Società semplice e utilizzo privato dei beni sociali: note sulla (ir)rilevanza reddituale
Di Stefano Zagà
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(nota a/notes to Cass., sez. trib., 25 giugno 2024, n. 17441)
Abstract (*)
Esaminando il perimetro applicativo della peculiare fattispecie di reddito diverso che si genera in capo al socio che utilizza nella sua “sfera privata” dei beni d’impresa, la Suprema Corte lo ha correttamente circoscritto ai soli casi in cui questi appartengano ad una società (di persone o di capitali) a forma commerciale, con esclusione, quindi, delle società semplici.
Simple company and private use of company assets: notes on the (ir)relevance of income – Examining the scope of application of the peculiar case of other income that is generated for the shareholder who uses in his “private sphere” of company assets, in the judgment under comment, the Supreme Court correctly circumscribed it only to cases in which the company assets belong to a company (physical person company or share capital companies) with commercial form, excluding, therefore, simple companies.
Sommario: 1. Il regime di imponibilità applicabile ai casi di concessione in godimento di “beni dell’impresa” a soci o familiari. – 2. La vicenda esaminata dalla Suprema Corte nella sentenza in commento. – 3. I connotati essenziali della società semplice. – 4. Le ragioni per cui le società semplici sono fuori dal perimetro applicativo del regime di imponibilità ex artt. 67, comma 1, lett. h-ter, TUIR e 2, comma 36-quaterdecies, D.L. 13 agosto 2011, n. 138. – 5. Considerazioni conclusive.
1. La sentenza in commento merita di essere segnalata perché – per quanto noto – rappresenta la prima pronuncia in cui la Suprema Corte ha esaminato il perimetro applicativo della peculiare fattispecie di reddito diverso che si genera in capo al socio che utilizza nella sua “sfera privata” dei beni dell’impresa. Nello specifico, lo ha correttamente circoscritto ai soli casi in cui questi appartengano ad una società (di persone o di capitali) a forma commerciale, con esclusione, quindi, delle società semplici.
Il riferimento è alla disposizione normativa contenuta nell’art. 67, comma 1, lett. h-ter, TUIR. Questa è stata introdotta, in combinato con quella di cui all’art. 2, comma 36-quaterdecies, D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (conv. dalla L. 14 settembre 2011, n. 148), allo scopo di contrastare (a partire dal periodo d’imposta 2011) il fenomeno per cui beni facenti parte del circuito d’impresa di società, di enti commerciali e di imprese individuali (fiscalmente residenti nel territorio dello Stato), vengono concessi in godimento “per fini privati”, a titolo gratuito o a fronte di un corrispettivo inferiore a quello di mercato, ai loro soci oppure a quelli di società con cui sussiste un rapporto di controllo o collegamento ex art. 2359 c.c. (cfr. circ. 15 giugno 2012, n. 24/E), compresi (per ragioni logico-sistematiche) i relativi familiari (tali ex art. 5, comma 5, TUIR), nonché, nel caso di imprese individuali, ai familiari dell’imprenditore.
Si tratta, quindi, di beni che, seppure utilizzati “privatamente”, tuttavia, non fuoriescono dal regime dei beni d’impresa, con ciò impedendo la configurabilità di fattispecie realizzative, quali l’autoconsumo, l’assegnazione di beni ai soci, la destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa.
La prima disposizione (art. 67, comma 1, lett. h-ter, TUIR) prevede l’emersione di un reddito diverso in capo al soggetto (residente e non residente nel territorio dello Stato) che li utilizza nella propria “sfera privata”, costituito dal differenziale tra il «valore di mercato» (recte «valore normale» ex art. 9, comma 3, TUIR) del bene e il (minor) corrispettivo pattuito (se previsto).
