IL PUNTO SU… Un’attuazione ragionata della certificazione del Tax Control Framework

Di Fabrizio Acerbis e Marco Lio -

A. La definizione di strumenti e canoni per l’attestazione dell’adeguatezza dei sistemi di controllo del rischio fiscale è oggetto di analisi da parte della dottrina internazionale nell’ambito del c.d. tax risk management, che ragiona sulla declinazione di standard per il vaglio del Tax Control Framework (v. per tutti Owens J. – Leigh-Pemberton J., Cooperative Compliance: A Multi-Stakeholder and Sustainable Approach to Taxation, 2021, 76 ss.); un’aspirazione, questa, cui si accompagna la consapevolezza diffusa sui rischi connessi alla creazione di modelli iper standardizzati, siano questi offerti dalla business community o direttamente dalle Autorità fiscali: infatti, portare il disegno e la manutenzione dei sistemi di controllo verso l’alimentazione di tool più o meno evoluti e la spunta di checklist, può ridurre significativamente il livello di controllo effettivo del rischio fiscale.

In questa direzione si è mossa la legge delega di riforma fiscale (art. 17, comma 1, lett. g, punto 1.3, L. n. 111/2023), che ha previsto la possibilità d’introduzione di meccanismi opzionali di certificazione dei sistemi integrati di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale (di seguito “TCF”), anche in ordine alla loro conformità ai principi contabili, affidandone il compito a professionisti qualificati, che possano essere fatti valere nei confronti dell’Autorità fiscale – ma non anche del pubblico e del mercato, com’è, ad esempio, per l’attestazione sui sistemi di controllo dell’informativa contabile, secondo la regolamentazione nordamericana (cfr. Section 404 della Sarbanes-Oxley Act – SOX – Public Law 107–204, 2002 e succ. mod.), nel processo di ammissione all’adempimento collaborativo e nel prosieguo del programma, fermi restando i poteri di controllo dell’Amministrazione finanziaria.

B. Il decreto delegato (art. 1, comma 1, lett. a, n. 2, D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 221, che introduce i commi 1-bis e 1-quater nell’art. 4 D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128) è intervenuto modificando la possibilità in obbligatorietà del rilascio della certificazione del TCF, soggetta a periodico adeguamento e l’emanazione da parte dell’Agenzia delle Entrate di linee guida per la predisposizione di un efficace sistema di controllo del rischio fiscale: la coerenza del TCF rispetto alle linee guida sarà oggetto di riscontro in fase di rilascio e di periodico adeguamento della certificazione.

La disciplina dei requisiti richiesti ai professionisti abilitati alla certificazione del TCF, nonché dei loro compiti e adempimenti è demandata, dal decreto delegato, ad un successivo regolamento, su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze di concerto con il Ministro della Giustizia, sentiti i rispettivi ordini professionali. Il termine per l’adozione del regolamento – fissato a novanta giorni dal 18 gennaio 2024 – è ampiamente trascorso, ma non si tratta di un ancoraggio temporale perentorio, come ha chiarito il Consiglio di Stato nel parere reso sullo schema di provvedimento (Parere numero 01212/2024, adottato dalla Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, nell’adunanza del 27 agosto 2024 e pubblicato il 9 settembre 2024).

Il decreto correttivo 5 agosto 2024, n. 108 (che ha novellato l’art. 4, comma 1-bis, D.Lgs. n. 128/2015) ha consolidato ulteriormente la centralità della certificazione, prevedendo che la relativa infedeltà – causata dall’assenza dei requisiti di onorabilità, indipendenza o professionalità del certificatore, da false attestazioni in relazione ai compiti e adempimenti previsti per il rilascio o dal difetto di corrispondenza tra i dati certificati e quelli prodotti dal contribuente – è idonea a inficiare il processo di ammissione dell’impresa all’adempimento collaborativo o a condurre successivamente all’esclusione della stessa dal regime, oltre a produrre effetti sanzionatori a carico del professionista.

