EDITORIALE – Verso un nuovo paradigma di sindacato di costituzionalità delle agevolazioni? Osservazioni a Corte cost. 19 novembre 2024, n. 182

Di Francesco Farri -

I. La sentenza della Corte costituzionale n. 182/2024 offre spunti di riflessione di particolare interesse in materia di sindacato di costituzionalità sulle agevolazioni.

Il caso da cui essa prende le mosse risulta indubbiamente marginale, sul piano sistematico. Si tratta del contributo di costruzione dovuto, in base alla legge della Provincia Autonoma di Trento per il governo del territorio, n. 15/2015, per la realizzazione di interventi edilizi che comportano un aumento del carico urbanistico. La legge esenta dal contributo gli interventi di costruzione della prima casa di abitazione, escludendo che possa considerare tale quella costruita da soggetto che già possegga personalmente, o il cui coniuge possegga, altra dimora sita nella medesima provincia. Un soggetto si è visto negare dal comune l’esenzione dal contributo perché altro immobile nella medesima provincia era posseduto, non già dal coniuge, ma dal convivente more uxorio: il comune ha ritenuto, in altre parole, di applicare l’esclusione dall’esenzione anche a persone non sposate, ma semplicemente conviventi. Il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, ritenendo di non poter aderire all’interpretazione data dal Comune perché la lettera della norma non prendeva in considerazione questa ipotesi, ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma stessa, in relazione agli artt. 3 e 31 della Costituzione, nella misura in cui, per come formulata, finiva per trattare in modo deteriore le coppie sposate rispetto a quelle semplicemente conviventi.

La sentenza della Corte costituzionale ha ritenuto contrario al principio di ragionevolezza il presupposto dell’agevolazione in sé considerato, ma ha dichiarato inammissibile la questione «in quanto le modalità con cui potrebbero essere superati i vulnera che si sono evidenziati possono essere molteplici», secondo uno schema decisorio di illegittimità rilevata ma non dichiarata sovente utilizzato dalla Corte (cfr., ad esempio, sent. n. 120/2021, ma anche sent. n. 358/1995).

Nonostante la marginalità dell’istituto giuridico specificamente oggetto del giudizio, nel motivare la propria decisione la Corte ha compiuto affermazioni di carattere generale che meritano di esser fatte oggetto di particolare attenzione, poiché presentano una portata innovativa potenzialmente significativa.

La circostanza che, come specificato al par. 6.1. della sentenza, il contributo in esame non abbia, secondo la giurisprudenza amministrativa, natura tributaria, ma di mera entrata patrimoniale, oltre a essere in sé opinabile, non incide sulla portata delle argomentazioni poste a base della sentenza che, non a caso, richiama a sostegno della motivazione una serie di pronunce attinenti anche a prelievi aventi natura indubitabilmente tributaria. Conferma, questa, che sotto i profili considerati valgono considerazioni similari per i due ambiti.

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II. Da alcuni anni, le agevolazioni siedono stabilmente “sul banco degli imputati”, poste sotto la lente di ingrandimento sotto molteplici angolazioni.

Sul versante internazionalistico, le agevolazioni fiscali vengono guardate di cattivo occhio per la loro attitudine a essere strumentalizzate in contesti di pianificazione fiscale aggressiva, quando non addirittura di abuso del diritto. Da ultimo, per fare un esempio, sarà la selezione delle agevolazioni fiscali da considerare nell’ambito dell’effective tax rate a costituire banco di prova fondamentale del funzionamento della global minimum tax.

