RECENTISSIME DALLA CASSAZIONE TRIBUTARIA – Cass., 30 settembre 2014, n. 36456 – Nuove riflessioni sul danno che l’evasione cagionerebbe all’Amministrazione finanziaria
Di Adriana Salvati
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La massima della Suprema Corte (*)
La Rubrica è normalmente dedicata all’esame di recenti pronunce della sezione tributaria della Cassazione, ma, in questo caso, si è inteso dare spazio ad una pronuncia della sezione feriale in tema di risarcimento del danno per le interessanti implicazioni sul versante fiscale.
La questione specificamente esaminata dalla Corte attiene, invero, alla risarcibilità del danno in favore dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS) derivante dallo sviamento e turbamento subito durante l’attività di accertamento contributivo svolta dall’Ente, ma la decisione si basa su quanto già emerso in ambito tributario con riferimento al danno subito dall’Amministrazione finanziaria in conseguenza dell’evasione operata dal contribuente.
La Cassazione dà atto dell’esistenza di due diversi orientamenti di legittimità sulla questione, di cui il primo teso a riconoscere il diritto al danno patrimoniale dell’Amministrazione rappresentato dallo sviamento e turbamento dell’attività di accertamento tributario (cfr. Cass. n. 35729/2013; n. 35868/2002) e il secondo a circoscrivere questa possibilità solo ai casi in cui l’attività del contribuente determini un danno concreto e specifico, ulteriore rispetto a quello costituito dal costo della normale attività istituzionale (Cass. n. 52752/2024). Di questi orientamenti la Corte ritiene preferibile il secondo e tanto in ragione del rispetto dell’esigenza di carattere costituzionale di concretezza del pregiudizio, posto a fondamento della responsabilità civile da reato.
Secondo questa prospettiva, il criterio discretivo, cui fare riferimento, sarebbe quello dello scostamento dell’attività funzionale effettivamente svolta rispetto a quella ordinaria, sicché l’Ente subirebbe un danno funzionale, allorquando le attività poste in essere per il recupero del dovuto venissero a collocarsi al di fuori di una “normale attività istituzionale”: in sostanza, il quantum dei reati realizzati dal contribuente comporterebbe la necessità di avviare una serie di procedure, volte a smascherare gli ingenti meccanismi fraudolenti attivati, di modo che l’attività di accertamento e controllo sarebbe ben più consistente rispetto al consueto svolgimento dell’ordinario, con conseguente danno in capo all’Ente.
Nel caso in esame, l’organo accertatore era stato costretto ad una complessiva verifica di ogni singolo illecito, dovendosi considerare l’operatività di un’associazione a delinquere, con la costituzione di numerose società fittizie, intestate a prestanomi, non dotate di autonomia gestionale propria, ma utilizzate al solo fine di creare contabilmente ingenti crediti di imposta fittizi, derivanti da costi inesistenti.
La quantità e la gravità dei reati avrebbero cagionato i laboriosi controlli eseguiti e il dispendioso carico, cui l’ente è stato soggetto nella ricostruzione dell’intero apparato tributario, giustificherebbe ampiamente il risarcimento in via equitativa del danno – determinato in misura modesta – derivante dallo sviamento dell’attività amministrativa condotta.
Ecco, allora, che il danno causato dall’evasione, che integra gli estremi di un reato, non coinciderebbe semplicemente con il tributo evaso, dovendo necessariamente consistere in un pregiudizio ulteriore e diverso, connesso alla necessità di porre in essere complessi e straordinari poteri di indagine.
Il (tentativo di) dialogo
La sentenza si inserisce in un filone di pronunce che intende valorizzare il concetto di danno funzionale subito dall’Amministrazione e che, in tale progressivo lavoro, prova ad individuarne presupposti e limiti. Essa si colloca in quella prospettiva asseritamente più restrittiva, che ravvisa il danno da evasione solo nei casi in cui l’attività costituente reato, posta in essere dal contribuente, determini un danno concreto e specifico, ulteriore rispetto al costo della normale attività istituzionale. Eppure, sebbene la pronuncia sembri sottintendere una lettura più attenta alla necessità di un “concreto pregiudizio”, in effetti conferma una tendenza evolutiva che, sostanzialmente, individua nell’evasione un danno in re ipsa per l’attività amministrativa.
Come noto, questa ipotesi è stata più volte verificata dalla giurisprudenza penale che, in diverse occasioni, ha ritenuto che la commissione di un reato tributario possa cagionare un danno risarcibile per l’Amministrazione finanziaria, quanto meno tutte le volte in cui non è più recuperabile l’imposta evasa proprio per effetto del suddetto reato (cfr. ex multis Cass. pen, 22 aprile 1991, n. 5554; Cass. pen., 20 maggio 2014, n. 52752; Cass. civ.). Sul punto, sono già intervenute anche le Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 12 luglio 2022, n. 29862) che hanno opportunamente distinto l’ipotesi del danno da reato commesso dallo stesso contribuente da quella del danno da reato commesso dal terzo. Nel primo caso, il danno non potrebbe coincidere con l’imposta non versata dall’evasore, atteso che il credito accertato può essere coattivamente riscosso, e neanche con il ritardo nell’adempimento, compendiato negli interessi moratori, e andrebbe, comunque, esclusa la configurabilità di un danno da turbamento dell’azione amministrativa, atteso che la funzione di accertamento è espressamente deputata al recupero dell’evasione fiscale.
