TARI e attività produttive: un orientamento della Cassazione in contrasto con la lettera della legge, la giurisprudenza costituzionale e i principi unionali

Di Christian Califano e Luigi Lovecchio -

(nota a/notes to Cass., sez. trib., ord. 15 maggio 2024, n. 13455 e Cass., sez. trib., sent. 28 agosto 2024, n. 23228)

Abstract (*) (**)

La Corte di Cassazione consolida un’interpretazione della normativa TARI secondo cui sugli stabilimenti industriali e sui depositi connessi alle aree di lavorazione è sempre dovuta la quota fissa per la produzione di rifiuti speciali, diversamente dall’esenzione limitata, secondo l’Ente, alla sola quota variabile. La norma di riferimento (art. 1, comma 649, L. 27 dicembre 2013, n. 147), tuttavia, esclude le aree ove si formano prevalentemente e continuativamente rifiuti speciali non assimilabili. Sulle superfici produttive di tali rifiuti, pertanto, non si manifesta alcun presupposto impositivo in quanto escluso per legge.

The domestic waste disposal tax (“TARI”) and production activities: a case law of the court of cassation in contrast with the letter of the law, constitutional jurisprudence and EU principles – The case law consistently upheld by the Supreme Court of Cassation with respect to the enforcement of the domestic waste disposal tax (namely, “TARI”) reiterates an interpretation of the constitutive elements of the taxable base according to which factories, as well as storages serving production plants, are liable to be levied by the “fixed fee” of the tax, with regard to the production of special wastes, whilst they are exempted from the payment of the additional “variable fee” of the TARI. However, the regulatory framework enshrined in Art 1, para 649, Law 27th December 2013, No. 147 entirely excludes from the taxable base of the TARI – namely, both for the “fixed fee”, and for the “variable fee” of the tax thereof – those contiguous areas where the production of special wastes (not assimilable to urban wastes) is actually and consistently performed. As a result, with regard to the above areas, no tax (i.e. “TARI”) should be levied since they are legally excluded from the taxable base.

Sommario: 1. Il principio elaborato dalla Cassazione. – 2. Presupposto escluso, esenzione e natura del tributo. – 3. Segue. L’approccio della giurisprudenza in analisi. – 4. Il contrasto con i principi unionali in tema di tassazione ambientale. – 5. Brevi osservazioni conclusive.

1. Con il recente arresto della Corte di Cassazione, sez. trib., ord. 15 maggio 2024, n. 13455 (paragrafi 6.1, 7, 7.1, 7.4, 8.2, 8.3 e 9), subito seguito dalla sentenza 28 agosto 2024, n. 23228, si consolida, l’interpretazione della normativa TARI secondo cui sugli stabilimenti industriali e sui depositi connessi alle aree di lavorazione è sempre dovuta la quota fissa di TARI, diversamente dall’esenzione limitata, secondo la Suprema Corte, alla sola quota variabile.

Questa interpretazione valica manifestamente il dato normativo e la sua finalità, in quanto la norma di riferimento (art. 1, comma 649, L. 27 dicembre 2013, n. 147), esclude totalmente ed esplicitamente le aree ove si formano prevalentemente e continuativamente rifiuti speciali non assimilabili e, in quanto tali, privi di presupposto impositivo, senza operare alcuna distinzione tra quota fissa e quota variabile.

Sulle superfici produttive di tali rifiuti, pertanto, non si manifesta alcun presupposto impositivo in quanto escluso per legge, tant’è che il presupposto del tributo è costituito unicamente dalle superfici «suscettibili di produrre rifiuti urbani» ai sensi dell’art. 1, comma 641, L. n. 147/2013.

La TARI, infatti, come tutte le tasse, è collegata alla fruizione di un servizio pubblico, ricostruito attraverso la connotazione di tale tipologia di tributi come “entrata commutativa”, ovvero giustificata costituzionalmente non già dal principio di capacità contributiva bensì da un rapporto di scambio ove il contribuente riceve un’utilità, anche solo potenziale, dalla prestazione cui è collegata l’entrata tributaria, differentemente dalle imposte che, come è noto, sono basate su una ricostruzione teorica di tipo contributivo, ovverosia fondate su un rilievo costituzionale di apprezzabilità di un indice di capacità contributiva legato all’art. 53 Cost.