Sul versante europeo, le agevolazioni fiscali disposte dai legislatori degli Stati membri sono sottoposte alla doppia tanaglia dell’integrazione negativa e del divieto di aiuti di Stato. Il divieto di discriminazione per cittadinanza previsto dai Trattati è stato dalla Corte di Giustizia trasformato in divieto di “discriminazione” per residenza, mediante una delle tante operazioni ultra vires perpetrate dalla Corte di Giustizia, risalente addirittura alla sentenza Schumacker del 14 febbraio 1995, C-279/93, parr. 27-2, e ormai costituente diritto vivente autoalimentantesi: ciò con la conseguenza di subordinare le scelte di politica fiscale del legislatore nazionale in materia di agevolazioni a fenomeni di estensione della platea che ne moltiplicano l’impatto finanziario e, così, limitano indirettamente in modo significativo il margine di utilizzo di tali misure da parte dei legislatori nazionali. La Commissione e la Corte di Giustizia, poi e come noto, hanno rivendicato un ruolo di sindacato sulle agevolazioni fiscali come possibile strumento di aiuto di Stato: sindacato divenuto sempre più penetrante, fino a configurarsi come una sorta di surrettizio ravvicinamento pretorio delle legislazioni degli Stati membri al di fuori di limiti e procedure previsti dai Trattati. Ciò che da ultimo ha indotto la stessa Corte di Giustizia a una – pur parziale e tardiva – resipiscenza e a un recupero di barlumi di self-restraint nel caso Fiat Chrysler Finance dell’8 novembre 2022, Grand Chambre, C-885/19P e C-898/19P.

Sul versante interno, le agevolazioni fiscali sono da tempo croce e delizia dei legislatori di ogni colore politico, combattuti fra l’utilizzo dell’agevolazione come (legittimo) strumento di consenso politico e il “mito” del “riordino” del loro complesso e stratificato novero, ingolosente più per recuperare tesoretti di gettito da impiegare a copertura di nuove e ulteriori politiche fiscali che non per ragioni di chiarezza sistematica.

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III. La costante collocazione sul “banco degli imputati” e le molteplici tensioni di contrapposti interessi che attorno a esse ruotano hanno finito per trasfigurare, sul piano normativo, struttura e funzione delle agevolazioni di natura tributaria. Tale trasfigurazione a sua volta ha modificato di molto il volto del sistema tributario nel suo complesso.

Dapprima, alcuni importanti sgravi sono stati trasformati da deduzioni dall’imponibile a detrazioni dall’imposta. Ciò con intento di equalizzare al ribasso l’incidenza dello sgravio sull’imposta dovuta a prescindere dalla ricchezza del soggetto, sterilizzando così la maggior incidenza che lo strumento della deduzione produce sui redditi più elevati in funzione della maggior aliquota marginale a essi applicabile nell’ambito di una imposta progressiva.

Il passaggio ulteriore è stata la trasformazione di alcune detrazioni in crediti d’imposta più o meno liberamente circolabili sul mercato. Esperienza, questa, “sublimata” dal “perverso” meccanismo della cessione dei crediti da Superbonus. Anche qua, con l’intento, astrattamente nobile, di consentire anche agli incapienti di fruire di agevolazioni delle quali, altrimenti, non avrebbero potuto beneficiare.

Questo glissement progressif dell’agevolazione tributaria, da forma di riduzione del prelievo tributario a forma di sussidio erogativo, non ha condotto soltanto a una trasfigurazione ermeneutica delle agevolazioni tributarie quali spese fiscali (tax expenditures). Sta comportando più radicalmente una trasfigurazione del carattere di personalità delle imposte a cui i principali sgravi afferiscono, in particolar modo l’IRPEF, e, per questa via, a una progressiva trasfigurazione del carattere di personalità del prelievo tributario in generale e, forse, del modo stesso di intendere il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.

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IV. In questo quadro, è particolarmente importante considerare la posizione che la Corte costituzionale sta assumendo in materia e valutare le implicazioni sistematiche che da essa potrebbero provenire.

Per le fattispecie agevolative, il sindacato di uguaglianza appare particolarmente rilevante: ciò non soltanto perché, in generale, il principio di uguaglianza «condiziona tutto l’ordinamento nella sua obbiettiva struttura» (Corte cost. n. 25/1966), ma anche e specificamente perché le agevolazioni si sostanziano proprio nella previsione di un trattamento differenziato per situazioni che il legislatore considera obiettivamente diversificate.