Nel secondo caso, invece, attinente al reato commesso dal terzo, occorrerebbe ancora distinguere l’ipotesi in cui le somme evase, in ragione dell’opera del terzo, restano accertabili ed esigibili da quella in cui l’esazione è divenuta impossibile o difficilmente realizzabile. Ebbene, se l’evasione è ancora recuperabile, non si potrebbe ipotizzare alcun danno; se, invece, l’esazione è divenuta impossibile, allora si potrebbe riscontrare un danno da lesione del credito, sicché il terzo potrebbe essere chiamato a risarcire il danno da perdita del credito tributario, dimostrando che, in assenza della condotta illecita, l’Amministrazione avrebbe potuto recuperare il proprio credito dal contribuente, e tanto in aggiunta ad eventuali ulteriori danni, ivi inclusi i danni non patrimoniali.
Rispetto a tale pronuncia, quella in esame opera un’inversione di rotta e prospetta la possibilità di un risarcimento del danno, sia pure in misura contenuta, anche nel caso in cui l’evasione, in uno al comportamento penalmente rilevante, sia stata realizzata dallo stesso contribuente: a fondamento della ricostruzione, vi sarebbe la constatazione di una sorta di sviamento “quantitativo” della funzione di accertamento, causata dalla complessità dei reati posti in essere dal contribuente. Più sono complesse le condotte evasive costituenti reato e più divengono laboriose e impegnative le indagini e le attività amministrative: il maggior impegno derivante dal reato, allora, integrerebbe gli estremi di un danno risarcibile.
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La pronuncia desta numerose perplessità, che attengono sostanzialmente ad una sovrapposizione di regole e principi che trascurano la specificità della materia.
Il ragionamento sul danno ulteriore rispetto al credito non soddisfatto spontaneamente risente inevitabilmente di logiche civilistiche estranee al sistema di accertamento e riscossione delle imposte che, indipendentemente dalla sussistenza o meno di reati tributari, è oggetto di una specifica disciplina di settore, ben diversa da quella di carattere civilistico che informa l’azione di risarcimento danno.
In primo luogo, va considerato che l’adempimento, anche coattivo, dell’obbligazione tributaria non è connesso alla sussistenza della colpevolezza e al riscontro di un danno.
In secondo luogo, il sistema di attuazione di imposta è strutturalmente articolato in modo da garantire il controllo dell’inadempimento con poteri non comparabili a quelli che competono al creditore privato, nel diverso sistema della responsabilità civile.
E ancora, in ambito tributario, sono predeterminate le conseguenze patrimoniali a carico del contribuente e derivanti dal mancato tempestivo versamento dei tributi dovuti, attraverso la previsione della corresponsione di specifici interessi e sanzioni tributarie. In sostanza, il sistema tributario ha già disciplinato di per sé ciò che viene definito “danno da evasione”, proprio attraverso questo apposito meccanismo di recupero del credito, degli interessi e delle sanzioni.
Come rilevato dalla pronuncia delle Sezioni Unite citata, non può sostenersi un danno da sviamento di funzione nell’illecito tributario e questo perché l’accertamento dell’imposta evasa e il suo recupero costituiscono, di per sé, la funzione da svolgere per gli organi amministrativi.
Il potere di accertamento è attribuito proprio per accertare l’evasione e così il potere di riscossione è funzionale al suo recupero effettivo: l’illiceità della violazione trova, poi, nello stesso sistema tributario un contraltare apposito nell’irrogazione di sanzioni, proporzionate alla gravità dell’illecito, di modo che gli illeciti più gravi, anche di carattere penale, sono sanzionati in misura certamente maggiore e senza alcuna finalità di stampo risarcitorio. E questo oltre all’irrogazione della sanzione penale nei casi per i quali è prevista, naturalmente.
Di tanto pare consapevole la pronuncia in esame, che, nelle premesse, afferma la necessità che si riscontri un danno effettivo, diverso ed ulteriore rispetto all’imposta evasa, ma, nelle conclusioni, valorizza l’esiguità della somma addebitata a titolo di risarcimento che collega al danno da sviamento di funzione.
La logica sottesa, allora, sarebbe, da un lato, quella di riconoscere che un danno deve pur essere riscontrato per poter stabilire un risarcimento, ma, dall’altro, quella di ravvisare tale danno ipso facto a fronte di complesse attività di indagini rese necessarie da comportamenti particolarmente fraudolenti.
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Il concetto di sviamento della funzione o di devianza ha margini frastagliati e una sostanza evanescente.
