Osservazioni in tema di profili tributari della compravendita di opere d’arte, a margine di una recente pronuncia di legittimità

Di Francesco V. Albertini -

(commento a/notes to Corte di Cassazione, sez. V, ord. 16 gennaio 2024, n. 1603)

Abstract

Lo scritto, muovendo dalla disamina dell’ordinanza 16 gennaio 2024, n. 1603, della Corte di Cassazione, sezione tributaria, considera – nella prospettiva delle regole fiscali applicabili – i soggetti che operano nel settore della compravendita delle opere d’arte quali i mercanti d’arte, gli speculatori occasionali e i semplici collezionisti, soffermandosi sugli elementi distintivi dei primi e sul regime applicabile ai medesimi ai fini delle imposte sui redditi, sul valore aggiunto e regionale sulle attività produttive. Si dà conto delle direttive – comprese nella delega al Governo per la riforma fiscale – in ordine all’introduzione di una disciplina sulle plusvalenze conseguite, al di fuori dell’esercizio dell’attività d’impresa, dai collezionisti di oggetti d’arte e di riduzione dell’aliquota IVA sulle cessioni di oggetti d’arte, di antiquariato e da collezione.

Observations on the tax aspects of the sale of artworks, by examining a recent judge of legitimacy ruling – The essay, starting from the examination of the January 16, 2024, ruling No. 1603 of the Supreme Court, Tax Section, considers the entities operating in the art trade sector – such as art dealers, occasional speculators, and casual collectors – from the perspective of applicable tax rules. It focuses on the distinguishing elements of the first group and the tax regime applicable to them in terms of income tax, value-added tax, and regional tax on productive activities. It also accounts for the directives included in the government’s tax reform delegation regarding the introduction of regulations on capital gains achieved by collectors of art objects outside the scope of business activities and the reduction of the VAT rate on the sale of art, antiques, and collectibles.

 

Sommario: 1. L’ordinanza e la vicenda. – 2. Mercante d’arte, speculatore occasionale e collezionista nella giurisprudenza della Cassazione. – 3. Il c.d. mercante d’arte: requisiti. – 3.1. (Segue). L’abitualità. – 4. La determinazione del reddito del mercante d’arte, in generale e nel caso di specie. – 5. L’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto al mercante d’arte: il regime c.d. del margine. – 6. Sull’inapplicabilità dell’imposta regionale sulle attività produttive. – 7. Le prospettive di riforma.

 

1. A distanza di quasi un anno dall’ordinanza 8 marzo 2023, n. 6874, la sezione tributaria della Corte di Cassazione ribadisce il proprio orientamento in ordine ai profili fiscali della compravendita di opere d’arte, secondo il quale «è da qualificarsi come mercante di opere d’arte colui che professionalmente e abitualmente ne esercita il commercio anche in maniera non organizzata imprenditorialmente, col fine ultimo di trarre un profitto dall’incremento del valore delle medesime opere».

Dalla motivazione si traggono scarne indicazioni per descrivere la vicenda dedotta in giudizio: il contribuente, il quale affermava che «non aveva mai svolto l’attività di compravendita di opere d’arte avendo sempre agito quale collezionista privato, e che le vendite erano state solo il frutto della dismissione del suo patrimonio», è stato ritenuto svolgere, ai fini tributari, attività d’impresa commerciale e, in particolare, di commercio di opere d’arte. Nell’ordinanza si fa menzione di «imprese rivenditrici» delle opere d’arte che il contribuente ha venduto e dell’accertamento, da parte del giudice d’appello, che l’attività è stata svolta «nel tempo» e in forma «non occasionale», della disponibilità di tre magazzini nei quali «le opere erano conservate».

L’Agenzia delle Entrate e il giudice d’appello hanno ritenuto di ravvisare in tale situazione elementi sufficienti per ritenere che il contribuente avesse svolto attività di impresa consistente nel commercio di opere d’arte. A tale qualificazione sono conseguite la determinazione induttiva, fondata anche sulla valorizzazione presuntiva dei movimenti bancari, del reddito, l’assoggettamento all’imposta sul valore aggiunto secondo il regime del margine forfettario e all’imposta regionale sulle attività produttive.