Sebbene la qualificazione di norma agevolativa sia spesso utilizzata in senso ampio, essa dovrebbe riferirsi propriamente alle norme che negano l’applicazione del tributo (o prevedono una applicazione del tributo diversificata e meno onerosa) relativamente a fattispecie che, invece, avrebbero ordinariamente dovuto ricadere nel presupposto del tributo stesso. Peraltro, la differenza rispetto ai casi di esclusione, che invece delimitano la definizione del presupposto (in questo senso trattandosi di concetto affine a quello di “agevolazione strutturale” utilizzato dal par. 4.1. della sent. n. 120/2020), risulta scolpita sul piano concettuale, ma può apparire sfumata nei vari casi concreti. Ad esempio, l’esclusione da IMU dell’immobile adibito a prima casa è stata considerata dalla Corte alla stregua di una agevolazione “in senso proprio”, nell’ambito di una sentenza positivamente “storica” (sent. n. 209/2022, par. 7). Tuttavia, si potrebbe anche sostenere che essa consiste in una “esclusione” in senso proprio, che concorre a delineare il presupposto del tributo, se si accede a una lettura costituzionalmente orientata del presupposto stesso che, come tale, escluda le ipotesi di fattispecie riconducibili al minimo vitale.

Di là da questi aspetti qualificatori, può dirsi assodato come alla base dell’agevolazione vi sia la formulazione di un giudizio di diversità fra fattispecie similari, che il legislatore ha ritenuto di tradurre in una differenziazione di trattamento impositivo. Tale giudizio di diversità rientra nelle più alte prerogative politiche del legislatore, finché non esondi in una violazione del principio di cui all’art. 3 Cost.

È proprio nella demarcazione del perimetro di questo sindacato di rispetto dell’art. 3 Cost. che la posizione della Corte costituzionale sembra negli ultimi anni in corso di evoluzione, ampliandone lo spettro e rendendolo più intenso.

Tradizionalmente, il sindacato della Corte sulle norme agevolative guardava essenzialmente ai casi in cui il legislatore avesse trattato in modo diverso, ovvero avesse omesso di trattare in modo uguale, situazioni che, assumendo come parametro di comparazione la ratio della norma agevolativa, dovevano ritenersi obiettivamente uguali. In questa linea si sono poste, in particolare, le sentenze che hanno dichiarato incostituzionali le agevolazioni fiscali sul divorzio nella parte in cui non trattavano nella stessa identica modalità agevolata anche la separazione giudiziale (Corte cost., n. 176/1992 e n. 154/1999). Sentenze che, come noto, non si sono poste seriamente il problema preliminare della ragionevolezza della ratio delle norme agevolative in sé considerate, se, cioè, fosse in sé giustificata la concessione di agevolazioni fiscali collegate alla fase di dissoluzione della famiglia, anziché alla fase della sua “formazione”, secondo quanto indicato dall’art. 31 Cost.

Al contrario, da alcuni anni la Corte ha rivendicato il proprio ruolo e intensificato il sindacato riguardante proprio e direttamente la scelta di fondo compiuta dal legislatore nel prevedere, per certe species di fattispecie astrattamente ricadenti nel presupposto di un tributo, un trattamento differenziato che le escludeva in tutto o in parte dal prelievo ordinariamente applicabile sul genus presupposto.

Nella sentenza n. 120/2020 tale espansione di sindacato si è tradotta in un severo monito al legislatore, nel senso di ridurre l’ambito applicativo di una esenzione che il legislatore stesso aveva da anni introdotto: monito che, sia detto per inciso, il legislatore ha ritenuto di non recepire in sede di riforma del sistema dell’imposta sulle successioni e donazioni. Si era di fronte, in quella sentenza, a un ampio obiter dictum, che non smentiva la bontà della ratio dell’agevolazione, ma ne metteva in discussione le modalità di strutturazione, qualificando quindi la formulazione normativa come «in parte disallineata rispetto alla finalità, in sé certamente meritevole di tutela» (par. 4.4.). Ciò che tuttavia non inficiava il ragionamento nitidamente svolto nel resto della sentenza per negare, nel merito, che ricorresse per il caso sollevato dal giudice ad quem una di quelle tradizionali violazioni di omesso pari trattamento agevolativo per situazioni astrattamente assimilabili.