La seconda (art. 2, comma 36-quaterdecies, D.L. n. 138/2011) stabilisce per l’impresa concedente l’indeducibilità di tutti i corrispondenti costi sostenuti (quote d’ammortamento, spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, spese di gestione e ogni altra spesa ad essi relativa), che si aggiunge all’imponibilità in capo alla stessa del corrispettivo eventualmente conseguito, nonché, in assenza di un corrispettivo ritenuto “congruo”, all’“aggravio impositivo” derivante dalla possibile applicazione della disciplina di contrasto alle “società di comodo” (ex art. 30 L. 23 dicembre 1994, n. 724). Peraltro, l’espressa previsione normativa della indeducibilità dei costi sostenuti con riferimento a beni dell’impresa utilizzati da soci e familiari al di fuori del circuito produttivo può apparire “superflua”, perché sarebbero risultati comunque indeducibili per difetto di inerenza (anche in presenza di un corrispettivo), venendo meno il legame qualitativo con l’attività d’impresa.
Conseguentemente, possono verificarsi situazioni di plurima imposizione del medesimo valore economico in capo all’utilizzatore e all’impresa. Tanto è vero che si è dovuto intervenire in via interpretativa per evitare fenomeni di doppia imposizione nell’ambito della trasparenza fiscale (artt. 5 e 116 TUIR), chiarendo che il reddito diverso che emerge in capo all’utilizzatore deve essere ridotto del maggior reddito d’impresa allo stesso imputato per trasparenza a causa dall’indeducibilità dei costi del bene concesso in godimento (cfr. circ. 24 settembre 2012, n. 36/E).
Per giunta, se il socio è anche dipendente o amministratore della società concedente, si potrebbero porre problemi di coordinamento con il regime di imponibilità dei benefit aziendali (ex artt. 51 e 164 TUIR).
Senza dubbio, la “ratio disincentivante” che connota queste disposizioni normative (id est scoraggiare un utilizzo “privato” dei beni d’impresa) è strettamente connessa a quella che è alla base della disciplina di contrasto alle “società di comodo”. Non a caso, la prima è stata introdotta nel 2011 quando si è deciso di inasprire la seconda per cercare di frenare il più possibile l’uso dello “statuto fiscale” dell’impresa commerciale (cfr., per tutti, Fantozzi A., Impresa e imprenditore, in Enc. Giur. Treccani, XVI, Roma, 1989, passim) da parte di società ed enti che utilizzano una forma giuridica commerciale (che permette loro, per l’appunto, di “sfruttarlo”), pur non svolgendo attività di natura imprenditoriale, ma principalmente di mero godimento di beni (cfr., tra gli altri, Miceli R., Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, Pisa, 2017, passim; Nussi N., La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2010, 4, I, 491 ss.; Beghin M., “Società di comodo”, assegnazioni agevolate ai soci e pagamento dell’imposta sostitutiva: note sulla disciplina di cui all’art. 29 della L. 27 dicembre 1997, n. 449, in Rass. trib., 1999, 5, 1371 ss.; Lupi R., Le società di mero godimento tra irrilevanza Iva e autoconsumo, in Rass. trib., 1998, 1, 11 ss.; Uricchio A., I redditi prodotti in forma associata e le società senza impresa, in Dir. prat. trib., 1990, I, 271).
Ad ogni modo, nonostante questa stretta connessione, le formulazioni normative degli artt. 67, comma 1, lett. h-ter, TUIR e 2, comma 36-quaterdecies, D.L. n. 138/2011, nell’individuare il soggetto concedente, utilizzano il termine «impresa», senza alcuna precisazione o limitazione. Ciò significa che il perimetro applicativo della disciplina in esame – id est emersione del reddito diverso e contestuale indeducibilità del costo – non è circoscritto alle sole “società di comodo” (ex art. 30, L. n. 724/1994), ma si estende alle imprese individuali (limitatamente ai beni attribuiti in uso ai familiari dell’imprenditore), nonché a tutte le società di capitali e di persone che, seppure operative (perché svolgono in via prevalente un’effettiva attività commerciale), tuttavia, concedono in godimento a soci (e relativi familiari) dei beni che, nonostante ciò, continuano a conservare (impropriamente) lo status fiscale di “beni d’impresa”.
2. È in questo contesto normativo che si inserisce la questione interpretativa (correttamente) risolta dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento: id est stabilire se questo peculiare regime di imponibilità si applichi o meno anche ai casi in cui il soggetto concedente sia una società semplice.
Come anticipato, la Suprema Corte ne ha escluso l’applicabilità perché, in base alla disciplina codicistica (art. 2249, commi 1 e 2, c.c.), tale tipo societario non può essere utilizzato per l’esercizio collettivo di un’attività d’impresa.