A differenza dell’Agenzia, peraltro, la Commissione regionale aveva rideterminato in diminuzione i ricavi accertati non comprendendovi quelli derivanti dall’applicazione delle presunzioni correlate ai versamenti e prelevamenti bancari, ai sensi dell’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 51, comma 2, D.P.R. n. 633/72. La Corte Suprema, andando parzialmente di contrario avviso al Giudice d’appello non ha ritenuto corretta la determinazione dei minori ricavi ed ha considerato il contribuente non soggetto ad IRAP. L’orientamento in materia di soggezione all’imposta regionale sulle attività produttive, nel quale l’ordinanza in commento si inserisce, ha tuttavia perso in parte attualità a motivo che, a partire dal periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 2022, per gli imprenditori individuali e le persone fisiche esercenti arti e professioni tale imposta non è più dovuta ai sensi dell’art. 1, comma 8, L. 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024).

2. La Corte Suprema, con la già citata ordinanza n. 6874/2024 della sezione tributaria, ha contribuito a fare chiarezza in ordine alla distinzione – delicata di per sé e per le ricadute fiscali, sovente non agevole in concreto – fra le varie figure che operano nel complesso mercato delle opere d’arte, inaugurando un orientamento al quale la pronuncia in rassegna dà espressamente e apprezzabilmente continuità.

Si osserva, per inciso, che nelle norme fiscali non si rinviene un riferimento alle opere d’arte, ma talora agli «oggetti d’arte»: si consideri l’art. 54 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in base al quale i costi d’acquisto di oggetti d’arte sono deducibili quali spese di rappresentanza, nel limite dell’1% dei compensi percepiti nell’anno in cui sono sostenuti. Un elenco degli oggetti d’arte è contenuto nella Tabella prevista dall’art. 38, comma 1, D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, conv. nella L. 22 marzo 1995, n. 85, e concernente «Oggetti d’arte, d’antiquariato e da collezione». Tra i primi (lett. a) sono inclusi, ad esempio, «pitture e disegni, eseguiti interamente a mano dall’artista», «incisioni, stampe e litografie originali», «opere originali dell’arte statuaria o dell’arte scultoria», «arazzi», «fotografie eseguite dall’artista». Quantunque l’elenco di cui alla tabella sia stato elaborato ai fini dell’applicazione del regime speciale IVA per i rivenditori di beni usati e, appunto, di oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione, costituisce un riferimento utile anche ai fini dell’applicazione di altre disposizioni. Pare d’intendere, tuttavia, che le espressioni opere d’arte e oggetti d’arte siano intese come sinonime.

Tornando all’ordinanza n. 6874/2023, la Corte, adottando un’impostazione già proposta in dottrina (cfr. Bagarotto E.M., Regime tributario della cessione di opere d’arte, in Rass. trib., 2019, 2, 290 ss.), tra quelle del mercante d’arte – soggetto, nell’ambito della sua attività, al regime fiscale dell’imprenditore commerciale – e del semplice collezionista – per il quale dalle cessione di opere d’arte e dalle eventuali plusvalenze conseguite, non deriva l’applicazione di imposte – identifica una terza figura intermedia dello «speculatore occasionale» che, anche eventualmente collezionista, pone in essere occasionalmente acquisti e vendite di opere d’arte con l’intento di trarne un guadagno, soggetto all’imposizione reddituale.

Per quanto attiene, in particolare, al mercante di opere d’arte, ad avviso della Corte, è tale «colui che professionalmente e abitualmente ne esercita il commercio anche in maniera non organizzata imprenditorialmente – col fine ultimo di trarre un profitto dall’incremento del valore delle medesime opere». Diversamente, è speculatore occasionale «chi acquista occasionalmente opere d’arte per rivenderle allo scopo di conseguire un utile», mentre il collezionista «acquista le opere per scopi culturali, con la finalità di incrementare la propria collezione e possedere l’opera, senza l’intento di rivenderla generando una plusvalenza» (le citazioni sono tratte da Cass., sez. V, n. 6874/2023). Nell’ordinanza in rassegna, a proposito del collezionista, si precisa ulteriormente che è tale «chi acquista le opere per scopi culturali, con la finalità di incrementare la propria collezione e possedere l’opera, senza l’intento di rivenderla generando una plusvalenza, avendo interesse non tanto per il valore economico della res quanto per quello estetico-culturale, per il piacere che il possedere le opere genera, per l’interesse all’arte, per conoscere gli artisti, per vedere le mostre».