Nella sentenza n. 182/2024, invece, la Corte è andata oltre, dedicando la motivazione a spiegare le ragioni della irragionevolezza della norma gravata, relegando ad argomentazioni secondarie la trattazione della specifica questione sollevata dal giudice ad quem, ed evitando di sollevare di fronte a se stessa la questione di costituzionalità dell’intera norma agevolativa solo perché da essa sarebbe derivata l’esigenza di una sistemazione complessiva del quadro normativo in cui la norma gravata si inseriva, che soltanto un intervento complessivo del legislatore nella sua discrezionalità poteva affrontare.

Si è, quindi, andati dritti al cuore della norma agevolativa, per giudicarne la ratio e affermare che essa non presentava meritevolezza.

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V. L’espansione del sindacato della Corte a questo aspetto appare innovativa e, come tale, deve essere vagliata con particolare attenzione.

Il giudizio di costituzionalità di una norma agevolativa si può estendere fino al punto di negare la ragionevolezza di un trattamento agevolativo per determinate fattispecie soltanto laddove esse non siano in alcun modo oggettivamente differenziabili rispetto a quelle cui si collega il prelievo ovvero laddove l’elemento di differenziazione sia manifestamente irrilevante per l’ordinamento.

Un sindacato che andasse oltre rispetto a tale perimetro impingerebbe in modo eccessivo nelle scelte politiche del legislatore.

La sentenza n. 182/2024 sembra aver obiettivamente spostato troppo in avanti i paletti del controllo di costituzionalità della norma agevolativa considerata.

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VI. La sentenza muove dalla premessa che non possa corrispondere a un apprezzabile interesse pubblico, ma soltanto a pura e semplice attribuzione di un “privilegio” personale (parr. 7.1. e 7.2.), la scelta di un ente impositore di esentare dal contributo di costruzione l’edificazione di nuovi fabbricati da adibire a prima casa di abitazione. La Corte giudica infatti la norma agevolativa «senza alcuna prospettiva teleologica riconducile all’attuazione di altri principi costituzionali o al bene comune, creando arbitrari privilegi che non aiutano la coesione sociale».

Tale conclusione, tuttavia, appare controvertibile.

L’incentivazione all’edificazione di nuovi fabbricati per la dimora dei nuclei familiari che decidono di costituirsi sul territorio della provincia o di trasferirsi in esso sembra, infatti, corrispondere a una scelta politica tanto precisa, quanto legittima, ancorché naturalmente opinabile, al pari di ogni scelta politica.

Si pensi che, per incentivare il popolamento di zone rurali, alcuni Stati offrono addirittura compensazioni in denaro a chi trasferisce in esse la propria dimora. Anche il sistema italiano conosce sistemi di incentivazioni per il popolamento delle aree rurali. La circostanza che la provincia di Trento, fra le ultime in Italia per densità abitativa, abbia ritenuto di incentivare in questo modo l’incremento del proprio patrimonio abitativo sembra quindi corrispondere a un obiettivo, non solo legittimo, ma anche razionale.

Non appare, peraltro, dirimente il dato, evocato dalla Corte (parr. 6.2 e 7), che nessuna altra Regione abbia ritenuto di introdurre simili forme di incentivazione, in termini di esenzione dal contributo di costruzione. Se si pensa, poi, che il legislatore nazionale ha per anni addirittura pagato integralmente – o, meglio, addirittura più del costo, al 110% – i lavori di ristrutturazione edilizia degli immobili privati, mediante l’istituto del Superbonus, davvero non si vede come l’intervento legislativo trentino possa ritenersi irrazionale e asistematico.

