Motivazione e prova, nel procedimento e nel processo tributario. Il giudice tributario come garante della funzione tributaria

Di Alberto Marcheselli -

Abstract (*)

Il contributo affronta le questioni concernenti il rapporto tra la motivazione e la prova nel provvedimento di accertamento tributario e quello tra la motivazione di tale provvedimento e l’oggetto del processo tributario, alla luce delle modifiche normative introdotte in attuazione della riforma.


Motivation and proof, in tax proceedings and trials. The tax judge as guarantor of the tax function – The contribution addresses the issues concerning the relationship between the motivation and the evidence in the tax assessment notice, as well as that between the motivation of this notice and the object of the tax process, in light of the regulatory changes introduced to implement the reform.

Sommario: 1. Premessa: motivazione, fondamento, prova. – 2. L’indicazione delle prove come contenuto della motivazione. – 3. Motivazione dell’atto e poteri del giudice. – 4. Oggetto del processo e accertamenti parziali integrativi e autotutela in malam partem. – 5. Oggetto del processo e riforma dell’onere della prova.

1. Oggetto delle mie riflessioni odierne saranno due temi: il primo è quale rapporto vi sia tra la motivazione e la prova nel provvedimento di accertamento tributario. Il secondo sarà quale rapporto vi sia tra la motivazione del provvedimento di accertamento tributario e l’oggetto del processo tributario e l’area dei poteri di cognizione del giudice.

Preventivamente, tuttavia, è il caso di soffermarsi, sia pur brevemente, sul corretto inquadramento di tre concetti.

Il primo concetto è quello di motivazione, il secondo quello di fondamento, il terzo è quello di prova.

Si tratta di una puntualizzazione che potrebbe apparire banale ma non lo è.

La motivazione, innanzitutto, è il discorso giustificatorio, si tratta cioè degli enunciati che spiegano quali sono le ragioni di diritto e di fatto alla base del provvedimento. Si tratta, evidentemente, di una definizione valida per la motivazione di qualsiasi tipo di provvedimento, sia esso amministrativo o giurisdizionale.

Ogni provvedimento, sia amministrativo sia giurisdizionale, infatti, consiste sempre nella applicazione di una regola giuridica a un caso concreto: si tratta cioè sempre di individuare la regola applicabile a un fatto che deve essere accertato.

La motivazione consiste, allora, in un insieme di enunciati che spiegano le ragioni di fatto e le ragioni di diritto che sorreggono il dispositivo. La motivazione è, pertanto, un elemento formale, cioè un requisito che riguarda il come deve essere steso l’atto. Ma formale, è ovvio, non significa secondario o irrilevante: la motivazione è, in effetti, un elemento essenziale dell’atto e, se essa manca o non è conforme ai requisiti legali, l’atto è annullabile.

Uno dei problemi più gravi e ricorrenti nella pratica è stabilire quali siano i requisiti legali della motivazione.

Essi possono esprimersi in modo sintetico, oppure in modo analitico, oppure in negativo. In modo sintetico, la motivazione deve essere comprensibile e condivisibile: la motivazione assolve la sua funzione ed è quindi elemento essenziale di un provvedimento valido se si comprende e, una volta che è stata compresa, se convince.

In modo analitico, essa è conforme al modello legale se esiste e coerente è sufficiente.

In modo negativo, una motivazione è conforme al modello legale se non è afflitta da uno dei vizi individuati dalla giurisprudenza, che sono quello di motivazione inesistente, apparente, contraddittoria, perplessa, alternativa o, semplicemente, insufficiente

A un altro livello opera, invece, il fondamento dell’atto.

Esso è costituito dalle ragioni che lo rendono giusto. Poiché il provvedimento, come sopra si diceva, applica una regola a un fatto, il fondamento è sia fondamento di fatto, cioè quali sono i fatti su cui si provvede, sia fondamento di diritto, cioè la regola che si applica al fatto su cui si provvede.

Il rapporto tra motivazione e fondamento è del tutto chiaro: la motivazione è, per così dire, la finestra sul fondamento, cioè è la parte dell’atto che spiega il fondamento, di fatto e di diritto.

