanze la Corte di giustizia tributaria di primo o di secondo grado presso la quale è pendente il giudizio su istanza motivata di parte può revocare o modificare il provvedimento cautelare prima della sentenza»; previsione invero certamente residuale e condizionata a requisiti assai stringenti. Non erano mancate invero critiche a siffatta scelta del legislatore, a sua volta condivisa dalla dottrina prevalente, con un dibattito cui può essere utile fare cenno, visto che il decreto delegato torna a sollevare, come vedremo, numerose questioni problematiche che erano già state prefigurate all’epoca ed erano ormai sostanzialmente sopite grazie all’assetto stabilmente (e a mio avviso efficacemente) raggiunto.
In generale, le critiche si snodavano su alcuni parallelismi tracciati fra il processo tributario e quello civile ed amministrativo, nei quali rispettivamente l’art. 669-terdecies, c.p.c., anche a seguito dell’intervento della Corte costituzionale (che con sentenza 23 giugno 1994, n. 253 aveva esteso l’applicabilità di tale tutela contro il provvedimento di rigetto dell’istanza cautelare), e l’art. 21 L. 6 dicembre 1971, n. 1034, come interpretato, anche in questo caso, dalla Consulta (Corte cost., sent. 1° febbraio 1982, n. 8), contemplavano già all’epoca forme di tutela contro i provvedimenti cautelari; sicché in quest’ottica veniva argomentato come la reclamabilità costituisse una caratteristica di ogni provvedimento giurisdizionale, che non poteva difettare pena la compressione dei citati diritti.
La Relazione al D.Lgs. n. 546/1992 precisava, in merito, che «[l’]ordinanza con la quale la commissione accoglie o respinge l’istanza è espressamente dichiarata non impugnabile, al fine di evitare ulteriori strascichi in altre sedi della questione, con tutte le aporie e gli inconvenienti pratici che già si sono potuti riscontrare nell’esperienza del processo amministrativo». Giustificazioni che non avevano però convinto appieno e, a latere delle obiezioni in ordine all’originario eccesso di delega (Consolo C., Il nuovo processo cautelare, 1998, Torino, 358), rilevanti per la disciplina vigente ante delega ma ai nostri fini di poco interesse, sono certamente più significative le critiche alla disposizione in ordine alle presunte violazioni del diritto di azione e del diritto difesa ai sensi dell’art. 24 Cost., nonché dell’art. 113 Cost. (Muleo S., La tutela cautelare, in Tesauro F., a cura di, Il processo tributario, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 1998, 875).
A questi rilievi si replicava, da parte di altra dottrina, sottolineando la mancata canonizzazione a livello costituzionale del doppio grado di giudizio e la specialità del rito tributario, nel quale il procedimento cautelare assume(va) un valore marcatamente incidentale, che veniva ulteriormente accentuato dalla inimpugnabilità dell’ordinanza cautelare. Soprattutto, e veniamo ai profili che più da vicino ci interessano, si rimarcava come tale scelta consentisse una semplificazione del processo e dei rapporti fra contribuente e Amministrazione, che si sarebbero complicati esponenzialmente in virtù dei diversi esiti dei gravami cautelari anteriormente alla decisione di merito, ad esempio in materia di riscossione frazionata (Glendi C., La tutela cautelare del contribuente nel processo tributario [articolo 47 del D.Lgs. n. 546 del 1992 e norme complementari], in Dir. prat. trib., 1999, I, 96). Ulteriore rilievo di interesse, alla luce di quanto diremo, era quello secondo il quale la scelta del legislatore voleva evitare un condizionamento del giudizio di merito, che si sarebbe realizzato, evidentemente, a causa di un’ordinanza di secondo grado sul cautelare.