L’affermazione della Cassazione secondo cui, pertanto, «l’obbligo del pagamento della quota fissa che non è parametrata alla quantità dei rifiuti gestiti dal servizio pubblico e ai costi di erogazione del servizio, ma è destinata per legge alla copertura dei costi di investimento ai quali debbono partecipare tutti», definisce una connotazione della quota fissa della TARI come tributo con le caratteristiche tipiche delle imposte, ove l’obbligo di pagamento viene richiesto a fronte di spese sostenute per servizi indivisibili, senza alcun collegamento con la potenziale fruibilità del servizio pubblico. La quota fissa, infatti, nei casi delle superfici produttive di rifiuti speciali, è commisurata ai metri quadrati e non ha alcuna attinenza con la misura dell’utilizzo del servizio pubblico. La successiva sentenza 28 agosto 2024, n. 23228, richiama poi in modo espresso la funzione “redistributiva” e “solidaristica” della quota fissa TARI (si v. infra, par. 2).

Né vale a supportare l’interpretazione qui contestata il riferimento, centrale nel ragionamento del giudice di legittimità, ai criteri di determinazione della tariffa del prelievo, così come desunti dal D.P.R. n. 158/1999. È ben vero infatti che la tariffa della TARI è articolata in un quota fissa, a fronte delle spese generali del servizio, e in una quota variabile, a fronte della potenziale produttività di rifiuti della categoria di attività, ma, premesso che si tratta sempre e solo del costo del servizio di gestione dei rifiuti urbani, e non di quelli speciali, resta il fatto incontrovertibile che la disciplina per la individuazione delle aree tassabili e di quelle escluse è racchiusa nella normativa sostanziale del tributo1 e non certo nel suddetto D.P.R. n. 158/1999, che ha la ben diversa funzione di delineare le regole tecniche dell’algoritmo alla base della costruzione del prelievo.

Appare poi discutibile e fuorviante il ragionamento della Cassazione allorquando rinviene la giustificazione del prelievo (par. 9.1) nella circostanza che il produttore di rifiuti speciali riceverebbe comunque una “indubbia utilità” dal fatto che utilizza il servizio pubblico per i rifiuti prodotti sulle aree adibite ad ufficio, mensa o altro. Il riferimento della Corte pare indicare l’ipotetica sussistenza di un collegamento con la l’astratta possibilità di produrre rifiuti per mezzo di un’attività antropica inquinante. Premesso che, ovviamente, ciò che rileva è sempre e solo, come si è detto, l’utilità teorica e mai quella effettiva, anche nell’ordinaria disciplina della TARI2, nello specifico si tratta di un vantaggio, tuttavia, neppure ipotetico, ma frutto di una costruzione giurisprudenziale.

Sempre seguendo il ragionamento della Corte, quid iuris se nel Comune di riferimento fosse ubicato solo lo stabilimento produttivo e invece gli uffici e le altre aree fossero dislocate presso il territorio di un altro Ente locale? Oltre a ciò, occorre tenere presente che il principio affermato dal giudice di legittimità appare di applicazione generalizzata ove solo si ponga mente alla massima nella parte in cui si afferma, senza possibilità di equivoci, che sono soggette alla quota fissa TARI tutte le unità immobiliari ubicate nel comune «in quanto potenzialmente idonee ad ospitare attività antropiche inquinanti ed a costituire un carico per il gestore del servizio». Ne deriva che le medesime conclusioni dovrebbero valere, ad esempio, per gli immobili inagibili e non utilizzabili, anche in relazione ai quali è davvero complesso anche solo immaginare un vantaggio potenziale derivante dal servizio pubblico di gestione dei rifiuti.