I due concetti sono collegati ma distinti: a rigore un provvedimento può essere fondato ma non motivato, quando esso sia giusto ma non spieghi o non spieghi adeguatamente le ragioni per cui è giusto. Ed è vero anche il contrario, anche se è un’ipotesi che può verificarsi più raramente: un provvedimento potrebbe essere perfettamente motivato ma la motivazione non corrispondere alla realtà, perché ad esempio si afferma di fondarsi su dei fatti che giustificherebbero il provvedimento se sussistenti, ma non si sono verificati nella realtà.

La distinzione tra motivazione e fondamento, che concettualmente è semplice, non è in pratica assolutamente banale né ovvia. Accade infatti assai frequentemente, negli atti di parte nel processo tributario, che i due concetti vengano confusi e sovrapposti: per esempio si affermi che il provvedimento non è motivato perché non sussistono le ragioni a suo fondamento. Tale sovrapposizione e confusione non è soltanto inopportuna sul piano concettuale, ma anche sul piano pratico, perché travestire da vizio di motivazione una censura sul fondamento significa travestire da vizio di legittimità un vizio che, se attiene al fondamento di fatto del provvedimento, è un vizio di fatto che non può, per esempio, essere oggetto di esame in sede di Cassazione. Inoltre, sono evidentemente diversi i parametri: per giudicare un vizio di motivazione si deve fare riferimento alla coerenza e alla concludenza degli enunciati, mentre per verificare il fondamento bisogna fare un ragionamento diverso, e cioè se i fatti enunciati nella motivazione giustifichino il provvedimento, ovvero se i fatti di cui alla motivazione possano ritenersi sussistenti. Si tratta di ragionamenti e verifiche differenti.

Su un piano ancora differente opera poi la prova.

La prova è evidentemente collegata al fondamento, e, più precisamente, soltanto al fondamento di fatto del provvedimento, perché altro non è che lo strumento che serve per convincersi dell’esistenza del fondamento di fatto.

Meno evidente è il collegamento tra prova e motivazione.

Esso si traduce, sostanzialmente nell’interrogativo se la motivazione debba dare conto anche della prova.

Ma, giunti a questo punto, abbiamo terminato le premesse e possiamo passare a trattare la prima delle due questioni oggetto delle odierne riflessioni.

2. Il primo dei due problemi che intendo affrontare in queste mie riflessioni è, in realtà, assai semplice da impostare e si riassume in un interrogativo lineare: la motivazione deve indicare anche le prove?

La domanda si potrebbe anche rovesciare: perché essa non dovrebbe?

In effetti, un giurista abituato a fermarsi alla lettura del dato normativo poteva nel regime previgente avere anche qualche dubbio.

La normativa in materia di IVA, all’art. 56 del decreto IVA, prevede esplicitamente che la motivazione debba dare atto degli elementi probatori. Identicamente, l’art. 16 del decreto sanzioni prevede che la motivazione del provvedimento di irrogazione delle sanzioni debba dare atto degli elementi probatori a sostegno.

Diversa, sul piano letterale, è invece la disciplina della motivazione in materia di imposte sui redditi, laddove si fa riferimento al fondamento di fatto e alle ragioni giuridiche, senza espressa menzione degli elementi probatori.

Partendo da un’interpretazione a contrariis e ragionando sul fatto che la norma sulla motivazione in materia di imposte sui redditi non menziona gli elementi probatori si potrebbe giungere alla conclusione che l’indicazione delle prove non sia necessaria nella motivazione degli atti di rettifica o di accertamento d’ufficio in materia di imposte sui redditi. E immaginare un ipotetico regime differenziato tra IVA e sanzioni, da un lato, imposte sui redditi dall’altro. Una cosa simile al regime del contraddittorio prima della riforma.

Ma, passando da un’interpretazione meramente letterale – cieca – a un’interpretazione sistematica e ragionevole, la domanda che bisogna formularsi è: ma tale differenziazione di regime quanto al contenuto delle motivazioni avrebbe senso, potrebbe giustificarsi?

E la risposta appare palesemente negativa. Per una serie di ragioni che mi paiono piuttosto evidenti, almeno tre.