La legge delega, dunque, si collocava in questo retroterra, nel quale nessuna delle soluzioni possibili era esente da problematiche di ordine teorico ed applicative e tuttavia, a ben vedere, si riferiva ad una questione che risultava, per così dire, ormai dormiente, visto che la vicenda cautelare si era stabilizzata in maniera, mi sembra, più che soddisfacente a seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, al procedimento di appello. È appena il caso di sottolineare che la legge delega avrebbe potuto, piuttosto, intervenire su alcuni punti ancora oscuri della tutela cautelare; penso, ad esempio, alla possibilità di introdurre una tutela cautelare in materia di rimborsi, tema rispetto al quale si registrano ancora in dottrina e giurisprudenza vedute non uniformi (ad esempio, cfr. in senso affermativo, CTP Bari, 25 maggio 2001 n. 113/18/01; contra, CTP Padova, 12 giugno 1998 n. 170/1/98).
Ciò detto, esaminando ora più da vicino la lett. g), la formulazione del criterio direttivo è alquanto lapidaria eppure, come vedremo a breve, il decreto legislativo se ne discosta anche significativamente.
In primis, risulta evidente una certa contraddittorietà fra le lettere f) e g) dell’art. 19: non si vede come si possa accelerare il procedimento cautelare introducendo una fase di gravame, con tutto ciò che ne consegue in termini di aggravio di lavoro da parte delle Corti di Giustizia. In questo senso la questione potrebbe ulteriormente complicarsi in virtù di quanto previsto dalla lett. l) dell’art. 19, vera “spada di Damocle” sul futuro della giurisdizione tributaria (alla quale tuttavia ancora troppo poca attenzione è stata volta nel dibattito pubblico), che impegna il Governo a «ridefinire l’assetto territoriale [delle Corti di Giustizia] anche mediante accorpamenti delle sedi esistenti»: è allora possibile che l’accorpamento o addirittura la soppressione di alcune sedi, nel solco magari una vera e propria regionalizzazione delle Corti di Giustizia tributaria di primo grado sul modello dei Tribunali Amministrativi Regionali, rischi di rendere più complicata l’attuazione del criterio di cui alla lett. g). Vedremo, inoltre, che il decreto delegato, forse nell’intento di sopperire a tale problema, introduce disposizioni a loro volta altamente discutibili.
Entrando nel dettaglio, la lett. g) si riferisce all’impugnabilità della sola “ordinanza” cautelare, non prevedendo per converso un rimedio ai decreti presidenziali di cui all’art. 47, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992; scelta verosimilmente razionale e giustificata dall’assorbimento di tale decreto nell’ordinanza collegiale di cui al comma 4. Più significativamente, la lett. g) si riferisce all’ordinanza «che accoglie o respinge» l’istanza di sospensione «dell’esecuzione dell’atto impugnato». Viene quindi contemplato un rimedio processuale nella disponibilità di entrambe le parti, escludendosi però la possibilità di impugnare l’ordinanza cautelare di sospensione degli effetti della sentenza ai sensi dell’art. 52, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992.
3. Il decreto delegato, dunque, interviene anzitutto sostituendo il secondo periodo dell’art. 47, comma 4, trasponendo in maniera abbastanza fedele la legge delega, senza determinare questioni particolari di ordine interpretativo. L’immediata comunicazione dell’ordinanza alle parti non apporta novità significative rispetto alla richiamata novella di cui alla L. n. 130/2022, mentre sono innovative le previsioni in materia di impugnabilità dell’ordinanza. Certamente ci si potrebbe interrogare, a tal proposito, intorno alla ragionevolezza della scelta di precludere l’impugnabilità dell’ordinanza cautelare della Corte di Giustizia tributaria di secondo grado; i primi commenti hanno ipotizzato che tale scelta possa essere riconducibile alla volontà di non ingolfare la Sezione tributaria della Cassazione. A mio giudizio, tuttavia, si sarebbe potuto seguire il modello dell’art. 62-bis, anch’esso modificato col decreto delegato in ottica eminentemente acceleratoria, sulla falsariga delle modifiche già apportate all’art. 47 L. n. 130/2022 e dunque indirizzando il gravame a un’altra Sezione della stessa Corte di Giustizia tributaria di secondo grado; bisogna però riconoscere che una tale scelta si sarebbe forse posta in contrasto con la legge delega che, come abbiamo detto, si riferiva unicamente alla sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato, e non della sentenza (e qui indubbiamente c’è un altro limite della delega che rimane inspiegabile).
