Riforma sanzioni: l’obbligo di adeguarsi alle circolari tra pericoli di rottura della legalità costituzionale, resurrezione del “solve et repete” e neonata impugnabilità degli atti di indirizzo
Di Alberto Marcheselli e Stefano Ronco
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Abstract (*)
Il neo-introdotto comma 5-ter dell’art. 6 D.Lgs. n. 472/1997 dispone che non è punibile il contribuente che si adegua alle indicazioni rese dall’amministrazione competente entro i successivi sessanta giorni dalla data di pubblicazione delle stesse, ponendo dubbi interpretativi, difficilmente eludibili, in tema di colpevolezza e rispetto del principio di legalità, oltre che di coordinamento con le cause di non punibilità.
Penalty reform: the obligation to comply with circulars amid dangers of breaking constitutional legality, resurrection of “solve et repete,” and newborn appealability of guidance acts – The newly-introduced paragraph 5-ter of Article 6 of Legislative Decree No. 472/1997 stipulates that a taxpayer who complies with the indications rendered by the competent administration within the next sixty days from the date of the publication is not punishable, posing interpretative doubts, which are difficult to avoid, on the subject of culpability and compliance with the principle of legality, as well as coordination with the causes of non-punishability.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il modello personalistico e la colpevolezza nel disegno del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e la loro successiva crisi. – 3. Il neo-introdotto art. 6, comma 5-ter, D.Lgs. n. 472/1997: il pericolo della trasformazione della prassi in norma ‘cogente’. – 4. La integrazione amministrativa della norma tributaria incerta, richiamata da una disposizione sanzionatoria in bianco è conforme ai principi costituzionali? – 5. L’emersione di una posizione giuridica meritevole di tutela in capo al contribuente avverso gli atti ‘atipici’ dell’Amministrazione finanziaria: spunti ricostruttivi alla luce della giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Cassazione. – 6. Cenni conclusivi: crisi del principio di legalità in materia tributaria, strumenti di tutela del contribuente: quali prospettive: la necessità di una revisione complessiva degli atti impugnabili?
1. Tra le tante modifiche apportate dal D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87 si segnalano gli interventi che hanno interessato la disciplina delle cause di non punibilità in materia di sanzioni amministrative tributarie di cui all’art. 6 D.Lgs. n. 472/1997.
A tale riguardo merita, in specie, soffermarsi sul neo-introdotto comma 5-ter che dispone che «non è punibile il contribuente che si adegua alle indicazioni rese dall’amministrazione competente con i documenti di prassi riconducibili alle tipologie di cui all’articolo 10-sexies, comma 1, lettere a) e b), della legge 27 luglio 2000, n. 212, provvedendo, entro i successivi sessanta giorni dalla data di pubblicazione delle stesse, alla presentazione della dichiarazione integrativa e al versamento dell’imposta dovuta, sempreché la violazione sia dipesa da obiettive condizioni d’incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria».
L’interesse ad approfondire tale disposizione è motivato da un duplice ordine di ragioni, sia di carattere pratico-operativo, sia teorico-sistematico.
Dal punto di vista eminentemente operativo basti osservare che l’art. 6, comma 5-ter, D.Lgs. n. 472/1997 trova applicazione sostanzialmente immediata, in quanto l’art. 5 D.Lgs. n. 87/2024 ne dispone l’operatività già a partire dal 1° settembre. Ciò implica, in buona sostanza, che, a partire dal 1° settembre, le indicazioni fornite tramite circolare o documento di consulenza giuridica dall’Amministrazione finanziaria hanno l’effetto di ‘disinnescare’ l’operatività della causa di non punibilità (rectius, causa di esclusione della colpevolezza – cfr. Mantovani F., Diritto penale, Padova, 2015, 361) data dalla sussistenza di una situazione d’incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria, codificata, come noto, all’art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997, all’art. 10, comma 3, L. n. 212/2000 ed all’art. 8, D.Lgs. n. 546/1992. In altre parole, a partire da tale data, la pubblicazione di circolari o atti di consulenza giuridica imporrà al contribuente di valutare, caso per caso, se continuare a confidare nella bontà della tesi interpretativa fino a quel momento seguita, con la consapevolezza, però, di non potersi più successivamente avvalere, in sede amministrativa o contenziosa, dell’istituto della declaratoria di non punibilità, oppure allinearsi alla posizione interpretativa fatta propria dall’Amministrazione finanziaria, presentando dichiarazione integrativa entro 60 giorni dalla pubblicazione dell’orientamento di prassi in questione. Ogni altra interpretazione priverebbe la norma di qualsiasi significato.
Ciò posto, la norma in esame si segnala all’attenzione soprattutto per le sue ricadute di carattere sistematico. In effetti, essa, anche se è formulata in modo da saldarsi con la disciplina e le conseguenze delle condizioni di obiettiva incertezza, ha degli effetti di ben più ampia portata.
In concreto essa comporta che nel caso di condotta – contraria a una legge la cui interpretazione è talmente dubbia da costituire obiettiva incertezza – la sanzione resta applicabile, nonostante l’originaria incertezza, se il contribuente non si ravvede, adeguandosi alla circolare che chiarisce il significato della disposizione, entro 60 giorni.