Il vero è che quanto costituisce “interesse pubblico” o “bene comune” (par. 7.2.) è, e non può non essere, il legislatore a definirlo, costituendo il cuore della sua funzione politica.

La Corte si è quindi spinta troppo avanti nel negare che alla base dell’agevolazione in esame potesse esservi un “interesse pubblico” e nel negare, quindi, che essa corrisponda a una ratio apprezzabile per l’ordinamento.

Il problema si era, per vero, già manifestato in occasione della sentenza n. 120/2020, dove, a titolo d’esempio, la Corte (par. 4.4.) si era spinta a compiere valutazioni economiche sulla circostanza che l’esenzione da imposta sulle successioni e donazioni dei trasferimenti d’azienda nei confronti dei figli, favorendo «una concentrazione della ricchezza», avrebbe ostacolato «la mobilità socio-economica e l’uguaglianza delle opportunità di partecipazione sociale»: considerazioni, queste, opinabili sul piano tecnico e, comunque, attinenti a valutazioni del sistema economico che rientrano nelle prerogative dell’autorità politica.

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VII. In secondo luogo, la sentenza sembra assumere come presupposto, più o meno implicito, che le agevolazioni fiscali sarebbero giustificate essenzialmente in situazioni di “fragilità”, ossia per contribuenti in condizioni di disagio economico: «ad aggravare l’irragionevolezza sta, peraltro, la circostanza che il legislatore provinciale non ha attribuito alcun rilievo a una situazione di fragilità dell’aspirante al beneficio, che non è difatti limitato alle sole persone meno abbienti» (par. 7.1.).

La Corte, correlativamente, sembra ritenere irrazionale far gravare sulla fiscalità generale oneri che vadano a beneficio di soggetti economicamente abbienti: «proprio perché l’esenzione non è strutturata (ad esempio, mediante la previsione di un requisito reddituale) in modo da interessarsi realmente di situazioni di fragilità, […] rimane evidente l’irrazionalità della normativa in esame, che finisce, comunque, per porre a carico della fiscalità generale, e quindi anche delle persone a basso reddito, il costo determinato dalle costruzioni» (cfr. sempre par. 7.1.).

Non sembra tuttavia necessario, sul piano costituzionale, limitare le agevolazioni fiscali ai soggetti meno abbienti.

Se una fiscalità generale esiste, infatti, è grazie ai contribuenti economicamente abbienti, che con il pagamento delle loro imposte consentono di finanziare gli interventi pubblici a beneficio della collettività, in generale, e delle persone meno abbienti, in particolare.

Se, quindi, il legislatore decide di bilanciare gli interessi pubblici prevedendo che una data agevolazione fiscale spetti a prescindere dalla capacità economica del beneficiario, si tratta di una scelta politica pienamente legittima e insindacabile sotto il profilo della legittimità costituzionale.

Il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., infatti, impone ai più ricchi di contribuire più degli altri alla realizzazione degli interventi pubblici, ma non offre alcuna indicazione su come debba essere declinato in concreto tale maggior concorso: ciò rientra nella piena discrezionalità del legislatore. Recenti studi hanno dimostrato che lo Stato sociale viene finanziato per la larga maggioranza da parte di soggetti economicamente abbienti, che corrispondono a una fetta largamente minoritaria dei fruitori dei servizi pubblici che essi stessi finanziano (cfr. Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate 2024, ove si evidenzia altresì che la costante tendenza a collegare le agevolazioni ai sussidi reddituali, «lungi dal far emergere i redditi e aumentare l’occupazione, ‘incentiva’ a dichiarare il meno possibile»). Se il legislatore ritiene di trattare ai fini di alcune tasse i soggetti abbienti alla pari dei meno abbienti non arreca alcun vulnus al principio di solidarietà: anzi, restituisce a chi ha pagato per tutti una parte dei servizi che ha contribuito a rendere possibili.