Ad ogni buon conto, le ripercussioni derivanti dalla scelta del legislatore delegato si rinvengono nelle conseguenze che già erano state adombrate all’epoca del D.Lgs. n. 546/1992 e che risultano, come ho detto, inevitabili una volta perseguita la strada dell’impugnabilità dell’ordinanza cautelare.
Sul piano operativo, la scelta di investire le Corti di Giustizia tributaria di secondo grado del gravame sull’ordinanza cautelare rischia di causare un vero e proprio effetto domino sulle tempistiche dei giudizi in appello, che pure è stato già denunciato dal Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria, e che appare quantomeno contraddittorio con il fine acceleratorio dichiarato. Inoltre, la novella dovrebbe implicare un rafforzamento della motivazione della stessa, pena altrimenti un facile e inevitabile gravame per difetto o inesistenza di motivazione (ha ampiamente analizzato questa prospettiva Muleo S., “Sentence first, verdict afterwards”: le aporie del rito compatto nel processo tributario, in Riv. tel. dir. trib. 2024, 2, e pubblicato online il 25 luglio 2024, www.rivistadirittotributario.it). Anche qui tempi più lunghi invece che più veloci, e un appesantimento del carico di lavoro di giudici il cui organico si sta rapidamente prosciugando. E ancora, proprio questa necessità motivazionale potrebbe far emergere la rilevanza del giudicato cautelare, diventando il giudizio prognostico della cautelare più “persuasivo” per il merito – si pensi al caso di una “doppia conforme”, appunto anche ampiamente motivata; e ciò a maggior ragione nel caso in cui da tale rafforzamento della motivazione derivi anche uno sbilanciamento a favore del fumus rispetto al periculum.
Non è però nemmeno tale scelta quella che desta le maggiori preoccupazioni: pur tradendo palesemente l’impianto e le prospettive della delega, essa si traduce in un ampliamento delle prerogative delle parti, che a mio avviso rimane tuttavia puramente formale (su questo aspetto ha invece manifestato un pieno apprezzamento Pistolesi F., Le modifiche al processo tributari di merito e di legittimità, in Manzon E. – Melis G., a cura di, Il diritto tributario nella stagione delle riforme, Pisa, 2024, 61).
Mi riferisco, piuttosto, ai corollari che il legislatore delegato sembra trarne, ossia all’introduzione di un nuovo art. 47-ter. L’art. 47-ter, comma 1, primo periodo, dispone che «[e]scluso il caso di pronuncia su reclamo, il collegio, in sede di decisione della domanda cautelare, trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata ai sensi del comma 3, salvo che una delle parti dichiari di voler proporre motivi aggiunti ovvero regolamento di giurisdizione […]». D’altro canto, il nuovo comma 3 del medesimo articolointroduce nel processo tributario la nozione di “sentenza in forma semplificata”: si legge infatti che «[i]l giudice decide con sentenza in forma semplificata quando ravvisa la manifesta fondatezza, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso. La motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, a un precedente conforme».
Dobbiamo, anzitutto, evidenziare un significativo scostamento nel contenuto del decreto definitivo rispetto alla bozza inizialmente sottoposta dal Governo al Parere parlamentare (cfr. Atto del Governo n. 097. Schema di decreto legislativo recante modifiche allo statuto dei diritti del contribuente). Quest’ultima, infatti, prevedeva l’inserimento di un art. 34-bis nel D.Lgs. n. 546/1992, introducendo con una disposizione ad hoc la “sentenza semplificata” che assumeva, pertanto, applicazione trasversale (almeno) nel processo di primo grado (in maniera similare all’art. 74 c.p.a.). Ora, come detto, il decreto definitivo ha relegato tale nozione nell’art. 47-ter prevedendola, dunque, solo nell’ipotesi di definizione del giudizio all’esito della fase cautelare.