Tale regola non può, evidentemente, giustificarsi, nella logica di sistema, come sanzione per l’originaria condotta, per l’ovvio fatto che, sussistendo la incertezza al momento della condotta, quella non può essere punibile per difetto di colpevolezza. E che, come ovvio, la colpevolezza non può sopravvenire al fatto. Se questa fosse la giustificazione, se cioè la norma dovesse intendersi come prevedere un inaudito sorgere di una colpa ex post, si tratterebbe di precetto costituzionalmente abnorme in modo talmente marchiano da non richiedere approfondimento alcuno.
Essa, evidentemente, si può tentare di giustificare solo in un altro modo, come norma che impone il ravvedimento successivo – l’adeguamento alla circolare – e punisce l’inosservanza di tale dovere – di ravvedersi – nel termine perentorio di legge.
Ciò posto, la norma in esame è altresì di rilievo in quanto costituisce spia della progressiva crisi del principio di legalità in materia tributaria.
In questo senso, infatti, l’orientamento di prassi ‘qualificato’ dell’Amministrazione finanziaria, nella misura in cui fa venire meno per il futuro la sussistenza di una condizione d’incertezza che opera quale causa di non punibilità della condotta illecita e obbliga a ravvedersi, viene a produrre un vero e proprio effetto giuridico, tanto da far sospettare che essa venga ad assurgere a vera e propria fonte secondaria dell’ordinamento (ipotesi avvalorata dalla funzione di indirizzo interpretativo svolta dal Ministero dell’Economia ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 nella predisposizione delle circolari dell’Amministrazione finanziaria) e, allo stesso tempo e in ogni caso, si pone quale elemento integrativo del precetto sanzionatorio, in quanto, definendo i confini della sottostante norma impositrice e determinando l’obbligo di adeguarsi in 60 giorni, si traduce nel presupposto per l’applicazione della sanzione tributaria.
In ottica sanzionatoria ciò ha un ulteriore risvolto: l’acquisita rilevanza attribuita alla presa di posizione dell’Amministrazione finanziaria incide sui rapporti tra disciplina sanzionatoria e ‘regolamentazione’ sostanziale tributaria, aggiungendo alla norma tributaria la circolare quale inedita fonte (o elemento) integrativa, che fa scattare obbligo tributario (quello di adeguarsi alla circolare, ravvedendosi rispetto alla condotta precedente).
In sostanza, fermo restando che la più gran parte delle norme che prevedono le sanzioni tributarie sono norme in bianco, che rinviano a norme tributarie sostanziali per la definizione degli obblighi il cui inadempimento è sanzionato, la nuova disciplina fa ‘salire’ la circolare al rango di elemento integrativo della norma tributaria, che produce direttamente obblighi giuridici.
Molteplici sono quindi i profili che vengono chiamati in causa, su cui ci si intende soffermare nel prosieguo seppure solo per cenni di inquadramento introduttivo: dalla legittimità costituzionale di tale regime, alle ricadute in ottica processuale in ordine all’emersione di una posizione giuridica meritevole di tutela in capo al contribuente e a una nuova categoria di atti impugnabili – posto che la mancata condivisione dei contenuti risultanti in circolari ed atti di consulenza giuridica inibisce il ricorso ad un istituto (l’obiettiva incertezza) che adegua lo strumento punitivo tributario al principio di colpevolezza – al coordinamento tra il citato art. 6, comma 5-ter con le altre cause di non punibilità richiamate dall’art. 6 D.Lgs. n. 472/1997 e con lo stesso art. 10, comma 2, L. n. 212/2000 che, come noto, valorizza l’affidamento e la buona fede del contribuente quale condizione atta a giustificare, autonomamente, la disapplicazione della sanzione tributaria.
2. Tra gli aspetti maggiormente caratterizzanti la riforma del D.Lgs. n. 472/1997 in chiave personalistica stava la valorizzazione del principio di colpevolezza, contenuto indefettibile per l’applicazione di una sanzione punitiva, per l’ovvia ragione che non ha alcun senso, in apicibus, ‘punire’ condotte non colpevoli: chi non sa o non poteva e doveva ragionevolmente sapere di fare il male non merita di essere punito e, in ottica di deterrenza o rieducazione, non può avere effetto di prevenzione speciale “punire” condotte fuori dal controllo soggettivo dell’agente.
Come noto, l’attenzione all’elemento della colpevolezza, latamente inteso, è dimostrata dal richiamo ad una pluralità di istituti all’interno dell’art. 6 D.Lgs. n. 472/1997, che rispecchiano l’obiettivo del legislatore di tracciare un parallelismo tra la disciplina punitiva di conio amministrativo e quella di matrice penale, del resto ormai obbligato alla luce della giurisprudenza CEDU e Costituzionale.