In altre parole, non si può ritenere che la parametrazione degli interventi pubblici a favore della persona al reddito, al patrimonio, all’I.S.E.E. o a qualsivoglia altro indicatore economico costituisca un requisito costituzionalmente necessario. Si tratta unicamente di un criterio di ripartizione di risorse scarse, rimesso sia nell’an dell’utilizzo che nel quantum della determinazione alla più ampia discrezionalità del legislatore.

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VIII. Quanto sopra osservato vale non soltanto con riguardo all’art. 2 Cost., ma anche con riguardo all’art. 53.

Il diritto vivente ha (opinabilmente) escluso la natura tributaria del contributo oggetto del giudizio e, in ogni caso, la giurisprudenza costituzionale ha in prevalenza ritenuto applicabile il principio di capacità contributiva alle sole imposte e non anche alle tasse. Coerentemente con tali assunti, la sentenza n. 182/2024 non ha evocato l’art. 53 nella propria motivazione.

Nondimeno, valgono anche al riguardo le considerazioni sopra svolte.

La Corte negli ultimi anni ha sovente rinnovato la valorizzazione del principio di effettività della capacità economica espressa dai fatti posti a presupposto di norme in materia di finanza pubblica. Ciò sia nell’ambito di sentenze in materia di imposizione tributaria, dove è stata delimitata l’affermazione contenuta in precedenti sentenze, secondo cui «ai fini della nozione giuridica di reddito occorre far capo a ciò che viene, nei limiti della ragionevolezza, qualificato per tale dal legislatore» (sent. n. 410/1995), per affermare che, quanto meno in materia di reddito d’impresa, il presupposto viene configurato in termini di “reddito netto”, con la conseguenza di dichiarare incoerenti le norme che senza valida ragione si discostavano da tale paradigma (sent. n. 262/2020). Sia in un contesto più ampio, dove, a fronte di una interpretazione che rimetteva integralmente alla discrezionalità del legislatore la determinazione del quantum dell’agevolazione o della prestazione di finanza pubblica erogativa (cfr., ad esempio, sent. n. 134/1982), è pervenuta a sindacare in concreto l’effettiva idoneità della prestazione a realizzare gli interessi sostanziali per cui è stata prevista (sent. n. 152/2020, par. 3.3.).

Questo pregevole percorso di valorizzazione della molteplicità di sfaccettature di cui si compone il principio di capacità contributiva, tuttavia, non deve condurre a una necessaria parametrazione alla ricchezza del soggetto della generalità degli istituti tributari, in una sorta di pan-redditualizzazione del sistema tributario.

Vi sono tributi, specialmente configurati in termini di tassa, nell’ambito dei quali l’elemento della ricchezza del soggetto passivo non viene strutturalmente in rilievo: essi rispondono a una manifestazione di capacità contributiva diversa dal reddito o dal patrimonio e, correlativamente, non è costituzionalmente necessario introdurre elementi reddituali o patrimoniali nella relativa applicazione o nella declinazione di norme agevolative riguardanti il tributo stesso.

In questo senso, l’inserimento nel par. 7.1. dell’inciso parentetico “ad esempio” appare provvidenziale per “relativizzare” il discorso della Corte e privarlo di quel carattere assertivo che, altrimenti, avrebbe manifestato sul punto irragionevolezza.

Anche nell’ambito della stessa imposta sul reddito, riqualificare le agevolazioni come tax expenditures e poi limitarle ai casi di soggetti con reddito basso non risulta costituzionalmente necessario, neppure laddove si intenda valorizzare la portata sostanziale del principio di capacità contributiva come esternazione di una forza economica idonea al pagamento del tributo.

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IX. Sotto altro profilo, la sentenza adombra un ulteriore argomento al par. 7.1.: posto che i comuni trentini e la Provincia autonoma di Trento beneficiano di trasferimenti statali, il minor gettito del contributo di costruzione derivante dalla concessione dell’agevolazione in discorso finirebbe in ultimo per gravare su un sistema di fiscalità generale – quello statale – diverso da quello della comunità –provinciale – che ha deciso di non applicare il tributo in alcuni casi.