Concordo con chi (Marcheselli A., La decisione semplificata nella riforma fiscale. Pasticci vecchi e nuovi in tema di processo telematico: la digitalizzazione e il cartaceo di ritorno [Parte seconda], in questa Rivista, 2023, 2, 713) ha già intravisto in tale modifica la volontà di confinare la possibilità, per il giudice, di decidere con sentenza semplificata soltanto all’esito della domanda di sospensione; certamente, v’è da chiedersi quale motivo possa giustificare una tale scelta se, come disposto dallo stesso legislatore, la sentenza semplificata presuppone cause di applicabilità prone ad applicarsi in maniera generalizzata (i.e., manifesta fondatezza, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso). A mio giudizio, tale scelta denota, in controluce, la consapevolezza degli esiti dirompenti e potenzialmente deleteri dell’introduzione della sentenza semplificata, segnalati del resto in forma piuttosto diffusa da parte degli operatori all’indomani della pubblicazione della bozza di decreto delegato e a tutt’oggi ribadite (cfr. in merito anche la posizione dell’Unione Nazionale Camere Avvocati Tributaristi).
A pensar male, tale scelta potrebbe forse essere funzionale alla ricerca di un addentellato nella legge delega che potesse giustificare siffatto intervento. Del resto, in merito, la Relazione illustrativa giustificava l’introduzione dell’adottando art. 34-bis come «attuazione del criterio di delega volto alla semplificazione della normativa processuale», essendo l’obiettivo quello «di rendere il processo più rapido in presenza di evidenti elementi che consentono una definizione immediata del giudizio sia per questioni processuali che di merito». Ora, nella delega difettava qualsivoglia appiglio – meno che mai un preciso criterio direttivo – al quale ricondurre l’intervento proposto nella bozza: intanto, all’art. 19 si menziona la possibilità di semplificazione della normativa processuale soltanto nella misura in cui sia «funzionale alla completa digitalizzazione del processo» (segnatamente, all’art. 19, lett. b), n. 1, peraltro richiamato espressamente nella Relazione a proposito dell’art. 47-ter), mentre non v’è alcun criterio direttivo generalmente rivolto alla velocizzazione del processo tributario nel suo complesso che, quantomeno nei gradi di merito, non può certamente tacciarsi di eccessiva lentezza. Viceversa, l’aver confinato alla fase cautelare tale intervento potrebbe giustificarsi alla luce della lett. f) dell’art. 19 della legge delega, e quindi nel contesto di accelerazione della fase cautelare stessa, anche se tale possibile argomento non riesce a convincermi a fondo.
Più difficoltoso, invero, è determinare se il disposto di cui all’art. 47-ter, comma 3 sia applicabile anche alla fase di sospensiva celebrata in appello. Pur non ostando a tale conclusione la littera legis, e potendo tale ipotesi trovare applicazione anche in appello giusto il disposto dell’art. 61 D.Lgs. n. 546/1992, ragioni di tenuta del sistema imporrebbero, a mio giudizio, di escludere tale possibilità almeno con riferimento a tutti i casi in cui già in primo grado sia stata resa una pronuncia con tale modalità.