Innanzitutto, nell’attuale disciplina, il provvedimento di accertamento è addirittura un provvedimento con un’efficacia costitutiva provvisoriamente esecutiva. Si tratta di un atto amministrativo che, sul piano della efficacia, è equiparabile addirittura a una sentenza provvisoriamente esecutiva, ancorché non emanato da giudici. E come è possibile giustificare che si possa “condannare” senza l’indicazione delle prove? Potrebbe il giudice civile condannare al pagamento di una somma di denaro senza spiegare perché si è ritenuto che sussistesse obbligo e si è ritenuto che vi sia stato un inadempimento? Potrebbe il giudice penale condannare per omicidio, addirittura con una sentenza provvisoriamente esecutiva, senza spiegare perché il maggiordomo sia stato ritenuto colpevole di aver ucciso la contessa?

La seconda ragione è che non pare che potrebbe ritenersi rispettato il diritto effettivo all’azione e difesa in giudizio, se non fosse reso conoscibile all’interessato il fondamento probatorio dell’atto: come potrebbe egli scientemente esercitare la valutazione e la scelta sull’agire o meno in giudizio, se non conosce quali sono le prove a suo carico?

E ancora, quale contraddittorio effettivo mai potrebbe ritenersi essersi effettuato in sede amministrativa, se le prove potessero essere tenute nascoste, e tenute nascoste fino addirittura a dopo, cioè addirittura fino a dopo l’emanazione dell’atto che non sarebbe costretto a scoprirle?

Ne consegue, a mio avviso, che, in realtà, il problema del rapporto tra motivazione a prova doveva avere una soluzione facile già nel regime previgente e, cioè, dovesse risolversi nel senso che le prove devono essere indicate nella motivazione in tutti i provvedimenti.

Del resto, anche alcune segnalate incertezze della giurisprudenza sul punto erano più apparenti che reali. Ad esempio, la sentenza n. 25321/2024 della Suprema Corte parrebbe dalla massima affermare il contrario di quanto fin qui espresso e, cioè, la non necessità dell’indicazione delle prove nella motivazione.

Se, però, si legge la motivazione della sentenza si verifica che si tratta di un caso in cui erano contestati dei costi asseritamente inesistenti. In tal caso, in effetti, quantomeno nel regime previgente la L. n. 130/2022, la prova dell’esistenza dei costi doveva essere data dal contribuente: se la prova deve essere data dal contribuente è evidente che il provvedimento non deve essere motivato quanto alle prove della inesistenza, perché è il contribuente a dover provare la esistenza. È del tutto coerente che in questo particolare caso la motivazione non debba contenere l’indicazione di una prova, per il semplice fatto che non spetta all’Amministrazione.

Tale assetto risulta ormai solidamente confermato dalla riforma dello Statuto del contribuente, che prevede ora espressamente che ogni provvedimento impugnabile deve essere motivato con l’indicazione delle prove a suo fondamento.

Tale disciplina è stata da taluno ritenuta innovativa e sproporzionata.

Che non sia innovativa risulta dalle considerazioni fin qui svolte.

Resta da dare atto della ritenuta sproporzione: taluno ritiene che l’indicazione delle prove nella motivazione dell’atto renderebbe la motivazione dell’atto eccessivamente complessa fino al punto – si è detto da qualcuno – di paralizzare l’attività amministrativa.

Tale obiezione è, probabilmente, frutto di un equivoco: né prima né dopo la riforma dello Statuto nessuno aveva mai ipotizzato che l’indicazione delle prove nella motivazione coincidesse con la integrale produzione delle fonti di prova all’interno del corpo dell’atto.

È infatti necessario e proporzionato molto meno e, cioè, che la motivazione dell’atto consenta di identificare quali sono le fonti di prova utilizzate a suo fondamento, che tali fonti di prova siano conosciute o, se non conosciute, immediatamente accessibili al destinatario e che si spieghi perché da quelle fonti si può trarre il convincimento che fonda l’atto.