Il ragionamento sembra, tuttavia, inficiato da una commistione di piani.

Il problema prospettato dalla Corte si sarebbe verificato nel caso in cui un ente diverso dallo Stato avesse unilateralmente applicato un’agevolazione non consentita a un tributo imposto da una legge statale o il cui gettito fosse comunque destinato in tutto o in parte allo Stato. Tema, questo, in qualche modo sotteso al lungo contenzioso costituzionale sulle esenzioni dalla tassa automobilistica (cfr., da ultimo, Corte cost. n. 122/2019).

Non è questo, tuttavia, il caso di specie. Qua la provincia autonoma accorda una agevolazione su un contributo da essa stessa imposto e del cui gettito essa stessa è beneficiaria. Perciò, il rischio che l’agevolazione venga posta a carico della fiscalità generale statale, ossia anche di soggetti totalmente estranei all’interesse pubblico perseguito dalla norma stesa, non esiste o, più correttamente, non costituisce implicazione diretta e necessaria della norma agevolativa stessa.

Tale ipotetico rischio, pertanto, non può costituire argomento idoneo a supportare un giudizio di incostituzionalità.

Semplicemente, la reazione giuridica appropriata per ovviare al rischio che, eventualmente, la Provincia autonoma trasli indirettamente sulla fiscalità generale le proprie scelte di politica fiscale, aumentando la richiesta di trasferimenti allo Stato per ovviare alla perdita di gettito derivante dalla concessione dell’agevolazione, è negare l’incremento dei trasferimenti finanziari.

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X. In questo quadro, passa quasi in secondo piano la questione da cui l’ordinanza di rimessione alla Corte ha preso le mosse, ossia se fosse legittimo o meno limitare l’esclusione dall’esenzione dal contributo ai soli i casi in cui un altro immobile nella medesima provincia fosse posseduto dal coniuge del soggetto interessato, e non anche dal convivente more uxorio.

Anzitutto, conviene precisare che non risulta affatto costituzionalmente necessitata l’equiparazione del coniuge alla persona unita civilmente, come invece sembra assumere per implicito la Corte al par. 5.1. Già nella sentenza n. 209/2022 la Corte aveva d’ufficio esteso il ragionamento, richiesto e valevole per i coniugi, anche nei confronti delle parti di un’unione civile, senza peraltro che ve ne fosse alcun bisogno sul piano processuale e sistematico. Questa forma di automatica assimilazione è ripetuta nella sentenza in esame. Sennonché, è bene ricordare che lo stesso comma 20 dell’art. unico della L. n. 76/2016 stabilisce che «le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso» a una precisa condizione: «al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile».

Ora, in tutta franchezza non pare che le agevolazioni fiscali rispondano al «fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile».

È pertanto un fuor d’opera il richiamo, contenuto anche nella motivazione della sentenza, al comma 20 della L. n. 76/2016.

Si pone, semmai, un problema di giudizio di uguaglianza ma, al riguardo, non può che risuonare il monito della stessa Corte costituzionale, la quale nella sent. n. 138/2010 ha chiaramente affermato che «le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio». Posizione, questa, non smentita dalla giurisprudenza successiva, neppure successiva alla L. n. 76/2016, e, anzi, confermata dalla consolidata giurisprudenza della CEDU (cfr., da ultimo, Grand Chambre, 17 gennaio 2023, Fedotova et al. c. Russia, par. 188).

Venendo al tema dei conviventi more uxorio, cui la questione di legittimità costituzionale specificamente si riferisce, appare in verità evidente che la situazione in cui essi si trovano in relazione all’agevolazione in discorso è manifestamente diversa rispetto a quella dei coniugi.