Basti richiamare le cause di esclusione della colpevolezza connesse all’errore sul fatto dovuto ad errore di fatto (art. 6, comma 1) ed all’ignoranza inevitabile della legge tributaria (art. 6, comma 4), alle previsioni che delimitano l’area del mendacio punibile in relazione agli illeciti dichiarativi (art. 6, comma 1), alle disposizioni che inibiscono la punibilità qualora la violazione sia esclusivamente addebitabile a terzi (art. 6, comma 3) o sia frutto di eventi circostanze anormali e imprevedibili, le cui conseguenze non potevano essere evitate dal contribuente nonostante l’adozione di tutte le precauzioni del caso (art. 6, comma 5), così come alla norma che esclude la trasmissibilità agli eredi.
Ma l’espressione di maggior interesse dell’attenzione riservata dal legislatore al principio di colpevolezza è certamente data dalla disciplina dell’errore derivante da «obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono», di cui all’art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997 (circostanza, testimoniata, dal fatto che l’attenzione per la tutela del contribuente a fronte di norme di ‘incerta’ applicazione costituisce un aspetto ricorrente nel formante legislativo, come dimostrato dal fatto che, aldilà del citato art. 6, comma 2, norme con finalità assimilabili sono contenute all’art. 8 D.Lgs. 546/1992 ed all’art. 10, comma 3, L. n. 212/2000).
Tale disposizione, a ben vedere, richiama in sede tributaria l’istituto dell’errore sul fatto dovuto ad errore su legge extra-penale sancito all’art. 47, comma 3, c.p., norma che prende atto del fatto che il soggetto che non adempie a un obbligo perché incolpevolmente ne ignorava la sussistenza non sa di fare il male, e quindi non è colpevole. In ciò consiste la differenza con la diversa ipotesi di ignoranza della norma sanzionatoria: una cosa è non sapere di fare il male (che esclude la colpevolezza), un’altra non sapere che chi fa il male viene punito (che non scusa salvo il caso estremo della assoluta inconoscibilità).
La disciplina prende atto delle peculiarità delle fattispecie sanzionatorie fiscali che – diversamente dalle sanzioni penali che contengono, oltre alla sanzione, anche il comando o divieto di porre in essere una determinata condotta – non sono praticamente mai autosufficienti e compiono – si pensi agli illeciti dichiarativi – un rinvio ‘in bianco’ alle norme tributarie sostanziali per la definizione degli obblighi il cui inadempimento è sanzionato.
Se, quindi, nel diritto penale comune l’istituto de quo ha un ambito applicativo abbastanza limitato, in quanto acquisisce rilievo nei soli casi in cui il precetto è oggetto di completamento ad opera di norme extra-penali (ponendosi poi l’annosa questione in ordine all’individuazione delle situazioni in cui la norma extra-penale integra il contenuto punitivo del precetto sanzionatorio – così traducendosi in un errore sul precetto non scusabile – dai casi in cui la norma extra-penale definisce solo, con elementi giuridici, il fatto punibile, e, perciò, si traduce in errore scusabile), nell’ambito degli illeciti tributari la causa di esclusione della colpevolezza trova applicazione generalizzata, posto che il ‘precetto’ delle sanzioni tributarie è normalmente integrato, per rinvio, dalla norma impositrice alla cui protezione è preposta la sanzione tributaria.
Ed è quindi in considerazione della diversa costruzione della fattispecie sanzionatrice – in cui l’enucleazione della fattispecie astratta vietata o doverosa sovente è assente – che il legislatore ha scelto in sede tributaria di utilizzare un’autonoma clausola di esclusione della colpevolezza, in luogo della dizione adottata dal legislatore penale all’art. 47, comma 3, c.p., ponendo, come visto, a presupposto della non punibilità il verificarsi di una situazione di obiettiva condizione di incertezza in ordine all’applicazione della disposizione sostanziale che integra il ‘fatto’ della fattispecie sanzionatoria tributaria.
Per una varietà di ragioni, tuttavia, come ben noto, l’obiettivo di assicurare che la sanzione tributaria venisse irrogata nel rispetto del principio di colpevolezza non è stato raggiunto.
Da un primo punto di vista, la portata cogente del principio di colpevolezza, quale architrave del modello sanzionatorio del ‘97, è stata severamente limitata allorché ci si è accontentati, commettendo un evidente errore, negli orientamenti giurisprudenziali di riconoscere la sufficienza, quali parametri idonei per la riferibilità della sanzione, dei soli criteri della coscienza e volontà (cfr., ex multis, Cass. civ., 13 settembre 2018, n. 22329), obliterando l’esigenza di valorizzare autonomamente anche il requisito soggettivo della colpa o del dolo. La svalutazione del giudizio di colpevolezza in materia di sanzioni amministrative tributarie è, infatti, l’esito di un percorso giurisprudenziale, la cui origine può forse ricercarsi in una non pienamente ponderata interpretazione del campo di applicazione dell’art. 11, comma 2, D.Lgs. n. 472/1997 (malgrado tale ultima previsione si collocasse nell’alveo delle norme dettate per le società ed enti e, pertanto, avesse come obiettivo quello di introdurre una mera “presunzione d’individuazione del soggetto potenzialmente colpevole, non già una presunzione di colpevolezza” – cfr. Batistoni Ferrara F., Subart. 11, in Moschetti F., a cura di, Commentario breve alle leggi tributarie. Accertamento e sanzioni, tomo II, Padova, 2011, 756), così come in una lettura dell’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 472/1997 dalla quale in giurisprudenza si sarebbe tratto il convincimento che negli illeciti tributari sussista una presunzione juris tantum di colpevolezza, tale per cui è sufficiente che l’Autore abbia commesso l’illecito con coscienza e volontà (secondo una tesi interpretativa fatta propria, mutatis mutandis, da parte della giurisprudenza e della dottrina con riguardo all’interpretazione dell’art. 42, comma 4, c.p. in relazione all’ambito dei reati contravvenzionali). Si tratta a ben vedere di una “tracimazione” di un dato di fatto: il fatto che normalmente chi non paga i tributi lo faccia scientemente o, comunque, avrebbe potuto rendersi conto dell’errore non significa affatto che la colpa non è necessaria, così come il fatto che di solito chi ha sembianze umane sia un uomo non significa che sia omicidio anche tagliare la testa a un manichino.