Per quanto attiene alle ricadute fiscali della distinzione, il mercante d’arte, che esercita abitualmente un’attività di natura commerciale, è tenuto, ai fini dell’imposizione diretta, ad applicare la disciplina del reddito d’impresa, con i relativi corollari in termini contabili, dichiarativi e accertativi. È, inoltre, soggetto all’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto ed eventualmente, in passato, dell’imposta regionale sulle attività produttive. Chi, invece, effettua senza abitualità cessioni di opere d’arte che abbiano, per contesto e caratteristiche, natura commerciale – tale termine sottende la finalità lucrativa delle operazioni – consegue entrate imponibili come redditi diversi, non essendo soggetto alla disciplina fiscale dell’imprenditore commerciale, né ad IVA. Infine, qualora le cessioni isolate, per rilevanza, caratteristiche e frequenza, non manifestino alcun fine di lucro – ci si riferisce, in particolare, alle cessioni poste in essere dai semplici collezionisti – le eventuali plusvalenze conseguite non sono soggette – oggi – ad alcuna imposizione.

3. Nella vicenda che ha dato origine al giudizio nel quale è stata pronunciata l’ordinanza in rassegna, il contribuente asseriva che la propria attività non avesse natura imprenditoriale, in quanto non aveva svolto alcuna operazione di intermediazione tra produttore e consumatore (si desume dal testo dell’ordinanza, che il contribuente cedeva le opere d’arte a imprese rivenditrici) e, inoltre, difettasse dell’autonoma organizzazione di mezzi destinati al suo svolgimento. Entrambi gli argomenti sono irrilevanti secondo la Corte.

La Cassazione, la quale riconduce quella svolta dal contribuente a «un’attività intermediaria nella circolazione dei beni», ai sensi dell’art. 2195, n. 2, sottolinea la non coincidenza fra le discipline civilistica e fiscale: «l’art. 2082, c.c., considera imprenditore chi svolge un’attività economica organizzata in modo professionale, mentre l’art. 55 TUIR non richiede il requisito dell’organizzazione, ma il mero esercizio professionale e abituale delle attività di cui all’art. 2195 c.c., anche se non svolte in modo esclusivo». Il requisito dell’esercizio professionale di «una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi», non è, quindi, indispensabile ai fini tributari, per i quali, come meglio si vedrà, «è sufficiente la professionalità abituale dell’attività economica, anche senza l’esclusività della stessa» (oltre alla già citata ordinanza n. 6874/2023, si vedano Cass., sez. V, 16 dicembre 2022, n. 36992; Cass., sez. V, 13 dicembre 2022, n. 36502; Cass., sez. VI-trib, 6 giugno 2017, n. 8982; Cass., sez. V, 7 novembre 2012, n. 19237; Cass., sez. V, 20 dicembre 2006, n. 27211).

Si osserva, nondimeno, che anche le attività di cui all’art. 2195 c.c., per essere definite «commerciali» devono essere condotte con criteri economici. La dottrina (Zizzo G., I redditi d’impresa, in Falsitta G., Manuale di diritto tributario. Parte speciale. Il sistema delle imposte in Italia, XIII ed., Milano, 2021, 263 s.) avverte che tali sono «specie del genere “attività economica organizzata”, come si desume combinando l’art. 2195 con l’art. 2082» e che «la circostanza che l’art. 55 rinvii all’art. 2195, e non all’art. 2082, non dispensa l’interprete dall’effettuazione di una preliminare ricognizione intorno al significato ascrivibile all’art. 2195 alla luce del contesto nel quale è inserito, e quindi anche dell’art. 2082». Ne deriva che «non possono essere giudicate “economiche” (e quindi “commerciali”) le attività che sono programmaticamente gestite in maniera tale che i ricavi o sono del tutto assenti o non riescono a coprire i costi della produzione, perché, in via sistematica, i beni o i servizi prodotti sono ceduti o prestati senza corrispettivo o verso un corrispettivo fissato in misura inferiore ai costi suddetti». La Cassazione ha avuto occasione di precisare (nella sentenza 8 febbraio 2008, n. 3039, della sezione tributaria) che «l’economicità dell’attività prestata dall’imprenditore secondo il disposto dell’art. 2082 c.c., è da intendersi come il tendenziale perseguimento del “pareggio” fra costi e ricavi non inerendo alla qualifica di imprenditore l’esercizio di attività allo scopo di produrre ricavi eccedenti i costi».