La preordinazione alla provvisorietà che l’ordinamento associa al rapporto di convivenza, infatti, è tale da non giustificare la preclusione della fruizione dell’agevolazione dal contributo di costruzione a un soggetto perché già dispone di un’abitazione il soggetto al momento convivente. Tale rapporto, infatti, potrebbe cessare di giorno in giorno senza particolari formalità. Conseguentemente, in un caso del genere risulta strutturalmente ricorrente la ratio agevolativa della norma in esame, come sopra delineata. Si tratta, come ben si vede, di un istituto giuridico dalla ratio ben diversa rispetto a quella dell’impresa familiare, collegata all’attività lavorativa, su cui la Corte è intervenuta con la recente sent. n. 148/2024.

Il problema per cui la norma agevolativa, per come configurata, finisce per discriminare i coniugi rispetto ai semplici conviventi, dunque, deve essere risolto in senso opposto a quello prospettato dal giudice rimettente, ossia a quella che la Corte chiama – per giustamente escluderla – «parificazione verso il basso».

Deve essere, cioè, risolto espungendo il requisito di esclusione dalla fruizione dell’agevolazione per il caso in cui il coniuge già possegga un’abitazione nella provincia che ha adibito a prima casa d’abitazione. Il ragionamento corretto, in altre parole, è quello che ricalca i principi affermati dalla sentenza n. 209/2022, secondo cui, se i coniugi hanno effettiva necessità di dimorare in immobili diversi, ancorché non legalmente separati o divorziati, l’ordinamento non può pregiudicarli, se la diversità di dimora è effettiva.

Allo stesso modo, come appare evidente, deve essere risolto l’identico problema che si pone in relazione al requisito di cui alla lett. c) del comma 1 della nota II-bis all’art. 1 della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986, in materia di agevolazione prima casa.

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XI. La sentenza in commento segna, dunque, un cambio di passo significativo nella declinazione dell’intensità del sindacato di costituzionalità sulle agevolazioni: attrae al giudice costituzionale una valutazione sulla meritevolezza dell’interesse pubblico cui l’agevolazione si ispira ancor più penetrante rispetto a quella, già fin troppo ampia, inaugurata dalla sent. n. 120/2020; avvia il giudice costituzionale sul sentiero di una asserita necessaria correlazione fra agevolazione e situazioni di debolezza economica del beneficiario che non trova, in verità, un addentellato costituzionale; sovrappone il piano dell’autonomia impositiva a livello regionale o provinciale autonomo con quello dei trasferimenti finanziari fra Stato e Regioni o Province autonome.

In una parola, sembra superare i limiti entro i quali soltanto la discrezionalità e responsabilità politica del legislatore deve operare.

Se questa tendenza della Corte costituzionale a espandere in maniera così penetrante il sindacato sulle agevolazioni fiscali dovesse consolidarsi, per l’istituto giuridico dell’agevolazione fiscale, già compresso – come fin dapprincipio rilevato – a causa del congiunto operare del diritto internazionale tributario, del diritto europeo e delle esigenze di gettito, lo spazio operativo diverrebbe davvero esiguo.

Eppure, l’agevolazione fiscale risulta uno dei più importanti, e forse degli ultimi, strumenti in mano al legislatore per poter compiere scelte di politica fiscale tributaria.

In un contesto in cui molti Stati europei, quelli dell’Eurozona, fra cui l’Italia, hanno abdicato alla possibilità di compiere scelte in materia di politica monetaria, la politica fiscale rimane l’unica leva a disposizione del legislatore per compiere scelte di politica economica. Ogni limite alla manovrabilità di tale leva provoca dunque conseguenze particolarmente rilevanti sull’effettiva possibilità di realizzare la volontà del popolo sovrano in quel fondamentale ambito che è la vita economica della comunità.

Nei confronti delle agevolazioni, rischiano di essere controproducenti tanto un egalitarismo giacobino, sul modello europeo, quanto un irrigidimento del vaglio di ragionevolezza, che sindachi oltre lo stretto indispensabile la discrezionalità di cui in materia deve godere il legislatore.

Non è tagliando o imbrigliando le agevolazioni che si rende il sistema fiscale più giusto ed equo.

Al contrario, lo si rende più povero, meno sussidiario, meno plurale. In definitiva, meno equo.

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