In concreto, ad esempio in una contestazione in materia di frodi IVA, non sarebbe certamente necessario che la motivazione riproduca l’immagine scannerizzata delle fatture contestate, che potrebbero essere migliaia, ma semplicemente che esse siano indicate e che sia indicato il perché e se si reputano corrispondenti operazioni che non esistono.

Residua un interrogativo, e cioè se le carenze di contenuto della motivazione siano irrimediabili, se cioè non possa essere rimediate in giudizio, ma questo è l’oggetto della seconda riflessione.

3. Anche la seconda questione su cui voglio intrattenermi, in realtà può essere riassunta in un semplice interrogativo, che corrisponde anche in questo caso a un problema eminentemente pratico: ma il giudizio si deve svolgere sui fatti e sulle prove di cui alla motivazione dell’atto o su altro, o anche su altro?

Qualcuno ha dei dubbi, ingenerati dalla espressione impugnazione-merito.

Che è una formula molto fortunata ma che, come tutte le formule molto utilizzate finisce per talvolta potersi sfilacciare in significati impropri.

In effetti, la formula impugnazione merito nasce da una premessa concettuale chiara e adamantina: il diritto tributario è un diritto amministrativo speciale.

È diritto amministrativo perché si tratta dell’esercizio di poteri autoritativi, ma è un diritto amministrativo speciale perché, di regola, non vi è discrezionalità: non si tratta di decidere se fare un ospedale, una scuola o una strada, e dove, ma di applicare il tributo, previsto indefettibilmente dalla legge, alla ricchezza, accertata oggettivamente.

A fronte di questa particolarità, lo studioso del diritto amministrativo osserva che, non essendoci spazio per applicare poteri discrezionali riservati alla Pubblica Amministrazione il giudice può tranquillamente esaminare anche il merito, a differenza che nel diritto amministrativo dove può esserci una riserva alla discrezionalità della Pubblica Amministrazione, che costituisce un semaforo rosso per i poteri del giudice.

Impugnazione merito, allora significa una cosa molto semplice e, cioè, che il giudice può anche verificare se effettivamente la ricchezza contestata nel provvedimento di accertamento esista veramente o esista soltanto in parte, e quale prelievo per legge a tale ricchezza debba applicarsi.

Ma che il giudice tributario possa occuparsi del merito della pretesa tributaria, perché non c’è riserva per valutazioni discrezionali riservate alla Pubblica Amministrazione, non significa affatto che il merito che il giudice tributario può e deve esaminare possa essere diverso da quello contenuto nel provvedimento di accertamento.

Si tratta di due profili e due problemi che operano su piani completamente diversi.

E, del resto, la giurisprudenza ormai sostanzialmente consolidata della Suprema Corte di Cassazione aveva già stabilito il principio, innumerevoli volte ripetuto, secondo il quale l’oggetto del processo tributario è la pretesa tributaria, per come cristallizzata nel provvedimento di accertamento, nella motivazione del provvedimento di accertamento, nei limiti di quanto messo in discussione dai motivi del ricorso del contribuente. È appena il caso di ricordare poi, anche, che una poco nota sentenza della Corte costituzionale, la sentenza n. 98/2014 in materia di mediazione, aveva, altresì, riconosciuto che l’unico regime conforme a Costituzione è quello nel quale l’oggetto del giudizio è circoscritto al perimetro e alla portata del fondamento della pretesa tributaria per come veicolata nel provvedimento di accertamento.

Ne consegue un inquadramento assolutamente nitido di quella che è la funzione della giurisdizione tributaria: la giurisdizione tributaria è una giurisdizione sovrana di controllo dell’esercizio del potere amministrativo tributario da parte delle Agenzie fiscali e degli enti impositori. Si tratta del controllo di legittimità e di merito di come viene esercitata la funzione amministrativa tributaria.

È appena il caso di notare che si tratta di una soluzione, avallata dalla Suprema Corte e dalla Corte costituzionale, assolutamente perfetta anche sul piano sistematico e costituzionale. La Pubblica Amministrazione deve essere imparziale e svolgere perfettamente le sue funzioni nella fase amministrativa. Imparzialità significa – come dicono gli amministrativisti – completa acquisizione degli interessi, cioè esercizio diligente e completo del potere, anche sotto il profilo dell’attività di indagine e di accertamento in fatto.