Da tale impostazione non si discosta l’ordinanza in commento, laddove – come già osservato – identifica il (semplice) collezionista – al fine di distinguerlo dallo «speculatore occasionale» e, a maggior ragione, dal mercante d’arte – in «chi acquista le opere per scopi culturali, con la finalità di incrementare la propria collezione e possedere l’opera, senza l’intento di rivenderla generando una plusvalenza, avendo interesse non tanto per il valore economico della res quanto per quello estetico-culturale, per il piacere che il possedere le opere genera, per l’interesse all’arte, per conoscere gli artisti, per vedere le mostre».

3.1. Benché, come detto, al fine di qualificare un soggetto come imprenditore ai fini tributari non sia necessaria l’organizzazione in forma di impresa, rilievo essenziale assume l’abitualità dell’esercizio dell’attività economica, che distingue l’imprenditore, appunto, dallo speculatore occasionale. A tale proposito, secondo la Corte (che richiama Cass., sez. V, 8 aprile 2016, n. 6853), l’esercizio dell’attività è da considerarsi abituale, vale a dire non meramente occasionale, se presenta «caratteri di stabilità e regolarità» e che si protrae «per un apprezzabile periodo di tempo, pur se non necessariamente con rigorosa continuità». In questo senso si esprime anche la dottrina (cfr. Zizzo G., I redditi d’impresa, cit., 255, inoltre, Gatto A., I redditi da cessione di oggetti da collezione, in Rass. trib., 2017, 3, 840) la quale non soltanto evidenzia che «l’esistenza di interruzioni non è … incompatibile con l’abitualità», ma afferma che «anche un unico affare può dare vita ad un esercizio abituale quando presenti una notevole rilevanza economica e, soprattutto, comporti una molteplicità di operazioni (diverse) per la sua realizzazione» (così Zizzo G., I redditi d’impresa, cit., 255 s.; inoltre, Fantozzi A. – Paparella F., Lezioni di diritto tributario dell’impresa, II ed., Milano, 2019, 68 s.; Bagarotto E.M., Regime tributario della cessione di opere d’arte, cit., 293 s., e, in giurisprudenza, Cass., sez. V, 13 dicembre 2022, n. 36502).

Tali circostanze costituiscono il profilo di più complesso apprezzamento: «il confine tra ciò che è professione abituale e ciò che non lo è … risulta inevitabilmente caratterizzato da una zona grigia e deve essere individuato mediante un’analisi caso per caso» (così Bagarotto E.M., Regime tributario della cessione di opere d’arte, cit., 293). Nella fattispecie oggetto del giudizio l’abitualità pare essere dedotta essenzialmente dal numero delle transazioni (registrate ovvero presunte sulla scorta delle movimentazioni bancarie), dalla presenza di tre magazzini e dalla circostanza che le transazioni medesime avevano avuto luogo in svariati anni d’imposta, in relazione ai quali sono stati emessi gli avvisi di accertamento.

Ai fini dell’accertamento di fatto, da compiersi da parte del giudice di merito, la giurisprudenza assegna rilievo sintomatico a elementi quali la presenza di una rudimentale organizzazione aziendale, l’acquisto, per la rivendita, di numerose opere d’arte, lo svolgimento di attività promozionali; inoltre, la reiterazione di atti, oggettivamente qualificabili come atti d’impresa, espressione della natura professionale e abituale dell’attività, secondo la giurisprudenza non è desumibile soltanto dalle cessioni, ma anche dalle attività prodromiche a queste (cfr. Cass., sez. V, 8 marzo 2023, n. 6874; Cass., sez. V, 31 marzo 2008, n. 8196; Cass., sez. I, 13 agosto 2004, n. 15769).

Ad avviso della dottrina, oltre al numero delle operazioni concluse, rilevano «la distribuzione delle stesse nel tempo, i valori movimentati, i ‘margini’ realizzati, la tipologia di contribuente, nonché l’analisi dei beni strumentali eventualmente impiegati» e depongono «nel senso della professionalità ed abitualità la disponibilità di uffici, di una galleria, di un sito internet, di collaboratori, di mezzi di trasporto, nonché il sostenimento di costi per servizi, ecc.».

4. I c.d. mercanti d’arte, in quanto imprenditori commerciali ai fini fiscali, producono redditi, appunto, d’impresa commerciale e sono soggetti, se persone fisiche, all’imposta sul reddito delle persone fisiche.