Per quanto concerne, poi, la causa di esclusione della colpevolezza derivante da errore di diritto dovuto ad incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria – che, come osservato, costituiva uno degli aspetti di maggior specialità della disciplina punitiva tributaria rispetto a quella di ‘diritto comune’ – si è assistito nel diritto vivente ad un suo sostanziale ‘scolorimento’, tramite la progressiva assimilazione del contenuto di tale istituto con quello dell’ignoranza scusabile dovuto ad errore ‘di diritto’ inevitabile, sancito dalla Corte costituzionale nella pronuncia n. 364/1988 (cfr. Cicala M., Esclusione delle sanzioni per incertezza della portata della norma tributaria. Brevi note pratiche, in Fondazione Nazionale dei Commercialisti, 15 settembre 2016).
Così facendo, a ben vedere, si è progressivamente confuse una questione di diritto in ordine all’incertezza ‘oggettiva’ della norma tributaria a cagione dell’equivocità del dettato normativo (rilevabile nel giudizio di cassazione con il mezzo di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c. – cfr. Cass., 19 ottobre 2012, n. 17985 e, di conseguenza, anche d’ufficio – cfr. Cass., 12 ottobre 2005, n. 19848) e una questione di fatto (rilevabile nel giudizio di cassazione con il mezzo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.), in cui assumono, invece, peso centrale aspetti di fatto, aventi carattere ‘scusante’, quali, in primis, la sussistenza di orientamenti dell’Amministrazione finanziaria idonei a fornire un’errata o confusa informazione al contribuente in ordine all’applicazione della norma tributaria. E si è alzata erroneamente la soglia dalla sufficienza della mera mancanza di colpa alla oggettiva impossibilità di conoscere la regola.
3. A fronte di quanto fin qui esposto si comprende la problematicità del neo-introdotto comma 5-ter rispetto alle acquisizioni, fin qui consolidate, in punto di errore di diritto per incertezza ‘oggettiva’ della norma tributaria e per ignoranza inevitabile.
Procedendo per gradi occorre, in primo luogo, soffermarsi sulle ricadute nei rapporti tra le fonti del diritto tributario, che discendono dall’introduzione del citato art. 6, comma 5-ter.
In primo luogo, la norma de qua sostanzialmente attribuisce alle circolari ed ai documenti di consulenza giuridica un carattere assimilabile a quello di una ‘interpretazione autentica’ della normativa tributaria, ai limitati fini di escludere la condizione di obiettiva incertezza (a differenza della interpretazione autentica vera e propria invece non ha invece, ad esempio, l’effetto di vincolare i giudici). Per il il futuro viene meno la condizione di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria. Già a questo livello la portata della disposizione potrebbe essere discutibile: a fronte di un testo obiettivamente oscuro, può veramente dirsi che un mero atto di interpretazione di una Agenzia fiscale ne elimini la incertezza? Sul piano epistemologico pare di no, ma si può accettare che la norma di nuovo conio imponga un contenuto concreto all’obbligo di diligenza dei contribuenti: confidare soggettivamente nella circolare.
In secondo luogo, e parallelamente, per le condotte del passato la circolare fa nascere l’obbligo di ravvedimento (rectius, di adeguamento), e sembra far assurgere la prassi ‘qualificata’ dell’Amministrazione finanziaria a fonte dell’ordinamento, riconducibile, secondo schemi classici, all’area delle fonti secondarie dell’ordinamento. Per effetto della nuova regola, in effetti, il contribuente deve fare qualcosa il cui contenuto è esplicitato nella circolare.
Pare quindi arduo sostenere che, in tale novellato contesto normativo, possa ritenersi soddisfacente la posizione, consolidatasi in giurisprudenza fino al recente passato, secondo cui i documenti di prassi emanati dall’Amministrazione finanziaria «esauriscono la loro portata nell’ambito dei rapporti interni tra i vari uffici e i loro funzionali e come non vincolano i terzi non sono fonte di diritti a favore degli stessi, né di obblighi a carico dell’amministrazione» (ex multis, Cass. n. 2850/2012).
Problematico è, tuttavia, comprendere la natura della circolare e dell’atto di consulenza giuridica all’interno della categoria, già di per sé sfuggente, degli ‘atti normativi soggettivamente amministrativi’ (cfr. Casetta E., Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2020, 369).