La verità in termini giuridici, in effetti, sta al di là delle espressioni ricercate della Cassazione: il produttore di rifiuti speciali, per definizione e pur esercitando “un’attività antropica inquinante”, non pesa affatto sul servizio pubblico, poiché tenuto a sopportare in proprio il costo della gestione dei rifiuti dallo stesso prodotti. Il costo di gestione dei rifiuti speciali, infine, non è contemplato dal Piano Economico Finanziario che i Comuni devono redigere ogni anno ai fini della determinazione delle tariffe (in quota fissa o variabile), pertanto non incide in alcun modo sulla determinazione delle stesse. Posto ciò, quale sarebbe l’utilità potenziale e/o presunta di cui potrebbe fruire il detentore?

L’interpretazione adottata dalla Suprema Corte assume, infine, i caratteri di contrarietà al noto principio unionale “chi inquina paga”, sancito nell’art. 191, comma 2, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, oltre che in numerose direttive comunitarie in materia di rifiuti, come verrà approfondito nei paragrafi succcessivi.

2. La Corte di Cassazione, nell’interpretazione adottata secondo cui la quota fissa è sempre dovuta mentre l’esenzione riguarda la sola quota variabile, pare non cogliere la differenza tra fattispecie di esclusione del presupposto ex lege e fattispecie di esenzione, al contrario ben chiara nella giurisprudenza della Corte Costituzionale: proprio in materia di tributi locali, infatti, la Consulta ha avuto modo di chiarire che la fattispecie di esenzione al pagamento del tributo si declina secondo una formula casistica, affermando la natura dell’esenzione d’imposta come norma eccezionale derivante da apposita previsione di legge e non suscettibile di estensione analogica (cfr., in materia di IMU, ma con estensione dei principi espressamente indicata anche al caso della TARI, Corte cost. 18 aprile 2024, n. 60, parr. 3 e 5.1; Corte cost., 20 febbraio 2024, n. 21, par. 10.6).

Più specificamente, la Corte costituzionale ha sin dalla giurisprudenza più risalente affermato che «non è consentito a questa Corte estendere norme di esenzione da una imposta all’altra, e tantomeno prendere in considerazione la richiesta di una diversa modulazione dei criteri legislativi sui presupposti e sulla natura degli istituti» (Corte cost., 6 marzo 2001, n. 49); la Consulta qualifica poi il presupposto costitutivo dell’esenzione come coincidente con «norma che disciplina direttamente l’esenzione» (Corte cost., 26 ottobre 1992, n. 400, par. 2), ovvero, con precisazione in termini, di «disciplina, complessivamente considerata, e in particolare delle disposizioni sulle ipotesi di esenzione e di riduzione» (Corte cost., 19 luglio 2000, n. 301, par. 1).

Diversamente, le fattispecie di esclusione dalla base imponibile (e non di esonero dal pagamento del tributo), si connotano per una differente funzione di definizione del presupposto impositivo; elemento, quest’ultimo, assunto come postulato necessario nel modus argumentandi adottato dalla Consulta in numerosi pronunciamenti, ove ha definito la differenziazione tra esenzioni e esclusioni, studiata dapprima in dottrina e sviluppata poi nella giurisprudenza della Corte Costituzionale. In tal senso, le esenzioni sollevano dall’obbligo del pagamento dell’imposta determinati soggetti a differenza di altri, mentre, invece, le esclusioni delineano i limiti dell’imposizione di un determinato tributo restringendone il campo di applicazione.