In estrema sintesi, le cessioni di opere d’arte acquistate nell’ambito dello svolgimento dell’attività intermediaria nella circolazione di tali opere, determinano il conseguimento di ricavi, che concorrono alla formazione del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 85 D.P.R. n. 917/1986, nella misura di regola corrispondente ai corrispettivi delle cessioni. Qualora non si applichi il regime forfettario dei c.d. minimi del quale – previsto dall’art. 1, comma 54, L. 30 dicembre 2014, n. 190, come sostituito dall’art. 1, comma 692, lett. a), L. 27 dicembre 2019, n. 160, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 54, lett. a), L. 29 dicembre 2022, n. 197 – non possono peraltro avvalersi, tra gli altri, «le persone fisiche che si avvalgono di regimi speciali ai fini dell’imposta sul valore aggiunto» (art. 1, comma 57, lett. a), come nel caso di specie – il reddito d’impresa si determina in base alla disciplina degli artt. 55 ss., D.P.R. n. 917/1986, che si basa, in estrema sintesi, su di un confronto fra componenti positivi (in primis, appunto, i ricavi) e i costi inerenti all’attività, compreso il costo di acquisto delle opere rivendute.

Dalla qualificazione dei mercanti d’arte come imprenditori commerciali deriva non soltanto l’applicazione delle relative regole sostanziali per la determinazione di imponibili e imposte, ma anche la soggezione agli obblighi contabili e dichiarativi e ai poteri accertativi dell’Amministrazione.

In particolare, come è accaduto nella vicenda che ha dato origine all’arresto, ai fini della determinazione del reddito d’impresa e dell’imponibile IVA, l’Agenzia delle Entrate o la Guardia di Finanza possono compiere anche indagini bancarie. Ai movimenti desunti dagli estratti conto bancari degli imprenditori, il legislatore tributario ricollega, com’è noto, due presunzioni legali relative (si veda l’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, D.P.R. n. 600/1973). In base alla prima, applicabile a imprenditori e lavoratori autonomi, l’Ufficio fiscale può, in sede di accertamento, determinare componenti di reddito e imponibili IVA non dichiarati sulla base degli importi risultanti dalle operazioni attive dei conti correnti, «se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine». La seconda presunzione, riferibile unicamente ai soggetti che esercitano attività d’impresa, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 6 ottobre 2014, n. 228, consente all’Ufficio di determinare i ricavi d’impresa e imponibili IVA anche sulla base dei prelevamenti, «se il contribuente non ne indica il beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili».

Nell’ambito dell’accertamento impugnato – che si basava, se ben s’intende, su una determinazione analitico-induttiva del reddito – l’Agenzia delle Entrate, con una ricostruzione ritenuta corretta dalla Cassazione, che ha censurato la riduzione compiuta dal giudice d’appello, aveva appunto ricostruito i ricavi utilizzando sia la documentazione concernente le vendite effettuate, reperita nel corso della verifica (le dichiarazioni di vendita sottoscritte dal cedente, reperite presso la Alfa s.n.c.), sia valorizzando presuntivamente, in aggiunta, le movimentazioni bancarie relative al contribuente.

Per quanto attiene, invece, ai costi correlati la Corte ritiene adeguatamente motivata la decisione d’appello, nell’ambito della quale i costi deducibili sono determinati nella misura dell’80% dei ricavi. La Commissione tributaria regionale del Veneto si era basata, invero, sulla circostanza che la stessa Agenzia delle Entrate aveva ritenuto di applicare tale misura in un «altro avviso di accertamento relativo all’anno 2009» ed inoltre tale determinazione dei costi era riferita agli studi di settore per il commercio al dettaglio di oggetti d’arte.