A tale riguardo, seppure non con poche incertezze, pare ad ogni modo possibile ritenere che con la novella dell’art. 6, comma 5-ter il legislatore abbia inteso conferire a tali documenti di prassi una capacità ‘innovativa dell’ordinamento’ che, in unisono al connotato della generalità ed astrattezza – intrinseco in documenti quali le circolari e le consulenze giuridiche che si rivolgono ad una platea indeterminata di destinatari -, costituiscono i due elementi sintomatici della funzione normativa (in questo senso, in particolare, cfr. Consiglio di Stato 14 febbraio 2005, parere n. 11603/04 e Consiglio di Stato, ad. plen., sent. n. 9/2012).
Se così fosse, non vi sarebbero allora ostacoli a ricondurre tali documenti di prassi tra le fonti, ancorché fortemente atipiche, dell’ordinamento aventi funzione integratrice della legge tributaria (con tutte le conseguenze del caso: dall’impugnabilità innanzi al giudice amministrativo, al potere di disapplicazione da parte del giudice ordinario, all’assoggettamento al principio iura novit curia, all’applicazione delle regole di interpretazione di cui all’art. 12, disp. prel., c.c. – cfr. Casetta E., Manuale di diritto amministrativo, cit., 369).
A favorire tale soluzione interpretativa, d’altra parte, milita il disposto dell’art. 10-septies, comma 3, L. n. 212/2000 – invero riferito esclusivamente alle circolari (ad esclusione di quelle meramente ‘interne’, in quanto volte a fornire istruzioni operative agli uffici dell’Amministrazione finanziaria) e non ai documenti di consulenza giuridica – che, come noto, attribuisce al Ministero dell’Economia e delle Finanze il potere di adottare «atti di indirizzo interpretativo ed applicativo dicui all’articolo 4, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165», cui si devono adeguare le circolari dell’Amministrazione finanziaria. Ed è di interesse osservare come il citato art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 165/2001 disponga che tali atti di indirizzo interpretativo ed applicativo siano espressione dell’esercizio delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da parte degli organi di governo nell’adozione delle “decisioni in materia di atti normativi” e “dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo”.
Ciò, a ben vedere, corroborerebbe la riconduzione, specie delle circolari, nell’alveo degli atti definiti dal legislatore quali atti ‘non aventi natura regolamentare’, ma cionondimeno tali da collocarsi, dal punto di vista sostanziale, nella categoria degli atti normativi soggettivamente amministrativi.
4. Giunti a questo punto, emerge un interrogativo molto delicato. In definitiva, per effetto della nuova norma, la disposizione sanzionatoria amministrativa rinvia in bianco a una norma sostanziale incerta, che vien colmata da una circolare: se il contribuente non si adegua, è punito: ebbene, tale assetto può considerarsi costituzionalmente legittimo?
La impostazione tradizionale assume che la questione dovrebbe porsi nei termini della tassatività della norma punitiva, che però non rileverebbe non applicandosi alle sanzioni amministrative il principio di tassatività (ad esempio, Allena M., La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU, in Federalismi, 2017, 4). Tale soluzione non ci pare convincente in nessuno dei due suoi fondamenti.
Da un lato, si tratta del problema della tassatività non della norma sanzionatoria punitiva, ma di quella, richiamata, che disciplina il fatto oggetto della condotta punita (non la norma sulla sanzione tributaria ma quella sull’obbligo sottostante), dall’altro non sembra, in rispettoso dissenso con gli orientamenti della giurisprudenza italiana, che, assunta la unitarietà del diritto punitivo, sia consentito, sul piano logico, distinguere tra tipi di sanzione.
Come che sia, e tralasciando di approfondire inquadramenti teorici della questione, il punto pratico è domandarsi quali valori e principi una tale soluzione potrebbe ledere.
Non quello della prevedibilità della sanzione (cui è tradizionalmente attenta la giurisprudenza CEDU): in effetti, se il contenuto della circolare è chiaro, il contribuente è perfettamente in grado di comprendere cosa gli si chiede e quale condotta sarà punita.
Più problematico il profilo della democraticità della fonte dell’obbligo (trascurato dalla giurisprudenza CEDU, ma ben presente nella tradizione costituzionale italiana: Marcheselli A., Manuale di diritto tributario. Parte Generale, Milano, 2024, 42 ss.): in effetti esso si concretizza per effetto di un atto di una Autorità che non solo non è rappresentativa, ma neppure politica, ma tecnica (l’Agenzia delle Entrate). Resta da valutare se tali obiezioni potrebbero superarsi osservando che, tuttavia, alla base vi è pur sempre una legge (da interpretare), da un lato e che la riserva di legge per gli obblighi tributari è relativa: essa è rispettata da una legge incerta interpretata da una circolare della Agenzia delle Entrate?