Se si considera la nozione di devianza in ambito statistico (o somma dei quadrati degli scarti dalla media), si può verificare che trattasi di un indice di dispersione dei dati, tant’è che la sua espressione postula una µ, che indica la media dei dati: per ottenere il suddetto indice occorre calcolare la varianza e poi la deviazione standard, in rapporto al numero dei casi campionati. L’indice di dispersione tende ad aumentare con la numerosità del campione, di modo che si delinea la c.d. varianza campionaria.
La tesi dello sviamento quantitativo della funzione, allora, non tiene conto del fatto che non è possibile delineare un campionamento della media dei dati relativi all’esercizio standard, non deviato, della funzione.
L’attività di accertamento può modularsi diversamente in ragione delle varie fattispecie esaminate e articolarsi in controlli semplici, complessi o anche farraginosi. Rispettati i presupposti (e i tempi) delle attività di indagine, l’Amministrazione può intraprendere i controlli che ritiene necessari per l’accertamento e questi controlli possono essere numerosi e impegnativi anche a prescindere dalla soglia di tributo evaso.
La funzione amministrativa di settore è una funzione di controllo e non soggiace a regole quantitative, tese ad efficientare i controlli al minimo sforzo con massimo rendimento. Non si riscontrano prototipi di accertamento istituzionalizzati con impiego di risorse contingentate, di modo che l’impegno oltre certi limiti costituisca sviamento di funzione.
È una forzatura del sistema ravvisare una deviazione funzionale in un accertamento particolarmente complesso. E questa forzatura, invero, può essere riscontrata non solo attraverso la lente tributaria, ma anche se si adotta una prospettiva civilistica.
Il perno delle azioni risarcitorie è il danno: l’essenza della disposizione di cui all’art. 2043 c.c. va rinvenuta proprio nell’ingiustizia del danno, sicché per configurarsi responsabilità occorre, prima ancora di verificare la colpevolezza e il nesso di causalità, che si sia verificato un danno e che tale danno sia ingiusto.
Ne consegue la necessità, allora, di chiedersi se sussista, e in quali termini eventualmente, un danno per l’Amministrazione che deve “impegnarsi” per l’accertamento in modo incisivo. E il danno deve essere, naturalmente, un danno patrimoniale.
La giurisprudenza amministrativa sul danno da sviamento della funzione ha chiaramente ricondotto la fattispecie ad ipotesi di sviamento delle risorse rispetto a finalità predeterminate: si pensi alle ipotesi di deviazione dal programma, imposto dalla Pubblica Amministrazione al privato, nel contesto di un procedimento teso ad attribuire utilità (si veda già Cass., Sez. Un., n. 4511/06), in cui il danno patrimoniale può essere ricondotto alla disposizione di somme erogate in modo diverso da quello preventivato, oppure alla ipotesi di predisposizione di presupposti per la sua illegittima percezione (Cass. n. 18991/2017). In sostanza, il danno connesso allo sviamento si sostanzia in una sorta di frustrazione dello scopo perseguito dalla Amministrazione, distogliendo le risorse conseguite dalle finalità cui erano preordinate (cfr. in tema di contributi europei Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2016, n. 1515).
Per altro verso, poi, lo sviamento di potere sussiste allorquando l’Amministrazione persegue un fine diverso da quello per il quale il potere è conferito.
Nel caso di specie, lo sviamento dovrebbe sostanziarsi in un utilizzo particolarmente intensivo delle risorse destinate istituzionalmente proprio alla specifica finalità e indipendentemente dalla prova di una deminutio: può consistere, allora, il danno amministrativo nella necessità di assumere nuovo personale, di pagare straordinari, di rivolgersi a soggetti terzi ad adiuvandum? Può ravvisarsi sviamento nel fatto che, per occuparsi di una verifica complessa, non si è potuto svolgere il controllo ordinario, di routine, su altri contribuenti, perdendo la possibilità di recupero di altre evasioni meno articolate?
Il tenore di queste domande è chiaramente provocatorio e di per sé vuole sottolineare come la struttura del risarcimento del danno da sviamento mal si adatti alle regole che governano un procedimento amministrativo di controllo, minuziosamente disciplinato con complessi equilibrismi tra la necessità di recupero e rispetto dei diritti. E tanto indipendentemente dal fatto che si adotti un criterio equitativo nella liquidazione, asseritamente quantificata in modo modesto. Anzi forse è proprio la presenza di un criterio equitativo di tal sorta a far propendere per un’interpretazione in chiave sanzionatoria della condanna al risarcimento in favore dell’Amministrazione, vale a dire di una nuova sanzione di carattere pseudo-restitutivo da affiancare a sanzioni amministrative e penali e collegata alla straordinarietà dei mezzi che l’Amministrazione ha dovuto impiegare per il recupero dell’evasione. E tanto al di fuori di qualsiasi logica di proporzionalità.
(*) La rubrica – come l’intera Rivista – è aperta a tutti coloro che intendono contribuire al progresso del diritto tributario, in generale, e al miglioramento della sua applicazione, in particolare, nella specie con interventi di commento della giurisprudenza di legittimità dialogici e costruttivi, scevri di polemiche e posizioni partigiane.
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