La necessità, nell’ambito della determinazione analitico-induttiva del reddito d’impresa basata sulle presunzioni relative ai movimenti bancari, di tener conto dei costi correlati ai ricavi accertati, anche desumendoli presuntivamente sulla scorta alle “medie” elaborate dall’Amministrazione finanziaria per il settore di riferimento è stata di recente riconosciuta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 10/2023 (commentata, ad esempio, da Boria P., La deducibilità dei costi “neri” nell’ambito degli accertamenti di tipo induttivo, in GT – Riv. giur. trib., 2024, 1, 48 ss., e da Zagà S., Prelevamenti bancari e metodi di accertamento, in Dir. prat. trib., 2023, 3, 992 ss.) richiamata nell’ordinanza in commento. Ad avviso della Corte costituzionale, invero, si porrebbe in contrasto con i principi di ragionevolezza e di capacità contributiva un sistema che consentisse all’Amministrazione di «dimostrare, in virtù di un meccanismo inferenziale di secondo grado, che i prelievi del contribuente-imprenditore sono serviti per sostenere costi “occulti”, dai quali sono stati prodotti ricavi “occulti”, pari ai prelievi in questione, senza che sia possibile la deduzione dei costi sostenuti dall’imprenditore per produrre tali ricavi, secondo una prova contraria per presunzioni offerta da quest’ultimo». In particolare, secondo la Corte, la contrarietà al principio della capacità contributiva deriva dal fatto che la presunzione che determina il recupero, quali ricavi occulti, dei prelievi bancari determinerebbe – in mancanza di alcuna deduzione di costi correlati, ricostruiti anche in via presuntiva, con riferimento alle c.d. medie elaborate dall’Amministrazione finanziaria per ciascun settore di attività – l’imposizione di un reddito, almeno in parte inesistente, mentre il prelievo tributario deve avere una causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza.

5. Il mercante d’arte, che esercita abitualmente un’attività di natura commerciale, è, inoltre, soggetto all’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto in base gli artt. 1 e 4, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo i quali «l’imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e sulle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese e nell’esercizio di arti e professioni …» (art. 1), e «per esercizio di imprese si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in forma di impresa …» (art. 4, comma 1).

Ai fini dell’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto è possibile optare per il regime speciale detto “del margine”, introdotto dalla Direttiva CEE 14 febbraio 1994, n. 94/5/CE, e recepito nell’ordinamento italiano dagli artt. da 36 a 40-bis D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, conv. nella L. 22 marzo 1985, n. 85. Si tratta di un regime di applicazione facoltativa, volto ad evitare fenomeni di doppia o reiterata imposizione sui medesimi beni, regime per il quale possono optare i soggetti che esercitano per professione abituale il commercio, tra l’altro, degli oggetti d’arte, d’antiquariato e da collezione acquistati da privati, nel territorio dello Stato o in quello di altro Stato membro dell’Unione Europea. L’applicazione di tale regime, che postula l’acquisto, da parte dell’operatore professionale, della proprietà dell’opera successivamente rivenduta, oltre all’esercizio dell’apposita opzione, è subordinata all’adempimento di appositi obblighi di fatturazione e registrazione delle operazioni.

In base al regime del margine, l’imposta è applicata al solo utile lordo realizzato dall’operatore professionale, vale a dire alla differenza – il margine, appunto – tra il prezzo di vendita al cessionario e quello di acquisto, maggiorato delle spese di riparazione e accessorie.

Il regime in esame prevede tre diversi metodi di calcolo della base imponibile sulla quale applicare l’imposta, ai quali corrispondono differenti obblighi formali per l’operatore professionale. Il primo, c.d. analitico, prevede che il margine lordo venga determinato per ogni cessione come differenza tra il prezzo dovuto dal cessionario del bene e quello relativo all’acquisto del bene, comprensivo delle spese di riparazione e di quelle accessorie. Con il metodo forfettario l’ammontare del margine lordo è calcolato in misura percentuale rispetto al prezzo di vendita, considerando che con specifico riguardo agli oggetti d’arte, il cui prezzo di acquisto manca o è privo di rilevanza o è indeterminabile, l’ammontare del margine si considera pari al 60% del prezzo di vendita. Nell’ambito del metodo globale, che si applica qualora non vi sia stata opzione per uno dei due precedenti metodi (art. 36, comma 6, D.L. n. 41/1995), il margine imponibile è determinato con riguardo all’ammontare complessivo degli acquisti e delle cessioni posti in essere in ciascun periodo mensile o trimestrale; precisamente, l’imposta è ragguagliata al margine globale costituito dalla differenza tra l’importo di tutte le cessioni e di tutti gli acquisti, aumentato, il secondo, delle spese di riparazione ed accessorie, effettuati nei periodi di riferimento .

La specialità del regime del margine, derogatorio rispetto alla comune disciplina IVA sia delle cessioni di beni fra soggetti residenti in diversi paesi dell’Unione Europea, sia delle operazioni che si svolgono nel territorio dello Stato, postula che il soggetto che opta per l’applicazione di tale regime provi la sussistenza dei relativi presupposti (in questo senso si vedano Cass., sez. V, 8 marzo 2023, n. 6874 e Cass., sez. V, 29 novembre 2021, n. 37261).