I poteri delle Pubbliche Amministrazioni, in generale e, in particolare, i poteri delle Agenzie fiscali e degli enti impositori sono delle funzioni: poteri vincolati al raggiungimento di un interesse pubblico e di esercizio doveroso. Se si consentisse di integrare in giudizio, supplendo a una negligente attuazione della funzione amministrativa, si consentirebbe un esercizio non imparziale della medesima funzione.

Su questo assetto, che in realtà era già consolidato, è semplicemente intervenuta, in modo notarile, la riforma dello Statuto.

Essa prevede all’art. 7, comma 1-bis che i fatti e le prove costi nella motivazione dell’atto a fondamento del medesimo non possono cambiare in giudizio. Tale norma riecheggia la tradizionale distinzione tra c.d. mutatio libelli e c.d. emendatio libelli. È consentito in giudizio precisare il fondamento dell’atto, muoversi, cioè, nell’ambito della specificazione di fatti e prove già enunciati all’interno della motivazione, rimanere, per usare una metafora che mi è cara, sotto il tetto della motivazione. Non è invece consentito sostituire modificare o integrare il fondamento, di fatto e probatorio, dell’atto, rispetto a quello indicato nella motivazione, edificare, cioè, fuori dalla copertura della motivazione dell’atto.

La riforma dello Statuto non ha fatto altro che prendere atto degli approdi della giurisprudenza di legittimità e costituzionale e ricucirla all’interno del sistema in modo corretto, coerente e perfetto.

4. Tale coerenza e perfezione si apprezza sotto due profili.

Il primo è nel rapporto con accertamenti parziali, integrativi e autotutela in malam partem.

La norma si completa e si salda perfettamente col sistema anche nella parte in cui, dopo aver precisato che non è consentito, successivamente alla emissione dell’atto e alla sua motivazione, sostituire e modificare o integrare fondamento e prove, fa salva l’ipotesi della emissione di un nuovo atto, se non sono maturate decadenze ed è previsto dalla legge.

In buona sostanza, il regime introdotto dallo Statuto ribadisce che il giudizio si svolge sulla pretesa per come è veicolata nell’atto e nei limiti dei motivi di impugnazione in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione citata sopra, ma resta salva la possibilità, per le Agenzie e gli enti impositori, se previsto dalla legge e se non sono maturate decadenze, di adottare un nuovo atto.

Questa parte della disciplina ha generato qualche perplessità perché da taluno non è stato immediatamente compreso a cosa si riferisca il legislatore quando il riferimento a tali nuovi atti.

In realtà, la soluzione è molto semplice, e ancora una volta coerente e fa riferimento al fatto che nel sistema tributario generale è prevista, entro certi limiti, la possibilità di adottare accertamenti integrativi: quando sopravviene la conoscenza di nuovi elementi è consentito, nei termini di decadenza, adottare un atto integrativo del precedente.

Ma, soprattutto, è assai diffusa l’ipotesi dell’emissione di accertamenti parziali. L’accertamento parziale è un accertamento che non pregiudica l’esercizio dell’ulteriore funzione accertativa, non esaurisce l’accertamento della fattispecie. La giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha inoltre, proprio assai di recente, stabilito anche che è di regola possibile anche l’adozione di interventi di autotutela sostitutiva da parte delle Agenzie fiscali degli enti impositori, laddove autotutela sostitutiva può significare anche il ritiro, sempre che non siano maturate decadenze, dell’atto precedente e la sua sostituzione di un nuovo atto, fondato su diversi elementi, o anche sulla rimeditazione dei medesimi e anche in senso peggiorativo.

Sotto questo profilo, la disciplina dello Statuto non fa che raccordarsi al regime vigente e cioè ribadire che il processo “si fa sull’atto” ma che resta ferma la possibilità – fuori dal processo e nei limiti di legge e di sistema – di adottare altri atti.