Anzitutto, va evidenziato come in quella vicenda giudiziale l’opposta soluzione interpretativa (poi sconfessata in sede di legittimità), in realtà, non sia stata sostenuta dall’Agenzia delle Entrate, ma dal giudice d’appello.
Difatti, leggendo i “fatti di causa” riportati in sentenza, nell’avviso di accertamento impugnato era stata contestata: i) l’interposizione della società semplice, partecipata dal contribuente accertato, che era socia di una società di capitali, nonché proprietaria nell’anno accertato (2014) dell’immobile che la stessa aveva concesso in godimento gratuito al proprio socio; ii) la simulazione dell’enfiteusi che nel 1972 era stata costituita su questo immobile dalla società di capitali (inizialmente proprietaria) a favore del socio società semplice, che ne aveva poi (2009) acquisito la piena proprietà per affrancazione del diritto reale di godimento.
Pertanto, seguendo la “riqualificazione” delle vicende negoziali prospettata dall’Agenzia delle Entrate, l’effettivo proprietario dell’immobile concesso in godimento a titolo gratuito al contribuente accertato non era la società semplice (mero interposto), ma la società di capitali. In questo modo risultava certamente configurabile la fattispecie di reddito diverso tipizzata dall’art. 67, comma 1, lett. h-ter, TUIR.
Il giudice d’appello ha ritenuto non dimostrata questa “riqualificazione negoziale”. Pertanto, dopo aver escluso l’interposizione della società semplice e la simulazione dell’affrancazione dell’enfiteusi, ha individuato in quest’ultima il soggetto che ha concesso in godimento gratuito l’immobile al proprio socio (sottoposto ad accertamento). A quel punto ha confermato la legittimità del provvedimento impugnato perché a suo avviso la norma impositiva in esame si sarebbe dovuta interpretare nel senso di includere nel proprio perimetro applicativo anche le società semplici.
Anzitutto, vi è un profilo processuale che lascia perplessi: con una simile decisione il giudice d’appello sembrerebbe aver modificato la giustificazione motivazionale della pretesa impositiva così come formulata nell’avviso di accertamento impugnato, pur non essendo consentito: i) dalle norme sostanziali che individuano nella motivazione del provvedimento tributario un requisito richiesto a pena di annullabilità; ii) da quelle processuali (artt. 99, 112 e 115 c.p.c., a cui rinvia l’art. 1, comma 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) che qualificano il giudizio tributario come “dispositivo” in punto di allegazione dei fatti rilevanti per la decisione della controversia e che impongono il principio della domanda e della corrispondenza tra il “chiesto e il pronunciato”. Peraltro, questo divieto è stato da ultimo codificato nell’art. 7, comma 1-bis, L. 27 luglio 2000, n. 212 (Zagà S., Prime riflessioni sulla possibilità – post riforma fiscale di modificare, integrare o sostituire la motivazione dei provvedimenti tributari, in Riv. tel. dir. trib., 2024, 1 e online il 4 aprile 2024, www.rivistadirittotributario.it).
A prescindere da questa osservazione (processuale), che esula dal presente commento, ciò che va analizzato è, invece, il profilo sostanziale della decisione, ovvero l’individuazione del perimetro applicativo della fattispecie impositiva in esame.
La Suprema Corte ha cassato la decisione sul punto del giudice d’appello, indicando una soluzione interpretativa indubbiamente corretta. Semmai, l’unico profilo di criticità – come evidenziato anche nei primi commenti sulla stampa specializzata – è ravvisabile nel fatto che sia stata fondata principalmente su richiami a documenti interpretativi dell’Amministrazione finanziaria (in specie circ. n. 24/E/2012), quando, invece, per giungere a questo risultato sarebbe stato sufficiente il ricorso agli ordinari criteri interpretativi (ex art. 12 delle preleggi), ossia quello letterale e quello teleologico, dopo aver correttamente assunto i connotati essenziali della società semplice.