C. Il quadro delineato si presta ad alcune considerazioni, tanto sull’impianto complessivo, quanto su taluni risvolti operativi.

Quanto all’impianto complessivo, due sono i profili più rilevanti, già richiamati: l’obbligatorietà della certificazione e l’attesa standardizzazione dei modelli di TCF.

Ora, se si comprendono le ragioni alla base dell’obbligatorietà (l’ampliamento della platea del regime, con l’inclusione di imprese di medie dimensioni), meglio sarebbe stato forse un impianto basato sul carattere opzionale, che pure avrebbe operato quale filtro per l’attività dell’Agenzia delle Entrate. E infatti, questa soluzione sembra più vicina alle esigenze delle imprese, senza risultare in contrasto con la legge delega, la quale prevede espressamente la possibilità della certificazione, ma non ne sancisce l’obbligo. Per altro verso, lo standard definito dall’Agenzia delle Entrate quale modello minimo da integrare da parte delle singole imprese sui propri connotati, se appare concettualmente ineccepibile, presta il fianco al rischio di essere percepito come safe harbour per la generalità delle imprese (indistintamente), situazione molto simile a quella paventata come rischio dalla dottrina internazionale (che sulla standardizzazione indiscriminata rimane molto scettica).

Quanto ai risvolti operativi, oltre alla questione dei costi a carico delle imprese, vengono in evidenza temi transitori relativi ai tempi.

In merito vale la pena evidenziare due aspetti. Innanzitutto, ad oggi il processo normativo secondario non ha ancora finalizzato la disciplina di dettaglio sulla certificazione del TCF, prefigurata dalla riforma, incluse le linee guida dell’Agenzia delle Entrate, che rappresentano un componente successivo, rispetto al regolamento ministeriale. In attesa della conclusione dell’iter di emanazione del regolamento, l’Agenzia ha comunque reso disponibili, tramite Confindustria, le bozze di linee guida, destinate a coprire la redazione del Tax Compliance Model (governance TCF), la certificazione, la redazione delle mappe rischi/controlli (settore industriale) e il template della mappa dei rischi. In secondo luogo, è ancora da delineare il percorso di formazione dei certificatori, che richiederà interlocuzione fra più attori e anch’esso tempi tecnici ineludibili. Per l’effetto di questi elementi, considerato l’obbligo di certificazione del TCF, dal 18 gennaio 2024 – data di entrata in vigore della novella – nessuna impresa ha potuto presentare istanza di adesione al regime. Si è così materializzata la preoccupazione affiorata nelle osservazioni formulate dalle Commissioni parlamentari, durante il dibattito sullo schema di decreto delegato, secondo cui nessun nuovo contribuente sarebbe potuto entrare nel regime, per l’anno di imposta 2024, essendo l’ammissione subordinata alla certificazione.

D. Passando ai contenuti della certificazione, secondo quanto è possibile inferire dai lavori in corso sul regolamento, essa dovrebbe attestare: (i) in fase di rilascio della certificazione, in esito alla costruzione del TCF, la conformità del disegno del sistema di controllo ai canoni declinati dalle linee guida che saranno fornite dall’Agenzia delle Entrate, fornendo una ragionevole certezza sulla gestione consapevole e affidabile della variabile fiscale da parte dell’impresa; (ii) in fase di adeguamento periodico della certificazione, l’efficacia operativa del TCF, attraverso apposite procedure di test, la verifica che i controlli selezionati abbiano operato in maniera continuativa e siano stati svolti in maniera corretta.