Ciò emerge nella giurisprudenza costituzionale, in particolare e con riferimento ai tributi locali, nel caso della definizione del presupposto impositivo dell’ILOR: «con sentenza n. 198 del 1998 è stata dichiarata la infondatezza della questione, in quanto la legge di delega aveva stabilito in sede di istituzione dell’ICI, quale criterio direttivo, la esclusione dei redditi dominicali delle aree fabbricabili, dei redditi dei terreni agricoli e dei redditi dei fabbricati dall’ambito di applicazione dell’Ilor» (Corte cost., 31 luglio 2000, n. 403, par. 3). Similmente, in tema di ICI – IMU, le fattispecie di esclusione dalla formazione del presupposto impositivo sono state ricondotte nel novero dell’art. 53 Cost., nella misura in cui «rientra nelle scelte del legislatore, non impedite da principi costituzionali, l’esclusione delle somme corrisposte per l’ICI dalla deduzione dell’imponibile IRPEF o IRPEG» (Corte cost., 24 giugno 1994, n. 263, par. 5.2 e, con riferimento all’addizionale IMU sui cc.dd. “immobili di lusso” v. Corte cost., 23 dicembre 2019, n. 288, par. 2.2.1).

Sul carattere di eccezionalità della norma di esenzione, sono state autorevolmente assunte posizioni differenti: una prima scuola di pensiero, particolarmente invalsa nella giurisprudenza di legittimità, valorizza i profili di interpretazione restrittiva della norma di esenzione, riconducendone gli elementi oggettivi, soggettivi e temporali della fattispecie esentativa al modello della norma eccezionale (ai sensi dell’art. 14, disp. prel. c.c.); una seconda scuola di pensiero, differentemente, e con sviluppo principalmente dottrinale, valorizza, anziché la portata di eccezionalità della norma esentativa, il profilo di relazione esistente tra norma generale impositiva e norma d’esenzione, in termini di deroga di quest’ultima, rispetto alla norma generale. Da ciò discende che, a differenza della prima scuola di pensiero, una volta identificata la ratio legis dell’esenzione, essa è suscettibile di applicazione analogica, «a meno che non si tratti di fattispecie esclusive», ossia di norme che per espressa dichiarazione del legislatore «devono essere riservate ai casi e ai tempi in esse espressi» (Falsitta G., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 102-103) In altri termini, come successivamente argomentato (Miceli R., Attività illecite e norme di esenzione nel sistema Iva, in Riv. dir. trib., 2002, 9, 522 ss. spec. nota n. 36), nell’indagine volta all’individuazione dei criteri interpretativi della fattispecie esentativa si è negata, in via generale, la natura di norme eccezionali alle disposizioni di esenzione, affermando invece che fosse di volta in volta necessaria un’analisi sulle singole norme, finalizzata a metterne in luce la natura eccezionale o derogatoria” (Moschetti F., Agevolazioni fiscali. Problemi di legittimità costituzionale e principi interpretativi, in Dig. disc. priv., sez. comm., I, Torino, 1987, 84 ss.). In ogni caso pare ragionevole ed opportuno valutare la natura derogatoria dell’esenzione in relazione al sistema di ogni singolo tributo in quanto l’esenzione (in deroga) tutela un valore oggetto di un’altra disposizione (la norma derogata).

Sul punto, partendo dalla rielaborazione critica della giurisprudenza costituzionale, altra dottrina rileva, sul tema, che «non può, invece, considerarsi legittima una agevolazione […] destinata a ribaltare il rapporto tra regola (imposizione) ed eccezione (esenzione)» (Corasaniti G., Il passaggio generazionale delle aziende e l’imposizione successoria: dalla Consulta le indicazioni al legislatore per la revisione del [sospettato di incostituzionalità] vigente regime agevolativo, in Giur. cost., 2020, 3, 136 ss.).

La Corte Costituzionale con la sentenza 3 ottobre 2019, n. 218 in riferimento alla natura eccezionale delle norme sulle agevolazioni tributarie, ha quindi affermato, in via generale, che norme di tale tipologia, aventi carattere eccezionale e derogatorio, costituiscono esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile solo per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità (sent. n. 292/1987; ord. n. 174/2001).

Nella più recente giurisprudenza di legittimità, infine, si registra un effettivo radicamento del riconoscimento del carattere di eccezionalità della norma di esenzione, come sua caratteristica indefettibile: in tema di ICI, è stato infatti affermato che il carattere eccezionale proprio delle norme di esenzione preclude una interpretazione estensiva o analogica della disposizione in esame, che deve ritenersi pertanto inapplicabile (Cass., ord. 8 agosto 2024, n. 22501, parr. 4 e 5), dovendosi quindi escludere che l’esenzione dal tributo, in ragione della natura eccezionale del trattamento tributario agevolativo, sia applicabile al di fuori dei casi espressamente previsti (così Cass., 4 maggio 2022, n. 14043 e Cass., ord. 20 novembre 2023, n. 32105, par. 3).