Si può discutere de jure condendo della desiderabilità di un tale regime e si potrebbe anche auspicare – come io auspico – che effettivamente la regola sia quella della unicità del provvedimento di accertamento e di un rigoroso – e non solo tendenziale – riconoscimento della regola del ne bis in idem accertativo, ma, allo stato attuale della legislazione, la regola non è questa: sono ammessi gli accertamenti parziali che possono sempre essere seguiti dal nuovo esercizio di attività accertativa nei limiti del termine di decadenza. E anche gli accertamenti non parziali sono sempre integrabili se sussistono i presupposti degli accertamenti integrativi, accanto ai poteri di autotutela.

Il sistema, in definitiva ha una sua perfetta coerenza: l’Amministrazione agisce e il giudice controlla

Quindi, se mi si consente una metafora che uso spesso coi miei studenti e che vuole essere leggera ma non irrispettosa, il giudice non è il gatto che insegue i topi della casa, laddove i topi sono gli evasori fiscali, non è il super gatto affiancato al gatto delle Agenzie e degli enti impositori, ma è il padrone della casa che controlla che i … gatti in servizio nell’abitazione abbiano lavorato bene e abbiano preso effettivamente i topi, e non gli innocenti criceti che passavano di lì.

5. Il secondo aspetto sotto cui si apprezza la perfezione e coerenza della riforma dello Statuto è nel rapporto con la innovazione recata con la introduzione dell’art. 7, comma 5-bis del decreto sul contenzioso tributario, laddove si dice che l’Amministrazione prova in giudizio il fondamento della pretesa.

Anche qui, a prima lettura, qualche commentatore ha inizialmente equivocato il senso della norma, intendendo l’espressione “l’Amministrazione prova in giudizio” come possibilità di portare le prove a fondamento della pretesa per la prima volta durante il giudizio tributario.

La disciplina, in realtà, dice una cosa completamente diversa e perfettamente coerente col sistema, e cioè che le prove, che devono essere indicate nella motivazione e accessibili alla parte, se no l’atto è invalido, devono essere portate anche in giudizio perché il giudice le valuti.

L’Amministrazione deve avere le prove per convincersi della necessità e del fondamento del suo provvedimento ma, se il provvedimento è contestato, deve, ovviamente, portare le prove anche in giudizio perché il giudice eserciti il suo controllo.

La disposizione, oltre che sistematicamente coerente è anche tutt’altro che ovvia e inutile.

Ci sono casi nella prassi in cui può capitare che le prove non siano portate in giudizio? Eccome, molto spesso nei casi di frode IVA si fa riferimento al contenuto di segnalazioni a carico di fornitori di fornitori del contribuente, o di fornitori di fornitori di fornitori del contribuente, che vengono richiamate ma non vengono portate in giudizio. Ma, se queste sono fonti di prova, non possono essere nascoste al giudice che deve poterle verificare e valutare.

Che questo sia il significato a disposizione, del resto, è anche confermato, se ve ne fosse bisogno, anche da un argomento letterale. La stessa norma stabilisce che, se la prova manca o è insufficiente, il giudice annulla l’atto.

Il fatto che si preveda l’annullamento dell’atto quando in giudizio manca la prova conferma che le prove sono un requisito della validità dell’atto. Se fosse consentito provare il fondamento della pretesa soltanto in giudizio, quando la prova mancasse, il giudice non annullerebbe l’atto (che anche senza prove sarebbe stato valido) ma si sarebbe previsto che esso si limiti a dichiarare non fondata la pretesa.

Ne resta confermato che le prove devono assistere e accompagnare il provvedimento, come del resto è assolutamente ovvio dal punto di vista della ragionevolezza e del sistema, che tali prove non possono essere modificate integrate o sostituite in giudizio, e che devono essere diligentemente sottoposte al vaglio dell’autorità giudicante.

Ne risulta un sistema proporzionato, efficiente, concentrato, e conforme alla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione e della Corte costituzionale.

(*) Relazione al corso dedicato ai giudici tributari: “I percorsi della Riforma Tributaria. La dimensione sostanziale e processuale delle garanzie del contribuente” tenutosi l’11 dicembre 2024 presso l’Aula Magna della Scuola nazionale della Amministrazione – Presidenza del Consiglio dei Ministri.

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