3. La società semplice viene descritta come una «società senza impresa» (Patriarca S. – Capelli I., Società semplice, in De Nova G., a cura di, Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja – Branca – Galgano, Bologna, 2021, 5, nota 10) in quanto le è precluso (art. 2249, commi 1 e 2, c.c.) l’esercizio di attività commerciali (riservate alle società in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché alle società di capitali e agli enti commerciali), potendo avere per oggetto solo l’esercizio di un’attività economica di tipo diverso.
Il carattere non commerciale dell’attività sociale condiziona inevitabilmente il trattamento impositivo dei redditi delle società semplici, differenziandolo profondamente da quello previsto per le restanti tipologie di società di persone (commerciali), con cui ha in comune solo il principio di trasparenza fiscale (ex art. 5 TUIR).
In ragione di ciò, la società semplice può essere utilizzata essenzialmente per il godimento collettivo di beni, da intendersi comprensivo anche dell’attività economica tipica del rentier (Zagà S., Le società semplici. Disciplina reddituale e forme di trasparenza fiscale, Milano, 2023, 20 ss.), oltre che per l’esercizio di attività di natura agricola o professionale. Conseguentemente, i redditi realizzabili rientrano nelle categorie dei redditi fondiari, dei redditi di capitale, dei redditi diversi e dei redditi di lavoro autonomo.
Il quadro reddituale potrebbe essere “alterato” nei casi in cui la società semplice si avvalga di una “struttura organizzativa” (“etero-organizzazione”) in grado di far assumere all’attività svolta i connotati (civilistici e fiscali) della “commercialità” (Zagà S., Le società semplici. Disciplina reddituale e forme di trasparenza fiscale, cit., 40 ss.). Questo, però, avrebbe l’effetto di trasformare (di fatto) la società semplice in una in nome collettivo irregolare, ciò comportando in ambito tributario la necessità di una corretta classificazione dei redditi alla luce della nozione di reddito d’impresa. Non va poi dimenticata la regola (art. 5, comma 3, lett. b, TUIR) per cui le società di fatto che hanno per oggetto l’esercizio di attività commerciali ai fini reddituali sono equiparate alle società in nome collettivo, a cui si applica la relativa presunzione di commercialità (ex art. 6, comma 3, TUIR).
4. Ciò posto, se questi sono i principali connotati civilistici e fiscali della società semplice, quest’ultima, come correttamente indicato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, deve ritenersi fuori dal perimetro applicativo della disciplina impositiva (emersione del reddito diverso e indeducibilità dei costi) prevista per l’ipotesi di «beni dell’impresa» concessi in godimento (a titolo gratuito o a prezzi inferiori a quelli di mercato) a favore di soci e familiari. Come detto, è possibile giungere con facilità a questa soluzione sulla base del criterio interpretativo letterale e di quello teleologico.
In tal senso, la formulazione testuale del dato normativo che definisce la fattispecie di reddito diverso (art. 67, comma 1, lett. h-ter, TUIR) utilizza l’espressione «beni dell’impresa», che non può essere riferita anche alla società semplice, perché quest’ultima è per definizione una “società senza impresa”, non potendo esercitare attività commerciali.
Peraltro, il riferimento normativo al concetto di «impresa» non potrebbe neppure intendersi in senso atecnico, perché – come già ricordato – questa disposizione (rivolta all’utilizzatore) va letta in combinato con quella riferita al concedente, che stabilisce l’indeducibilità dal reddito d’impresa dei costi da quest’ultimo sostenuti sui beni concessi in godimento al socio a titolo gratuito o a un prezzo inferiore a quello di mercato. Ma, come già ricordato, le società semplici civilisticamente regolari non producono reddito d’impresa.
Infine, l’argomento letterale è rafforzato da quello teleologico, dovendosi comunque privilegiare quel significato che corrisponde al fine proprio della complessiva disciplina in cui le disposizioni in esame risultano inserite. In tal senso, nel ricordare la stretta connessione esistente tra la disciplina in esame e quella di contrasto alle “società di comodo”, si è già visto come lo scopo della prima sia quello di scoraggiare un utilizzo “privato”, da parte di soci e familiari, di beni che, oltre che appartenere alla società, devono avere lo status fiscale di “beni d’impresa”, il quale presuppone il loro inserimento nel circuito produttivo e, pertanto, l’esercizio di un’attività commerciale, che è preclusa alle società semplici.