3. Nell’ordinanza n. 13455/2024, la Cassazione rileva che le ipotesi di esclusione dalla base imponibile di cui all’art. 1, comma 649, L. n. 147/2013 si riferiscano alla sola quota variabile del tributo e non anche a quella fissa, in quanto «nel sistema delineato dal legislatore, la quota fissa e la quota variabile devono coprire integralmente i costi sopportati per la gestione del ciclo dei rifiuti, sia per gli investimenti effettuati sia per l’esercizio del servizio. Inoltre, sempre secondo quanto si ricava dalla norma, la quota fissa incide in misura predeterminata, avendo la funzione di assicurare la copertura degli investimenti, laddove la quota variabile è determinata per ciascuna tipologia di utente in ragione della quantità dei rifiuti conferiti, al servizio fruito e così via. Sarebbe, per vero, del tutto illogico esentare dal versamento della quota fissa un operatore economico che, comunque, per conferire sicuramente al servizio pubblico almeno una parte dei rifiuti prodotti (quelli derivanti da uffici e servizi), ritrae dagli investimenti eseguiti per la gestione del ciclo dei rifiuti una indubbia utilità»; di talché, sarebbe «del tutto irrazionale una disposizione che esentasse totalmente dal pagamento della TARI soggetti che, comunque, fruiscono del relativo servizio. E ciò tanto più se si considera che per legge (art. 1, co. 654, L. n. 147/2013) deve in ogni caso essere assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio relativi al servizio».

Il ragionamento decisorio del giudice di legittimità (che si pone in linea di continuità con quanto affermato, tra le altre, dalla stessa Cass., sez. trib., 31 gennaio 2024, n. 2937, par. 5.2), risulta tuttavia in evidente contrasto con la giurisprudenza più recente della Corte costituzionale, laddove la stessa precisa, ratione materiae, che «l’art. 1, comma 654, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014) stabilisce, in materia di TARI (tassa sui rifiuti), che in ogni caso deve essere assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio relativi al servizio, ricomprendendo anche i costi di cui all’articolo 15 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36, ad esclusione dei costi relativi ai rifiuti speciali al cui smaltimento provvedono a proprie spese i relativi produttori comprovandone l’avvenuto trattamento in conformità alla normativa vigente» (Corte cost., 2 febbraio 2023, n. 11, par. 4.4.2).

L’ordinanza n. 13455/2024, invece, afferma un arbitrario sdoppiamento della TARI in una quota fissa che assumerebbe i connotati di imposta, e una quota variabile che, diversamente, risponderebbe di più ad un modello impositivo della “tassa”, con ciò, in ogni caso, operando una limitazione della fattispecie, unica nel suo genere, di esclusione dal presupposto impositivo alla sola “quota variabile” e non anche alla “quota fissa” (v. parr. 9.2 e 9.3 in particolare).

La norma permette, invece, di considerare intassabili le aree sulle quali si svolgono le lavorazioni industriali o artigianali, che in genere producono in via prevalente rifiuti speciali, poiché la presenza umana determina la formazione di una quantità non apprezzabile di rifiuti urbani, non potendosi dunque ritenere corretto applicare il prelievo sui rifiuti alle superfici specificamente destinate alle attività produttive anche sotto il profilo di una ingiustificata duplicazione di costi, poiché i soggetti produttori di rifiuti speciali, oltre a far fronte al prelievo comunale, dovrebbero anche sostenere il costo per lo smaltimento in proprio degli stessi rifiuti.