Entrando ora nel merito della novella, entrambe le previsioni s’ispirano, come si leggeva nella Relazione illustrativa alla bozza di decreto, a simili istituti già previsti, con formulazioni peraltro pressoché identiche, nel processo amministrativo, rispettivamente, agli artt. 74 e 60 D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo, c.p.a.); sarà, allora, inevitabile richiamare proprio alcune delle vicende riguardanti il processo amministrativo per tracciare alcune possibili conseguenze in parte qua del decreto. Potrebbe essere utile richiamare, pur con tutte le cautele del caso, quanto già sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza 10 novembre 1999, n. 427 ove erano state dichiarate non fondate svariate censure riguardanti l’allora vigente art. 19, comma 2, D.L. 25 marzo 1997, n. 67, secondo il quale, in taluni specifici giudizi, il TAR «chiamato a pronunciarsi sulla domanda di sospensione, può definire immediatamente il giudizio nel merito, con motivazione in forma abbreviata, quando accerta l’irricevibilità o l’inammissibilità o l’infondatezza del ricorso. Le medesime disposizioni si applicano davanti al Consiglio di Stato in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata». Giudizio da prendere cum grano salis, appunto, trattandosi, come indicato dalla Corte, di «processi amministrativi, relativi alle indicate materie, spesso contrassegnati, in passato, da una eccessiva durata di fatto degli effetti dei provvedimenti cautelari, laddove il processo poteva essere tempestivamente definito con sentenza». Pur con questo caveat, in tale occasione la Consulta ebbe a precisare – ed è questo a rilevare con riferimento all’art. 47-ter, comma 3 – che al ricorrere dei requisiti previsti dall’art. 19, comma 2, cit., il giudice definiva il giudizio con una «sentenza che ha tutte le caratteristiche, per il tipo di cognizione piena e gli effetti, della ordinaria sentenza che chiude il processo, escluso ogni carattere di procedura sommaria»: come a dire, insomma, che una semplificazione della motivazione non esclude la pienezza della cognizione del giudice. Del resto si è sottolineato, in aderenza a tale impostazione, come sia la completezza del decisum, piuttosto che l’estensione della motivazione, a risultare risolutiva ai fini della corretta definizione del giudizio (Gallo C.E., Art. 74, in Quaranta A. – Lopilato V., a cura di, Il processo amministrativo, Milano, 2011, 585).
Tornando alla nostra c.d. riforma, il “trapianto”, sic et simpliciter, di disposizioni proprie del processo amministrativo in quello tributario, come il succitato art. 47-ter, costituisce chiaramente un’operazione delicata e che non si presta a facili automatismi, tenuto anche conto del fatto che il codice del processo amministrativo disciplina minuziosamente la fase cautelare, a differenza del D.Lgs. n. 546/1992. L’art. 47-ter presenta, in questo senso, alcune anomalie che riflettono una stesura alquanto approssimativa, come il termine di venti giorni che decorre dall’ultima notifica del ricorso che ha senso esclusivamente nel processo amministrativo, visto quanto disposto dall’art. 55, comma 5, c.p.a., certamente non in quello tributario. Ancora, mentre l’art. 55, comma 5, c.p.a. dispone per il cautelare amministrativo un termine ad hoc per il deposito di memorie e documenti prima della camera di consiglio, tale specifica previsione non è presente nell’art. 47 D.Lgs. n. 546/1992. Sicché, sebbene sia per prassi ritenuto ammissibile il deposito di memorie e documenti anche prima dell’udienza cautelare nel processo tributario, sarebbe stato forse opportuno, unitamente alla previsione dell’art. 47-ter, disciplinare puntualmente anche quest’ultimo profilo.
Più a monte, va osservato che se la scelta del legislatore fosse in ogni caso dettata, come già rilevato con riferimento all’art. 74 c.p.a. (Montefusco R., La sentenza in forma semplificata, in Sassani B. – Villata R., a cura di, Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, 1143), dalla volontà di non voler aggravare inutilmente la macchina processuale e le parti di oneri economici e temporali ultronei, nel caso in cui l’esito del giudizio emerga per tabulas dagli atti processuali, sarà necessario capire quale sia il costo, in termini di sommarietà della cognizione, di una tale opzione.