Il dubbio si fa più delicato ancora se si considera che l’atto integrativo (e l’effetto sfavorevole) viene adottato non da un organo rappresentativo, non da un organo politico, ma da una parte, sia pur quella pubblica, e soprattutto dalla Autorità inquisitoria dotata anche del potere di indagine (oltre che di decisione) amministrativa: istituendo un parallelismo con il diritto penale, si potrebbe considerare legittimo che il Pubblico Ministero integri con proprio atto la interpretazione delle norme di cui deve controllare l’applicazione, con l’effetto di rendere sanzionabile chi non vi si adegui? Oltretutto tale rinvio è assolutamente ‘in bianco’, e, cioè, in relazione a tutti gli orientamenti di prassi ‘qualificati’ pubblicati nel futuro dall’Amministrazione finanziaria, che si pongano a chiarimento di norme tributarie originariamente contraddistinte da profili di incertezza normativa, ed è automatico, indipendentemente da qualsiasi riscontro qualitativo della circolare.
La questione appare veramente assai delicata.
5. Il neo-introdotto art. 6, comma 5-ter, D.Lgs. n. 472/1997, oltre che per le ricadute dal punto di vista dell’assetto delle fonti, merita di essere indagato anche per i risvolti di carattere prettamente processuale.
In questo senso si pone, più in particolare, la questione se, indipendentemente dalla natura normativa o meramente amministrativa degli orientamenti di prassi in questione, il contribuente disponga di strumenti di tutela che gli permettano di paralizzarne in via immediata gli effetti, senza attendere la notifica di un atto impositivo nei propri confronti.
Ciò tenuto conto del fatto che, a rigore, sulla base della interpretazione più rigorosa della norma in commento, il contribuente che non si adegui alla circolare diventa comunque sanzionabile per l’omesso immediato versamento, anche nella ipotesi in cui nel successivo giudizio sulla debenza del tributo sia riconosciuto che la circolare era errata: la disposizione presidia non l’omesso pagamento del tributo, ma l’omesso adeguamento alla circolare.
La questione, così posta, deve essere inquadrata tenendo in attenta considerazione alcuni orientamenti recenti sia della Cassazione sia del Consiglio di Stato (cfr. Cass., Sez. Un., 19 ottobre 2023, n. 29103 e Consiglio di Stato, 29 marzo 2023, n. 3219), che hanno riconosciuto l’impugnabilità innanzi al giudice amministrativo di atti dell’Amministrazione finanziaria – tra cui i provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate e le stesse circolari di prassi – che, in ragione della loro natura ‘precettiva’ e ‘puntuale’, fanno emergere una situazione giuridica soggettiva, qualificabile alla stregua di un interesse legittimo, in capo al contribuente.
Tale giurisprudenza, più in dettaglio, poggia sul dato normativo dell’art. 7, comma 1 del Codice del processo amministrativo (disposizione che, come noto, dispone che «sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potereamministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni») e giunge alla conclusione che sia irrilevante stabilire se un dato atto dell’Amministrazione finanziaria abbia natura di fonte secondaria dell’ordinamento (ad esempio collocandosi nell’area dei regolamenti) oppure rientri tra gli atti amministrativi privi di funzione normativa (quali gli atti amministrativi generali – cfr. Consiglio di Stato, 29 marzo 2023, n. 3219), in quanto ciò che rileva è unicamente se l’atto amministrativo è espressivo dell’esercizio di un potere pubblico dell’Amministrazione finanziaria che ingenera nel contribuente l’insorgere di una posizione giuridica soggettiva tutelabile.
Si tratta, come evidente, di una prospettiva per molti versi ‘rivoluzionaria’ rispetto alla tradizionale impostazione invalsa nella giurisprudenza tributaria, allineata alla tesi della tutela ‘differita’, in base alla quale, come noto, il contribuente può ricorrere in giudizio solo a seguito della notifica di un atto ricompreso tra quelli autonomamente impugnabili di cui all’art. 19 D.Lgs. n. 546/1992 (e ciò anche qualora l’attività dell’Amministrazione finanziaria abbia arrecato una lesione di libertà individuali del contribuente, la cui violazione attenga a diritti costituzionalmente tutelati). Prospettiva, si noti, che pare particolarmente apprezzabile anche perché offre una possibile soluzione idonea ad assicurare una tutela giurisdizionale in relazione a quelle situazioni giuridiche soggettive del contribuente che sempre più vengono in rilievo nel contesto di ‘nuovi’ moduli tributari (quali, ad esempio, l’adempimento collaborativo nell’ambito del quale possono aversi provvedimenti dell’Amministrazione finanziaria che, ancorché non impugnabili secondo teoriche classiche, fanno ragionevolmente emergere una posizione di interesse legittimo in capo al contribuente).
Ed è significativo che la giurisprudenza poc’anzi richiamata (cfr. Cass., Sez. Un., n. 29103/2023 e Consiglio di Stato n. 3219/2023), a giustificazione della devoluzione in capo al giudice amministrativo di liti vertenti direttamente ed autonomamente sulla legittimità di atti ‘para-normativi’ dell’Amministrazione finanziaria, abbia messo in evidenza due aspetti forse trascurati nell’elaborazione giurisprudenziale circa i confini della giurisdizione tributaria secondo coordinate allineate alla tesi della ‘tutela differita’.