Per altro verso ed anche rispetto al tema della natura giuridica, tributaria o privatistica, delle tariffe di cui alla L. n. 147/2013, un importante precedente è sicuramente rappresentato dalla costante giurisprudenza della Consulta, a mente della quale «questa Corte, mediante numerose pronunce, ha indicato i criteri cui far riferimento per qualificare come tributari alcuni prelievi. Tali criteri, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina i prelievi stessi, consistono nella doverosità della prestazione, nella mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (ex multis: sentenze n. 141 del 2009; n. 335 e n. 64 del 2008; n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005» (Corte cost., 24 luglio 2009, n. 238, par. 7.2.1); nello stesso pronunciamento si sottolinea, del pari e con particolare riferimento alla natura pubblicistica, tributaria e di tassa della TARSU (ma con rilievi replicabili in rapporto alla TARI), che «il legislatore, nel ridisciplinare il suddetto prelievo comunale, ha individuato nel costo di erogazione del servizio il limite massimo di gettito, al netto delle entrate derivanti dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti sotto forma di materiali o energia; e ciò in coerenza con la denominazione di “tassa” […] Nella medesima prospettiva della natura pubblicistica del prelievo, mediante la «tassa» venissero coperti (in tutto o in parte) anche i costi dei servizi di smaltimento (cioè di «conferimento, raccolta, spazzamento, cernita, trasporto, trattamento, ammasso, deposito, discarica sul suolo e nel suolo») non solo dei rifiuti «interni», ma anche di quelli «di qualunque natura e provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o soggette ad uso pubblico» (cosiddetti “esterni”) e che fossero tenuti al pagamento (sia pure in misura ridotta) anche gli occupanti di case coloniche e “case sparse” non ubicate nella zona di raccolta dei rifiuti» (Corte cost., 24 luglio 2009, n. 238, par. 6.1.1 e, successivamente, ripresa con riferimento al tributo TIA-1 in Corte cost., 24 febbraio 2010, n. 64).

D’altro canto, l’originario errore in cui incorre il Giudice di legittimità per giustificare la destinazione della quota fissa TARI al finanziamento delle spese generali del servizio di gestione dei rifiuti e con essa l’applicazione generalizzata della quota medesima, è quello di connotare in tal modo la TARI a guisa di imposta, come se si potesse prescindere dalla mancanza di qualsiasi collegamento sia alla quantità di rifiuti conferiti sia all’oggettiva fruizione del servizio, tant’è che la Corte ricorre al principio di capacità contributiva per supportare la legittimità costituzionale del tributo in esame.

Che l’impostazione teorica richiamata sia, nella sostanza, quella tipica delle imposte è ulteriormente e inconfutabilmente suffragato dalla successiva e recentissima sentenza 28 agosto 2024, n. 23228, in cui la Cassazione si spinge sino a rilevare il «fondamento solidaristico della quota fissa» nonché la «funzione redistributiva» di quest’ultima (par. 12.3), che sono concetti e nozioni che non appartengono, quantomeno in termini generali, alla tassa, ancor più ove si consideri che, specificamente in relazione alla disciplina TARI, la quota fissa “pesa”, in media, per circa la metà della tariffa TARI.

L’equivoco in cui cade il giudice di legittimità sembra per vero nascere da un malinteso interpretativo, in quanto la Cassazione applica al regime di TARI il criterio di tassazione affermato in ambito di TIA1 (art. 49 D.Lgs. n. 22/1997). Il punto qui è che, mentre nella TIA una simile conclusione non trovava cause ostative nella disciplina normativa di riferimento, nella TARI, invece, è vero il contrario in quanto l’art. 1, comma 649, L. n. 147/2013, stabilisce che «nella determinazione della superficie assoggettabile a Tari non si tiene conto di quelle ove si formano rifiuti speciali», senza alcuna distinzione tra quota fissa e variabile. Oltre a ciò, il presupposto del tributo è costituito «solo dalle superfici suscettibili di produrre rifiuti urbani» (art. 1, comma 641, L. n. 147/2013).