In questo senso, il legislatore delegato chiama infatti le Corti ad un difficile bilanciamento fra le esigenze di accelerazione del processo e di tutela delle prerogative delle parti; soltanto nel caso in cui le ulteriori attività processuali dovessero risultare davvero superflue sarà possibile ricorrere allo strumento in questione. Anche con riferimento all’art. 60 c.p.a., del resto, parte della dottrina aveva ventilato la violazione del regole del giusto processo e della parità delle armi, che verrebbero meno giusta la riduzione delle attività processuali esplicabili dalle difese (Travi A., Osservazioni a Cons. Stato, Sez. VI, sent. 26 giugno 2003, n. 3852, e Sez. IV, sent. 12 giugno 2003, n. 3312, in Foro it., 2003, III, 681, ritiene invece che non vi sia alcuna lesione delle prerogative delle parti Vernile S., Art. 60, in Garofoli R. – Ferrari G., Codice del processo amministrativo, Roma, 2012, 1044); criticità, tuttavia, che la stessa Consulta ha ritenuto essere recessive, seppure con riferimento ad una norma ben più settoriale.
Può essere utile richiamare, a mo’ di monito, quanto precisato dalla Consulta nella già citata sentenza 10 novembre 1999, n. 427: anche nell’esercitare la facoltà in esame, il giudice dovrà «seguire i normali canoni di condotta e di cognizione del processo», essendo chiamato a valutare «la sussistenza delle condizioni ordinarie per l’emissione di una sentenza che definisca il giudizio, come l’integrità del contraddittorio, la completezza delle prove necessarie per la pronuncia che deve essere emessa e gli adempimenti processuali previsti anche per la tutela del diritto di difesa di tutte le parti». Soltanto al ricorrere di tali condizioni, evidentemente, sarà legittima un’«alternatività rispetto alla pronuncia sulla domanda di sospensione, che rimane quindi superata ed assorbita dalla definizione della lite, che assicura […] una effettività e completezza di tutela giurisdizionale, con esercizio dello stesso potere di cognizione del giudizio ordinario».
La dottrina, similmente, ha rilevato come si dovrebbe trattare non tanto di una semplificazione della decisione, quanto solo e soltanto della motivazione, che dovrebbe assumere le forme di una motivazione per relationem alle cause di “innesco” identificate dal legislatore (Marcheselli A., La decisione semplificata nella riforma fiscale: panacea o virus letale? [Parte prima], in questa Rivista, 2023, 2, 709, rilevano poi il rischio di una sentenza “inesistente” Glendi C., Riforma del contenzioso fiscale: troppe irricevibili “escrescenze” nel decreto attuativo, in Dir. prat. trib., 2024, 1, I, 164; Piantavigna P., Sentenze tributarie in forma semplificata: perché non è una buona novella, in Dir. prat. trib., 2024, 1, I, 167). Similmente, il Consiglio di Stato ha tenuto a precisare che «[l]a sentenza in forma semplificata non costituisce per il giudice un metodo alternativo o, peggio ancora, spicciativo o frettoloso di risolvere la controversia, ma rappresenta, anche in sede cautelare, un modo ordinario di definizione del giudizi» (Consiglio di Stato, sez. III, sent. 20 ottobre 2021, n. 7045).
Se, forse, i profili di incostituzionalità della disposizione potrebbero risultare recessivi (ma l’alea a mio avviso rimane tutta, a causa della connotazione eccentrica del nuovo istituto rispetto all’impianto processuale tributario), resta però da vedere come tale innovazione verrà concretamente applicata nel contesto tributario, avendo il legislatore delegato comunque reso più sottile il confine fra una sentenza caratterizzata da una motivazione “semplificata” ma legittima e una ove manca anche il “minimo costituzionale” affinché la pronuncia risulti non impugnabile (critici in merito, con riferimento alla bozza di decreto delegato, anche Muleo S. – Vozza A., Modifiche al processo tributario: più ombre che luci, in il fisco, 2023, 47/48, 4464). Non può escludersi, in questo senso, un paradossale effetto di ingolfamento dovuto alla profusione di ricorsi in appello o, ancora peggio, in Cassazione, qualora si reputi applicabile la sentenza in forma semplificata anche al secondo grado di giudizio, per difetto di motivazione, il che si porrebbe ancora una volta in contrasto con gli intenti dichiarati del legislatore. E dunque, ancora una volta, una contraddizione rispetto al fine dichiarato della “riforma”.