Il primo compito assegnato al professionista, con il rilascio della certificazione, corrisponde a quanto, sino ad oggi, è stato svolto dall’Ufficio Adempimento collaborativo, in contraddittorio con il contribuente, nel processo di ammissione al regime, attraverso un processo strutturato su due fasi: company level assessment, indirizzato sul disegno del TCF, e activity level assessment, diretto a riscontrare i processi di gestione del rischio fiscale. La previsione della certificazione sull’impianto del TCF pare corrispondere alla ratio di accelerare il processo di ammissione, sostituendo i controlli svolti dal Fisco con l’attività del certificatore. Se si qualificasse come possibilità e non obbligo, la certificazione potrebbe assumere la funzione di corsia preferenziale per l’ingresso nel regime, consentendo alle imprese, in alternativa, di svolgere il processo di ammissione in contraddittorio con l’Ufficio. In questo modo, si darebbe alle imprese la possibilità, rispetto al TCF standardizzato, di un confronto diretto con l’Amministrazione finanziaria sull’impostazione scelta nel disegno del proprio sistema di controllo, evitando rischi dell’approccio check the box di cui si è detto.

Sul fronte del periodico aggiornamento della certificazione si rileva che sono richieste attività di testing e di riscontro dell’efficacia operativa del TCF, che appaiono del tutto sovrapposte al monitoraggio nel continuo svolto dalla funzione di tax risk management, di cui le imprese sono tenute a dotarsi (internamente o anche ricorrendo all’esternalizzazione), quale secondo livello di presidio, nell’articolazione del TCF secondo tre linee di difesa: in questo senso, si riscontra una duplicazione di attività e di costi per le imprese. Anche sotto questo profilo, la natura opzionale – in luogo dell’obbligo – del periodico aggiornamento della certificazione consentirebbe di valorizzarne i contenuti, ove l’impresa se ne intenda dotare, nel contesto delle attività di riscontro sull’operatività del TCF che l’Ufficio Adempimento collaborativo è chiamato ad effettuare periodicamente: su questo tavolo, l’adeguamento periodico della certificazione, qualora l’impresa lo richiedesse, opererebbe così in via additiva rispetto alle risultanze delle attività di monitoraggio svolte dal Tax Risk Manager.

Anche nell’eventualità di un intervento correttivo sul regime di obbligatorietà della certificazione, va da sé che senza la rapida messa a regime del processo di formazione dei certificatori mancherebbe un tassello operativo oggi imprescindibile e persisterebbe l’impossibilità a certificare.

Affinché l’eventuale rimodulazione della certificazione da obbligo a opzione lasciata alla valutazione della singola impresa possa avere un impatto positivo, senza trascinare con sé una criticità sul fronte della capacità di risposta da parte dell’Agenzia delle Entrate connessa all’ampliamento della platea del regime, è più che mai necessario accelerare la formazione dei certificatori.

E. In relazione a questi ultimi, si evidenzia che l’attività di certificazione del TCF è riservata dalla legge delega a “professionisti qualificati”, categoria che il legislatore delegato (art. 4, comma 1-bis, D.Lgs. n. 128/2015, introdotto dal decreto delegato n. 221/2023) ha perimetrato con tre connotati:

  1. l’iscrizione agli albi professionali di avvocati e commercialisti

  2. il possesso di una “specifica professionalità

  3. l’indipendenza.

Come emerge dal parere reso dal Consiglio di Stato sullo schema di regolamento, la professionalità del certificatore sarà declinata in termini di possesso di competenze e capacità professionali che dovranno essere attestate dall’Ordine professionale di appartenenza, per l’iscrizione all’apposito elenco dei certificatori abilitati, di cui ciascun Ordine dovrà dotarsi e alla cui appartenenza è subordinato il rilascio della certificazione del TCF. Gli Ordini saranno pertanto chiamati a disegnare percorsi formativi per il rilascio dell’attestazione a beneficio dei professionisti e di procedimenti interni volti a regolare l’iscrizione e, in caso di infedele certificazione, la cancellazione dagli elenchi dei certificatori.

Sul punto è previsto che il Ministero dell’Economia e delle Finanze, l’Agenzia delle Entrate e i Consigli Nazionali degli Ordini professionali interessati, di concerto fra loro, definiscano le modalità e i percorsi formativi per il rilascio dell’attestazione delle competenze e capacità professionali del certificatore.