Del resto, e conclusivamente sul punto, lo stesso Legislatore ha espressamente qualificato la TARI come tassa ex art. 1, commi 639 ss., L. n. 147/2013 che, come tale, è collegata alla fruizione di un servizio pubblico e giustificata costituzionalmente da un rapporto di scambio ove il contribuente riceve – o è messo in condizioni di ricevere – un’utilità dalla prestazione cui è collegata l’entrata tributaria.

Sulla base di tali premesse, si ritiene quantomai necessario un intervento della Corte Costituzionale volto a definire la questione della compatibilità, rispetto al principio della capacità contributiva, del presupposto della commisurazione della quota fissa, rappresentato essenzialmente dalla mera estensione della superficie detenuta. Infine, ed anche a voler tenere in considerazione quell’utilità astratta e presunta di cui parla Cassazione (per quanto si sia, tuttavia, dimostratasi insussistente), allora bisognerebbe comunque indagare sul piano della costituzionalità la relazione tra ratio della norma e sua concreta disciplina, ove i parametri di giudizio sarebbero comunque quelli della ragionevolezza e della proporzionalità.

4. L’orientamento della Corte di Cassazione in commento si pone inoltre in evidente contrasto con l’art. 191, comma 2, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, oltre che con i principi stabiliti dalla Corte di Giustizia in materia di tassazione ambientale.

Nel settore dei rifiuti, vige infatti il principio “chi inquina paga”, sancito nell’art. 191, comma 2, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, oltre che in plurime direttive comunitarie in materia di rifiuti3. A mente di tale principio, che pone un obbligo di risultato sui singoli Stati membri dell’Unione, il costo di gestione dei rifiuti deve far carico ai produttori dei rifiuti stessi. Al riguardo, la Corte di Giustizia UE ha avuto modo di precisare in diverse occasioni il contenuto propriamente precettivo del suddetto principio; tra queste si segnala la sentenza 16 luglio 2009, C – 254/08, proprio in materia di TARSU, in cui, seppure confermando la compatibilità del prelievo con la disciplina unionale, la Corte precisò che: «A questo proposito si deve constatare che, al fine del calcolo di una tassa sullo smaltimento dei rifiuti, una differenziazione tributaria fra categorie di utenti del servizio di raccolta e di smaltimento di rifiuti urbani, alla guisa di quella operata dalla normativa nazionale di cui trattasi nella causa principale fra le aziende alberghiere e i privati, in funzione di criteri obiettivi aventi un rapporto diretto col costo di detto servizio, quali la loro capacità produttiva di rifiuti o la natura dei rifiuti prodotti, può risultare adeguata per raggiungere l’obiettivo di finanziamento di detto servizio. Anche se la differenziazione tributaria così operata non deve andare al di là di quanto necessario per raggiungere tale obiettivo di finanziamento, va tuttavia sottolineato che, nella materia in esame e allo stato attuale del diritto comunitario, le competenti autorità nazionali dispongono di un’ampia discrezionalità per quanto concerne la determinazione delle modalità di calcolo di siffatta tassa. Spetta pertanto al giudice a quo accertare, sulla scorta degli elementi di fatto e di diritto che gli sono stati sottoposti, se la tassa sui rifiuti su cui verte la causa principale non comporti che taluni «detentori», nel caso di specie le aziende alberghiere, si facciano carico di costi manifestamente non commisurati ai volumi o alla natura dei rifiuti da essi producibili» (enfasi aggiunta).

Ebbene, proprio alla luce del monito finale contenuto nella sentenza su citata, non è difficile concludere che l’applicazione della quota fissa ai soggetti che non si avvalgono né possono avvalersi, neppure in parte, del servizio pubblico di gestione dei rifiuti comporta quale conseguenza inevitabile il trasferimento di una frazione non indifferente del costo suddetto a utenti che non producono i rifiuti stessi. In questo modo, si contravviene, a evidenza, proprio a quel principio di correlazione tra produzione dei rifiuti e contribuzione alla spesa di trattamento dei medesimi che è alla base della finalità di responsabilizzazione perseguita dal suddetto principio “chi inquina paga”.