Da un lato, l’impugnabilità innanzi al giudice amministrativo di atti amministrativi generali o di regolamentari dell’Amministrazione finanziaria non si pone in contraddizione rispetto ai rimedi offerti dalla giurisdizione tributaria. Come efficacemente osservato dal Consiglio di Stato, infatti, i rapporti tra giurisdizione tributaria e giurisdizione amministrativa sono definiti, in maniera sinergica, dall’art. 7 del codice del processo amministrativo e dall’art. 19 D.Lgs. n. 546/1992, nel senso che alla prima è riservata la cognizione in via principale su regolamentari o amministrativi generali dell’Amministrazione finanziaria in materia tributaria, mentre alla seconda non è preclusa la conoscibilità di tali atti amministrativi, che possono essere oggetto di disapplicazione, in via incidentale, ai sensi dell’art. 7, comma 5, D.Lgs. n. 546/1992 in sede di sindacato sull’atto impositivo.
Da un altro lato, l’esistenza di una continuità tra i rimedi offerti dalla giurisdizione amministrativa e da quella tributaria risponde all’obiettivo di assicurare al contribuente una pienezza di tutela, anche a carattere ‘anticipato’, qualora l’azione impositrice, ancorché non ancora estrinsecatasi in concreto in un atto impositivo, sia già definita nei suoi presupposti da un atto amministrativo a carattere generale i cui contenuti siano in grado di incidere – senza la necessaria intermediazione di provvedimenti esecutivi – sulla posizione giuridica del contribuente stesso. In specie, come incisivamente evidenziato in tale giurisprudenza, l’immediata lesività di tali atti amministrativi deriverebbe dal fatto che essi impongono obblighi dichiarativi e di versamento, il cui mancato adempimento da parte del contribuente costituisce violazione della norma tributaria e lo espone all’azione accertatrice dell’Amministrazione finanziaria.
Ciò posto, le considerazioni valorizzate in tale filone giurisprudenziale paiono di indubbio rilievo applicativo alla luce del neo-introdotto art. 6, comma 5-ter, D.Lgs. n. 472/1997.
In questo senso, non pare revocabile in dubbio che le circolari ed i documenti di consulenza giuridica richiamati al citato art. 6, comma 5-ter si pongano tra gli atti e provvedimenti amministrativi impugnabile innanzi al giudice amministrativo ai sensi dell’art. 7 del Codice del processo amministrativo.
A tacer d’altro, tale considerazione trova dimostrazione nel fatto che la mancata condivisione dei contenuti risultanti in tali orientamenti di prassi inibisce la possibilità per il contribuente di far valere un istituto – quello della condizione di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria – che mira ad orientare l’utilizzo dello strumento punitivo in materia tributaria nel rispetto del principio di colpevolezza. Tali atti, in altre parole, si connotano per la loro immediata lesività, data dalla natura ‘precettiva’ e ‘puntuale’ del relativo contenuto, che già esprime e consuma il potere di imposizione devoluto dalla legge primaria all’Amministrazione finanziaria.
Ed è peraltro evidente, in continuità con le considerazioni espresse dal Consiglio di Stato (cfr. la sentenza n. 3219/2023) che la mancata possibilità di ricorrere innanzi al giudice amministrativo porrebbe il contribuente di fronte all’alternativa di violare la norma tributaria, attraverso l’inadempimento agli obblighi di ravvedimento sanciti dal citato art. 6, comma 5-ter – e dunque di essere esposto al potere di accertamento dell’Amministrazione finanziario – oppure i versare il maggior tributo in esito alla pubblicazione dell’orientamento di prassi che sciogliesse dubbi interpretativi in ordine all’interpretazione della norma tributaria per poi attivarsi, tramite istanza di rimborso volta, al fine di ottenere la ripetizione dell’imposta, secondo modalità in ultima istanza riconducibili alla regola solve et repete, da tempo giudicato in contrasto con la Costituzione. Alternativa, quest’ultima che, si risulta, a ben vedere inaccettabile, posto che porterebbe “ad un vuoto di tutela giurisdizionale in contrasto con i principi costituzionali (artt. 24 e 113 Cost.)” a cui rimedio si pone, quindi, l’esercizio della tutela giurisdizionale di tipo annullatorio innanzi al giudice amministrativo alla stregua dell’art. 7 del Codice del processo amministrativo.
6. Il neo-introdotto art. 6, comma 5-ter, D.Lgs. n. 472/1997 costituisce una ‘cartina di tornasole’ dell’evoluzione prospettiva del sistema delle fonti in materia tributaria.
Tale disposizione mette infatti in evidenza in maniera nitida la progressiva devoluzione in capo all’Amministrazione finanziaria di poteri che, ancorché formalmente amministrativi, sono in realtà a carattere sostanzialmente normativo e che si sostanziano nell’integrazione del contenuto di norme primarie, anche in relazione a quegli elementi essenziali che, come più volte affermato dalla Corte costituzionale, dovrebbero comunque essere sanciti dal legislatore al fine di assicurare conformità della norma tributaria al principio di riserva di legge relativa.