Va da sé che per garantire una congrua tempistica, occorrerà rapidamente individuare il soggetto/i soggetti che svolgerà/svolgeranno il ruolo di formatore dei formatori e definire i relativi programmi, evitando che il processo risulti frammentato e territorialmente disomogeneo.

A tutto voler concedere, un’accelerazione dell’iter di adozione del regolamento previsto dal decreto delegato, dopo il parere di fine agosto scorso del Consiglio di Stato, i tempi per gli Ordini professionali per istituire il ruolo dei certificatori, assicurarne la formazione professionale e l’attestazione delle competenze, nonché quelli che saranno necessari ai professionisti, per il rilascio della certificazione, comporteranno in ogni caso uno stop alle nuove istanze che potrebbe protrarsi ben oltre la fine del corrente anno. Lo stesso parere del Consiglio di Stato sullo schema regolamentare annota i «plurimi profili disciplinari che espressamente coinvolgono l’Ordine degli avvocati e l’Ordine dei commercialisti e degli esperti contabili», che dovranno regolare, con autonoma normazione, tra l’altro: a) i percorsi formativi e le modalità di attestazione delle competenze acquisite; b) la gestione e l’aggiornamento degli elenchi dei professionisti abilitati; c) le misure organizzative e gli obblighi informativi conseguenti all’infedeltà della certificazione; d) l’attivazione dei poteri disciplinari.

Si tratta di un ulteriore spunto per riconsiderare l’impianto da obbligatorio in facoltativo. In ogni caso, sarebbe opportuno prevedere un periodo transitorio in cui le imprese possano presentare istanza di adesione al regime, con riserva di produrre la certificazione non appena gli Ordini avranno messo a disposizione gli elenchi dei professionisti di cui abbiano attestato il possesso di competenze e capacità professionali, in esito a percorsi formativi ad hoc.

F. Il tema dei requisiti del certificatore merita, a giudizio di chi scrive, un supplemento di analisi.

Tra i requisiti del certificatore, oltre alla formazione di cui si è già detto, viene richiamato quello dell’indipendenza. Esso trova una declinazione in termini di condizione che il certificatore deve poter soddisfare rispetto all’impresa (sostanzialmente attinente ai profili di governance della società istante: il certificatore non deve essere in alcun modo coinvolto nel processo decisionale del soggetto che conferisce l’incarico) e rispetto alla concreta erogazione dei servizi connessi al disegno del TCF.

Per quanto attiene questo secondo aspetto, si prefigura una situazione in cui l’impresa è chiamata a rivolgersi ad un soggetto B (professionista qualificato e ulteriormente formato con percorso ad hoc) per ottenere la certificazione, dopo essersi rivolto ad un soggetto A (in capo al quale, nell’attuale assetto normativo, non è richiesta una specifica qualificazione) per essere supportata nel disegno e implementazione del modello.

Attesa, fra l’altro, una progressiva standardizzazione dei modelli (sulla cui concreta efficacia si vedano le perplessità sopra espresse) ci si chiede, ribaltando l’impostazione, se non abbia più senso che lo stesso soggetto chiamato ad accompagnare la società nella stesura e adozione del TCF non possa essere chiamato a certificare (avendone, in questo caso, necessariamente i requisiti) la qualità del lavoro svolto, assumendosi una specifica responsabilità di attestare che l’impresa sia dotata di un affidabile TCF in linea con le indicazioni dell’Amministrazione finanziaria. Se si riflette sull’effetto combinato di professionalità e responsabilità come requisiti espressi già previsti in capo al certificatore, ciò determinerebbe una semplificazione del processo e una associata riduzione dei costi, senza che ne risulti un’alterazione della qualità o rischi di conflitto.