Con la succitata sentenza n. 23228/2024, la Corte si occupa per la prima volta anche dell’impatto della sua interpretazione in punto di compatibilità con il diritto unionale, non ravvisando alcun elemento di conflitto con quest’ultimo. Questa parte della sentenza, racchiusa sempre nell’ampio e cruciale par. 12.3, si risolve per vero nella trascrizione di ampi stralci di pronunce della Corte di Giustizia, in cui il giudice UE, sebbene affermi la sussistenza di una ampia discrezionalità dei legislatori nazionali, nell’applicare il principio chi inquina paga, e riconosca la validità di sistemi di finanziamento del costo del servizio fondati su criteri di stima delle quantità di rifiuti potenzialmente producibili, comunque ribadisce il criterio innanzi ricordato, a mente del quale non è conforme al diritto unionale il prelievo che comporti l’addebito di costi manifestamente sproporzionati ai rifiuti effettivamente attribuibili a ciascun produttore. E, sebbene sia vero, che non può escludersi che anche il produttore di rifiuti speciali, sulle aree esenti, possa formare anche rifiuti urbani, seppure in quantità minimali, questo non può certo legittimare l’applicazione dell’intera quota fissa su tutte le aree dallo stesso detenute. Il problema si pone in termini esattamente rovesciati rispetto a quanto opinato dalla Corte nella sentenza n. 23228, che paventa, laddove si argomenti ex adverso, una ingiustificata penalizzazione delle famiglie: proprio addebitando al produttore dei rifiuti speciali l’intero ammontare della quota fissa si finisce per avvantaggiare le utenze domestiche che sono i principali fruitori del servizio pubblico.

Detto in altri termini, la Corte dovrà prima o poi avvedersi come la disciplina sovranazionale si opponga a che il finanziamento del costo del servizio di gestione dei rifiuti avvenga con modalità di tipo solidaristico o redistributivo; sebbene in termini generali non si possa escludere che tali modalità siano perseguite anche attraverso tributi diversi dalle imposte, nella disciplina TARI è il diritto unionale che lo esclude.

5. La prospettiva che si può trarre dall’orientamento di legittimità in analisi è che purtroppo, come già avvenuto di recente per altri tributi gestiti dai Comuni, la Cassazione, con interpretazioni di dubbia legittimità costituzionale (e in questo caso anche unionale), assuma e poi consolidi orientamenti che creano più problemi agli Enti di quanti ne risolvano sotto il profilo del gettito, ponendo gli stessi in obiettiva difficoltà sia nelle scelte nella gestione delle attività accertative, sia sotto il profilo delle successive, non improbabili, azioni restitutorie a seguito dell’intervento di censura costituzionale (in particolare con riferimento alle sentenze 13 ottobre 2022, n. 209 e 5 marzo 2024, n. 60).

Senza dimenticare il sensibile aggravio impositivo che si determina a carico delle imprese, se solo si pone mente al fatto, innanzi già rappresentato, che la quota fissa di TARI, nelle concrete esperienze applicative, solitamente supera la metà della tariffa piena, così atteggiandosi come un prelievo aggiuntivo tutt’altro che modesto o “solidaristico”.

Si auspica quindi che venga sollecitato ancora una volta, in via giurisdizionale, un nuovo intervento della Corte costituzionale che regoli le pronunce di “diritto creativo” della Corte di Cassazione.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2024 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

(**) Pur essendo la nota il frutto di una riflessione congiunta degli Autori, i paragrafi 1 e 2 del saggio sono riferibili a Christian Califano, i paragrafi 3 e 4 a Luigi Lovecchio e le conclusioni (paragrafo 5) a entrambi.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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1 Art. 1, comma 641 ss., L. n. 147/2013.

2 Ciò che conta infatti è che il produttore di rifiuti possa utilizzare il servizio pubblico anche se in concreto decide di non avvalersene: ex multis, si veda Cass. n. 17564/2023.

3 Si veda ad esempio l’art. 14, Direttiva 2008/98/CE

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