D’altro canto, il fatto stesso che la principale attività economica per cui sempre più spesso viene utilizzata la società semplice sia proprio quella del “godimento collettivo” di beni, sino a comprendere anche l’attiva tipica del rentier, rende questo modello societario “compatibile” con la fattispecie – concessione in godimento ai soci dei beni sociali – che le norme impositive qui analizzate (artt. 67, comma 1, lett. h-ter, TUIR e 2, comma 36-quaterdecies, D.L. n. 138/2011) mirano invece a contrastare.
Per di più, l’esclusione delle società semplici dal perimetro applicativo di queste norme è indirettamente confermato da tutte quelle disposizioni (cfr., da ultimo, art. 1, commi da 100 a 105, L. 29 dicembre 2022, n. 197) che nel tempo hanno offerto la possibilità di rimediare (anche) agli “aggravi impositivi” poc’anzi descritti, favorendo (oltre all’assegnazione o la cessione agevolata di beni ai soci, pure) la trasformazione in società semplici di società costituite secondo la forma giuridica prevista per l’esercizio di attività commerciali, ma la cui attività consisteva principalmente nella “gestione statica” (recte nel mero godimento) di beni sociali (mobili e immobili) non strumentali all’esercizio di un’attività economica produttiva.
5. Quanto poc’anzi detto con riferimento alle società semplici è ripetibile anche per gli enti non commerciali e le società non residenti prive di stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Pure qui, infatti, il dato per cui i beni appartenenti all’ente o alla società non residente sono privi (anche se per motivi diversi) dello status fiscale di “beni d’impresa” impedisce l’emersione di un reddito diverso in capo all’utilizzatore privato del bene di proprietà del concedente.
Da ultimo, rispetto alle società semplici è opportuna una precisazione, che, in verità, assume rilievo più sul piano teorico. Assunta l’inesistenza di una norma tributaria che stabilisca una incompatibilità tout court tra reddito d’impresa e società semplice, non si può escludere – almeno in ipotesi – che la società semplice possa realizzare redditi da qualificare d’impresa (Zagà S., Le società semplici. Disciplina reddituale e forme di trasparenza fiscale, cit., 33 ss.). Il riferimento è, in particolare, al caso in cui venga esercitata un’attività agricola con modalità che eccedono i limiti stabiliti ex lege (art. 32, comma 2, TUIR) con conseguente realizzo (per la parte eccedente) di un reddito d’impresa, anche in assenza di una struttura organizzativa. In una simile ipotesi, assumendo l’esistenza di beni aventi lo status fiscale di «beni d’impresa», la disciplina impositiva in esame risulterebbe applicabile.
(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2024 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Beghin M., “Società di comodo”, assegnazioni agevolate ai soci e pagamento dell’imposta sostitutiva: note sulla disciplina di cui all’art. 29 della L. 27 dicembre 1997, n. 449, in Rass. trib., 1999, 5, 1371 ss.
Fantozzi A., Impresa e imprenditore, in Enc. Giur. Treccani, XVI, Roma, 1989
Miceli R., Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, Pisa, 2017
Nussi M., La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2010, 4, I, 491 ss.
Lupi R., Le società di mero godimento tra irrilevanza Iva e autoconsumo, in Rass. trib., 1998, 1, 11 ss.
Patriarca S. – Capelli I., Società semplice, in De Nova G. (a cura di), Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja – Branca – Galgano, Bologna, 2021
Uricchio A., I redditi prodotti in forma associata e le società senza impresa, in Dir. prat. trib., 1990, I, 271
Zagà S., Le società semplici. Disciplina reddituale e forme di trasparenza fiscale, Milano, 2023
Zagà S., Prime riflessioni sulla possibilità – post riforma fiscale di modificare, integrare o sostituire la motivazione dei provvedimenti tributari, in Riv. tel. dir. trib., 2024, 1 e online il 4 aprile 2024, www.rivistadirittotributario.it
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2. L’interessato ha diritto di ottenere informazioni:
a) sull’origine dei dati personali;
b) sulle finalità e modalità del trattamento;
c) sulla logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici;
d) sugli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2;
e) sui soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati.
3. L’interessato ha diritto di ottenere:
a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati;
b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati;
c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato.
4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:
a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta;
b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.
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