In altri termini, in presenza di una qualificazione tecnico-professionale elevata, richiesta per legge al professionista certificatore, sarebbe certamente coerente con obiettivi di qualità ed efficienza nell’adozione dei modelli TCF consentire che questa competenza possa essere spesa congiuntamente a quella necessaria per l’assistenza al disegno e implementazione del modello. Tale impostazione corrisponde a quanto avvenuto per le società attualmente in adempimento collaborativo (anche per realtà di gruppo molto piccole). Proprio mutuando da queste esperienze virtuose, dovrebbe essere inoltre prevista, come elemento strutturale del nuovo impianto, la capacità del certificatore nominato di attivare un’interlocuzione con l’Agenzia, nei casi in cui ciò sia ritenuto necessario, in logica deflattiva dei rischi di successivo annullamento ex tunc dei vantaggi derivanti dall’ammissione al regime. Va da sé che resta ferma e ineludibile la necessità di allargare drasticamente la platea dei professionisti che, su base nazionale, sono in grado di certificare, a valle del percorso di formazione.

Nei termini esposti, prevedere invece un’incompatibilità assoluta e senza apprezzamenti associata al rischio di autoriesame si appalesa come una duplicazione di costi (materiali e immateriali, incluso il tempo) richiesti in capo alla singola impresa, oltre che una svalutazione della professionalità del certificatore.

G. In conclusione, per risolvere l’impasse che si è generata e che ad oggi impedisce alle imprese di presentare istanza di adesione all’adempimento collaborativo, e anche per effetto della declinazione della certificazione in termini di obbligo e in ragione delle prescrizioni ancora da definire sulle condizioni e sull’attività del certificatore, sarebbe opportuno pensare ad una diversa attuazione degli indirizzi della legge delega in materia.

Ripensando il ruolo della certificazione del TCF da parte dei professionisti, occorrerebbe prevederla non già come un requisito obbligatorio, per l’accesso al regime, bensì quale acceleratore del processo di ammissione che consenta di saltare la fila dell’assessment del TCF da parte dell’Agenzia delle Entrate, sempre fermi restando i poteri di controllo ex post di quest’ultima.

In quest’ottica, anche l’aggiornamento periodico della certificazione – di recente esteso dal decreto correttivo (art. 1, comma 2) alle imprese che all’entrata in vigore della riforma erano già in adempimento collaborativo o avevano presentato istanza di ammissione – andrebbe rimodulato, in ragione di quanto già svolto dalla funzione di tax risk management, prevista nella governance del TCF, proprio per attestare l’efficacia operativa del TCF. Piuttosto che prevederne l’obbligatorietà – e un costo aggiuntivo nella manutenzione del TCF – si potrebbe rendere facoltativa per l’impresa la decisione di avvalersi anche dell’aggiornamento della certificazione, per consolidare l’apprezzamento sul sistema di controllo, potendone spendere l’esito con l’Agenzia delle Entrate, nella pertinente valutazione dell’operatività del TCF.

L’utilizzo di tool digitali e l’indirizzamento verso forme di standardizzazione dei modelli è un approccio che richiede cautela e consapevolezza dei rischi associati. Un impianto normativo incentrato su certificatori professionali, estranei alle Autorità fiscali, e richiesti di operare senza contraddittorio con queste ultime, può condurre alternativamente ad approcci iper standardizzati o a una responsabilizzazione eccessiva gravante sul certificatore (chiamato a valutazioni soggettive, esposte ad un rischio di sindacato ex post, potenzialmente in grado di travolgere il professionista e insieme l’impresa).

Da ultimo, i requisiti soggettivi di professionalità e indipendenza del certificatore, letti in modo sistematico e connessi in uno al principio di responsabilità, dovrebbero poter ammettere l’intervento di un unico soggetto (qualificato e formato) in affiancamento all’impresa, che assiste e, su propria responsabilità, certifica. Resterebbe fermo e gravante sul professionista lo svolgimento di un processo formalizzato di valutazione sulla propria indipendenza, in cui venga messa in controluce la propria situazione e la descrizione delle opportune misure adottate, ragionevolmente idonee a garantirne l’indipendenza, tanto avendo a mente i rapporti con l’impresa, quanto per l’attività eventualmente svolta sullo stesso TCF.

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