Se tale stato di cose pare ormai un dato di fatto, di dubbia aderenza a una lettura solida e illuminata dei precetti costituzionali – che, peraltro, rispecchia l’andamento cui si assiste anche in altre aree del diritto pubblico – meno nitide sono le conseguenze che si pongono in tema di tutela giurisdizionale del contribuente ed in ordine all’estensione del potere di integrazione della norma tributaria ad opera dell’Amministrazione finanziaria nel territorio delle sanzioni punitive.
Se sotto il primo profilo – in merito ai rimedi processuali nella disponibilità del contribuente – alcune ‘crepe’ iniziano ad aprirsi rispetto all’impostazione tradizionale che negava l’impugnabilità di atti amministrativi a carattere generale che non si estrinsechino in un atto d’imposizione individuale, sotto il secondo aspetto le questioni in gioco paiono meno indagate e, a prima analisi, meritevoli di attenta disamina in ottica costituzionale.
Ma, a ben vedere, l’art. 6, comma 5-ter, D.Lgs. n. 472/1997 crea ulteriori dubbi interpretativi, che paiono anch’essi difficilmente eludibili. Basti pensare, a tale proposito, al disposto dell’art. 10, comma 2, L. n. 212/2000 che, come noto, valorizza l’affidamento e la buona fede del contribuente quale condizione atta a giustificare, autonomamente, la disapplicazione della sanzione tributaria. Norma, quest’ultima, che risulterebbe così tacitamente abrogata, almeno in relazione a quei casi in cui l’Amministrazione finanziaria muti il proprio orientamento interpretativo pubblicando circolari ed atti di consulenza giuridica con contenuti diversi da quelli precedentemente comunicati. In questo caso, infatti, il rilievo della buona fede ed affidamento perde concretamente rilievo nei termini sanciti dall’art. 10, comma 2, posto che il neo-introdotto art. 6, comma 5-ter impone il ravvedimento successivo – cioè l’adeguamento alla prassi – e punisce l’inosservanza di tale dovere di ravvedersi nel termine perentorio di legge.
In ultimo, l’art. 6, comma 5-ter, D.Lgs. n. 472/1997 lascia sullo sfondo una questione sistematica che pare vieppiù centrale nella dinamica dei rapporti tra Fisco e contribuente e che, nei suoi termini essenziali, è adombrata dalle pronunce, prima richiamate del Consiglio di Stato e della Cassazione.
In specie, se la prassi acquisisce natura integrativa rispetto alla legge e pone, più in particolare, obblighi dichiarativi e di versamento cogenti in capo al contribuente, non vi è più ragione per sostenere che il contribuente debba attendere ‘passivamente’ la notifica dell’atto impositivo, accettando il rischio di vedersi irrogate anche le sanzioni amministrative qualora sia poi soccombente in giudizio. E, difatti, sempre più spesso, la risposta operativa del contribuente, a fronte del rischio delle sanzioni (oltre al peso degli interessi dovuti per ritardato pagamento), è quella di ‘accettare’ la logica del solve et repete, versando il maggior tributo e procedendo poi all’attivazione del contenzioso instaurato a seguito del diniego all’istanza di rimborso.
Ora tale soluzione, seppure pragmatica, pare problematica, non foss’altro perché discrimina tra categorie di contribuenti a seconda che dispongano, o meno, di disponibilità finanziarie da immobilizzare fino alla definizione del contenzioso.
Ed è peraltro evidente che tale problematica sia di ampia portata, se si considera che – più ancora che rispetto ad atti amministrativi generali quali i provvedimenti direttoriali e le circolari – il ricorso al solve et repete è tipico della dinamica che si instaura tra contribuente ed Amministrazione finanziaria in sede di interpelli. Come ben noto, alla risposta negativa dell’Amministrazione alla soluzione prospettata dal contribuente nell’istanza di interpello, l’unica soluzione davvero tutelante di cui dispone il contribuente è di procedere al pagamento del tributo con successiva presentazione di istanza di rimborso (considerato il rischio che, a seguito della risposta ad interpello, l’Amministrazione finanziaria venga a verificare la posizione effettivamente presa dal contribuente a seguito della presentazione del quesito).
A fronte di ciò occorrerebbe allora davvero domandarsi se e in che misura non occorra rimettere mano alla categoria degli atti impugnabili, facoltizzando il contribuente che non ritenga fondata la soluzione interpretativa prescelta dall’Amministrazione finanziaria ad impugnare direttamente la risposta ad interpello, graduando, nel rispetto dei principi sanciti dalla Corte costituzionale in sede di pronuncia di incostituzionalità del solve et repete, l’obbligo di versamento del tributo in base a criteri non dissimili a quelli ordinariamente previsti per la riscossione frazionata del tributo in pendenza di contenzioso impugnatorio. Ciò avrebbe il pregio di valorizzare la condotta trasparente e collaborativa del contribuente che ha presentato l’interpello, da un lato, elidendo il rischio sanzionatorio e, da un altro lato, assimilando la risposta ad interpello dell’Amministrazione finanziaria alla stregua di un atto impositivo ai fini della riscossione frazionata (anche per quanto concerne la possibilità per il contribuente di depositare istanza di sospensione cautelare al giudice tributario).
(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2024 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.
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