Ancora più in generale, non può sottacersi il timore di chi ritiene – e mi ascrivo indubbiamente tra questi- che tale istituto possa indurre ad una abdicazione al ricorso alla tutela cautelare da parte dei contribuenti i quali, piuttosto che affrontare lo spettro di una sentenza a sorpresa, potrebbero rinunciare a formulare le istanze ex art. 47 D.Lgs. n. 546/1992, accettando evidentemente le conseguenze pregiudizievoli di tale scelta rispetto alla riscossione provvisoria (in senso similare cfr. le riflessioni di Glendi C., Dal “processo” al “contenzioso”: la contro-riforma fiscale, in Ipsoa Quotidiano, 10 febbraio 2024) ovvero, circostanza forse ancora più grave, rimettersi alla … benevolenza dell’Amministrazione per una sospensione non giurisdizionale. Anzi, non mi sento di escludere che proprio questo fine sia quello, non dichiarato, che si è voluto perseguire per mano dei materiali estensori della novella. E aggiungo che sarebbe stato, forse, più opportuno consentire l’attivazione dell’art. 47-ter soltanto su intesa concorde delle parti, piuttosto che rimettere tale scelta alla discrezionalità dell’organo giudicante, onde assicurarsi che non vi fosse effettivamente necessità di ulteriori attività processuali. In merito, non sembra agevole immaginare conclusioni differenti pur valorizzando la parte in cui la disposizione obbliga il giudice a sentire «sul punto le parti costituite»: se è certamente possibile immaginare un’opposizione in caso di presenza di eventuali cause ostative “codificate” alla decisione in forma semplificata – i.e., proposizione di motivi aggiunti o di regolamento di giurisdizione – è invece certamente arduo immaginare una facoltà di vero e proprio “veto” delle parti che possa entrare nel merito della correttezza di tale scelta da parte del giudice, ossia sulla sussistenza delle cause di «manifesta fondatezza, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso».
4. Diventa insomma inevitabile domandarsi se davvero si sentisse il bisogno di implementare un’impugnazione delle ordinanze cautelari o se, piuttosto, l’intervento in esame abbia costituito l’occasione per far retrocedere il baricentro del processo e assottigliarne la caratura giurisdizionale, riportando il sistema verso un equilibrio più orientato ad enfatizzare i poteri dell’Amministrazione. Alle incertezze e preoccupazioni derivanti dai criteri direttivi predisposti dalla legge delega, insomma, il decreto ne aggiunge altre e di ben altra portata, dimostrando come la concreta attuazione di una disposizione apparentemente innocua, come l’art. 19, comma 1, lett. g), possa arrivare ad insidiare l’intero assetto del giudizio tributario. Occorre chiedersi, ancora, se il legislatore delegato fosse consapevole di tali conseguenze e, noncurante, abbia accettato il rischio di sacrificare le prerogative delle parti private nel nome di un’ulteriore (davvero così necessaria di per sé?) accelerazione delle tempistiche processuali. Una certa consapevolezza potrebbe trasparire dal “passo indietro” rispetto all’introduzione dell’art. 34-bis e, dunque, dell’introduzione in forma “generalizzata” della sentenza semplificata, ma che sarebbe tuttavia stata ancora meno sostenibile al test dell’eccesso di delega e forse messo ancora più in luce le criticità che ho evidenziato.
(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 1/2025 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
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