Nel caso di specie, la Commissione regionale aveva ritenuto applicabile il regime del margine ai sensi dell’art. 36, comma 6, d.l. n. 41/1995, commisurando l’imposta in modo forfettario (globale), ragguagliando l’ammontare del margine lordo (60%) al volume dei ricavi accertati. Il contribuente, invece, invocava la determinazione analitica del margine, nell’ambito del quale il medesimo sarebbe stato calcolato sulla base del confronto fra i ricavi e i costi accertati (che, si rammenta, erano stati induttivamente fissati nella misura dell’80% dei primi).

La Cassazione adotta in proposito un’interpretazione rigorosa, dato che, come detto, nel caso di specie non solo i costi di acquisto delle opere d’arte sono stati determinati induttivamente, ma anche il ricavato delle vendite. Esaminando dunque il relativo motivo d’impugnazione incidentale del contribuente, la Corte afferma che l’applicazione del regime del margine con determinazione analitica postula che i reali prezzi di acquisto siano noti, mentre «ove il prezzo di acquisto manca, o è privo di rilevanza o non è determinabile», non può che applicarsi il regime forfettario. Né può tener luogo dei reali prezzi di acquisto l’ammontare dei medesimi presunto nell’ambito della determinazione induttiva del reddito d’impresa: ad avviso della Corte, invero, non può confondersi il profilo della «valutazione dei costi di impresa genericamente intesi e accertati al fine di procedere all’accertamento impositivo che sia conforme al principio della capacità contributiva» con quello dell’applicazione del regime IVA del margine ordinario; che «ha riguardo al mero prezzo di acquisto di ogni singola opera d’arte».

6. Con motivo che la Corte Suprema ha ritenuto fondato, il contribuente si doleva che la Commissione regionale avesse ritenuto applicabile nei suoi confronti l’imposta regionale sulle attività produttive, benché l’attività non fosse stata esercitata mediante un’autonoma organizzazione.

Come già osservato, il tema della soggezione all’IRAP degli imprenditori individuali ha perso in parte di attualità a motivo che, a partire dal periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 2022, gli stessi e gli esercenti arti e professioni non sono più soggetti a tale imposta ai sensi dell’art. 1, comma 8, L. n. 234/2021.  La Corte Suprema ha, nondimeno, occasione di ribadire il proprio orientamento in tema di attività imprenditoriale svolta in forma individuale e, in particolare esercitata dal cd. piccolo imprenditore, orientamento secondo il quale l’applicazione dell’imposta è esclusa (soltanto) «qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata» (si vedano anche, fra le altre, Cass., sez. VI-trib., 30 novembre 2016, n. 24515; Cass., sez. V, 21 marzo 2012, n. 4490; Cass., sez. V, 27 gennaio 2012, n. 1162; Cass., sez. V, 13 ottobre 2010, nn. 21122, 20123, 20124).

Si rammenta, in primo luogo, che in base all’art. 2, comma 1, primo periodo, D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, istitutivo dell’IRAP, «presupposto dell’imposta è l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi» e che, secondo giurisprudenza costante, «solo l’esercizio di professioni in forma societaria costituisce ex lege presupposto dell’ imposta, senza necessità di accertare in concreto la sussistenza di un’autonoma organizzazione» (cfr. Cass., sez. V, 17 giugno 2022, n. 19634; Cass., Sez. Un., 14 aprile 2016, n. 7371).

Né può essere attribuita alla disciplina delle imposte sul reddito un’efficacia condizionante ai fini dell’interpretazione di imposte, come è l’IRAP, che rispondono ad altri criteri e ad una diversa ratio impositiva; dunque le attività contemplate dall’art. 2195 c.c. – che sono produttive di reddito d’impresa, anche se svolte senza organizzazione di capitali o lavoro altrui – non determinano necessariamente la soggettività passiva anche dell’IRAP. La giustificazione costituzionale di questa non si rinviene, infatti, nell’oggettiva natura dell’attività svolta, bensì nell’autonomia organizzativa, «un quid che eccede il lavoro personale del soggetto agente ed implica appunto l’organizzazione di capitali o lavoro altrui»; viceversa, se «il lavoro personale bastasse, l’imposta … si trasformerebbe inevitabilmente in una sostanziale imposta sul reddito» (Cass., sez. V, 17 giugno 2022, n. 19634).

In particolare, secondo la Cassazione, il requisito dell’autonoma organizzazione «ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza dell’organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui» (oltre all’ordinanza in rassegna, cfr. Cass., sez. V, 17 giugno 2022, n. 19634; Cass., sez. VI-trib., 30 novembre 2016, n. 24515).

Nel caso di specie, il giudice d’appello aveva ritenuto applicabile al contribuente l’IRAP ravvisando «una forma di organizzazione strumentale» dedotta dallo svolgimento dell’attività d’impresa e dall’esistenza di una struttura diretta alla conservazione dei beni oggetti di attività (le opere erano conservate in tre diversi luoghi), senza procedere «a verificare se e in che modo anche la presenza di tre magazzini potesse assumere valore ai fini della valutazione della sussistenza di una autonoma organizzazione secondo i parametri» indicati dalla Cassazione e «in particolare l’utilizzo di beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza dell’organizzazione».

7. Manca, allo stato attuale, una disciplina normativa specifica in materia di imposte dirette concernente le compravendite di opere d’arte effettuate dai privati. In passato – in occasione della Legge di Bilancio 2018 – era stata prospettata la possibilità di includere fra i redditi da attività commerciali non eserciate abitualmente quelli derivanti dalla vendita di oggetti d’arte, di antiquariato e da collezione. Prima ancora, l’art. 76 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, rubricato «Redditi derivanti da operazioni speculative», considerava, al terzo comma, n. 3, «in ogni caso fatti con fini speculativi, senza possibilità di prova contraria» e, quindi, fonti di redditi diversi imponibili, «l’acquisto e la vendita di oggetti d’arte, di antiquariato o in genere da collezione, se il periodo di tempo intercorrente tra l’acquisto e la vendita non è superiore a due anni». Quella presunzione assoluta di intento speculativo, che consentiva di determinare con certezza la sorte fiscale, ai fini dell’imposizione sul reddito, delle cessioni di oggetti d’arte compiute al di fuori di un’attività di impresa commerciale, sulla base di un criterio cronologico-temporale, è stata abrogata con l’entrata in vigore del D.P.R. n. 917/1986, che ha introdotto la disciplina attuale delle plusvalenze che costituiscono redditi diversi (cfr. in proposito, ad esempio, Leo M., La necessità di regole più chiare per la tassazione del mondo dell’arte, in Corr. trib., 2021, 10, 832).

La delega al Governo per la riforma fiscale, contenuta nella L. 9 agosto 2023, n. 111, prevede all’art. 5, comma 1, lett. h), n. 3, per quanto riguarda i redditi diversi, «l’introduzione di una disciplina sulle plusvalenze conseguite, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa, dai collezionisti di oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione nonché, in generale, di opere dell’ingegno di carattere creativo appartenenti alle arti figurative, escludendo i casi in cui è assente l’intento speculativo, compresi quelli di plusvalenza relativa a beni acquisiti per successione o donazione, nonché esonerando i medesimi da ogni forma dichiarativa di carattere patrimoniale».

In attesa della disposizione attuativa, dalla norma di delega – che fa riferimento espressamente ai redditi diversi posseduti «al di fuori dell’esercizio dell’attività d’impresa» e, nel contempo, esclude dalla previsione «i casi in cui è assente l’intento speculativo» – si deduce comunque che la distinzione fra soggetti che esercitano attività d’impresa commerciale quali mercanti d’arte, speculatori occasionali e semplici collezionisti ai quali non è riferibile un intento speculativo è destinata a permanere e, quindi, gli sforzi di giurisprudenza e dottrina di individuare e meglio precisare i criteri distintivi fra le diverse categorie, non sono destinati a perdere di attualità e rilevanza.

Si segnala anche, con riguardo alle cessioni di oggetti d’arte, che l’art. 7 della delega, recante «Princìpi e criteri direttivi per la revisione dell’imposta sul valore aggiunto», prevede, al comma 1, lett. e), di «ridurre l’aliquota dell’IVA all’importazione di opere d’arte, recependo la direttiva (UE) 2022/542 del Consiglio, del 5 aprile 2022, ed estendendo l’aliquota ridotta anche alle cessioni di oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione».

(*)  Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2024 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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