Riflessioni sull’imposizione di registro degli apporti di immobili ai fondi immobiliari alla luce di una recente pronuncia della Suprema Corte

Di Alberto Mula -

(commento a/notes to Corte di Cassazione, sez. V., sent. 5 febbraio 2024, n. 3218)

Abstract

Con il “riordino” dell’imposizione di registro sui trasferimenti immobiliari, di cui al D.lgs. 23/2011, si era provveduto, tra l’altro, a “sopprimere” tutte le “esenzioni e agevolazioni” riguardanti gli atti “traslativi a titolo oneroso” di beni immobili, fatte salve esclusivamente quelle previste dalla legge. Per effetto di tale previsione, vi era da tempo incertezza circa la vigenza dell’art. 9 D.L. 351/2001, in base al quale gli apporti ai fondi immobiliari, anche quando hanno ad oggetto immobili, non sono assoggettati a tassazione proporzionale (diversamente dai conferimenti in società). La Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha per la prima volta esaminato la questione, mettendo in luce la peculiare struttura dei fondi di investimento (e, conseguentemente, dei relativi apporti), ritenendo, pertanto, che la regola prevista dall’art. 9 D.L. 351/2001 debba ritenersi non già agevolativa ma adeguata alla peculiarità della fattispecie.

Reflections on the registration tax regime relating to contributions to real estate funds in the light of a Supreme Court’s recent decision – With the “reorganization” of the registration tax regime on real estate transactions, set forth with Legislative Decree 23/2011, it had been provided, inter alia, to “suppress” all “tax reliefs” regarding real estate transfers, with the exception of those specifically provided by law. As a result, there had long been uncertainties about the validity of Art. 9 of Decree Law 351/2001, according to which contributions to real estate investment funds, even when they relate to real estate properties, are not subject to proportional taxation (unlike contributions to companies). The Supreme Court, in the judgment under comment, examined the issue for the first time, highlighting the peculiar structure of investment funds (and, consequently, of the contributions to them), holding, therefore, that the rule provided for in Article 9 Decree-Law 351/2001 should not be considered as a tax relief but as consequence of the peculiarities of the case.

Sommario: 1. Premessa. – 2. Il caso affrontato dalla Suprema Corte. – 3. La possibile ratio (strutturale) dell’art. 9 D.L. n. 351/2001. – 4. Apporti ai fondi e conferimenti in società. – 5. Conclusioni critiche in ordine alla capacità espansiva della pronuncia.

1. Sin dalla introduzione dei fondi immobiliari chiusi, avvenuta con L. n. 86/1994, si è previsto che dovesse valere, anche per essi, la previsione di non obbligatorietà della registrazione già contenuta, per la sottoscrizione di quote di fondi mobiliari, all’art. 7 della Tabella allegata al Testo Unico del Registro (d’ora in avanti, “TUR”)[1].

La previsione – contenuta dapprima all’art. 15, comma 9, L. n. 86/1994 e riprodotta poi all’art. 9, comma 1, D.L. n. 351/2001 – ha consentito sino ad oggi, secondo l’interpretazione diffusa (e comunque non contrastata nel caso di specie), di assoggettare gli apporti di immobili al fondo (pur se fuori campo IVA) all’imposta di registro nella sola misura fissa[2] (per il combinato operare dell’art. 11 Tariffa)[3].

Negli ultimi anni, si è però dubitato della perdurante vigenza del regime in questione.

Com’è noto, infatti, in occasione del “riordino” dell’imposizione di registro sui trasferimenti immobiliari, si è proceduto ad una generale abolizione dei regimi di favore che, in quel settore, si sono disordinatamente stratificati nel tempo. Prevedendosi, però, con l’art. 10, comma 4, D.Lgs. n. 23/2011[4], non già l’abrogazione di specifiche disposizioni (e tanto meno di quella in esame), bensì una generale “soppressione” di tutte le “esenzioni e agevolazioni” riguardanti gli atti (“traslativi a titolo oneroso” di beni immobili) di cui all’art. 1 della Tariffa, Parte I, TUR. Ciò che ha “caricato” gli operatori del delicato compito di verificare la riconducibilità, a dette nozioni (agevolazione/esenzione), delle singole disposizioni di volta in volta rilevanti[5] (e, come si vedrà, l’ascrivibilità degli atti cui esse si riferiscono al novero dei “atti traslativi a titolo oneroso” di cui alla riferita disposizione della Tariffa).

2. Proprio questo il tema di cui si è occupata, in una recente occasione[6], la Corte di Cassazione.

In particolare, si trattava dell’apporto (fuori campo IVA) di un immobile a un fondo immobiliare, per il quale, a fronte dell’imposta di registro liquidata in misura fissa dalle parti, l’Agenzia delle Entrate aveva preteso il maggior tributo calcolato con l’aliquota del 9%. E tanto, per l’appunto, sul presupposto di avere l’art. 10, comma 4, D.Lgs. n. 23/2011 soppresso l’anzidetto regime di non imponibilità, con la conseguente “(ri)espansione”, a tale fattispecie, della tassazione proporzionale prevista dall’art. 1 Tariffa[7].

Orbene, i Supremi Giudici hanno giudicato erronea la tesi erariale, ritenendo – questa la principale (anche se non esclusiva) ragione della decisione – il trattamento fiscale di cui all’art. 9 cit. privo di carattere agevolativo (e, pertanto, non operante, in relazione ad esso, la soppressione di cui si è detto).

Più in dettaglio, per motivare tale convincimento, oltre ad evidenziare che il regime di non obbligatorietà della registrazione degli apporti è previsto tradizionalmente[8] e per entrambe le tipologie (sia mobiliare che immobiliare) di fondi – ciò che sarebbe indicativo della “organicità” della disciplina –, la Corte ha sottolineato taluni profili di peculiarità strutturale della fattispecie, in grado di giustificarne un trattamento diverso da quello previsto per i fenomeni più prossimi (in particolare, per i conferimenti in società, per i quali l’art. 4 Tariffa prevede, laddove abbiano ad oggetto immobili, la medesima tassazione proporzionale prevista all’art. 1 Tariffa) [9].

3. A tal proposito, la correttezza della soluzione assunta dalla Suprema Corte implica, invero, un esame della “struttura” dei fondi d’investimento, e cioè del rapporto intercorrente tra investitori, SGR e fondo, al fine di verificare l’adeguatezza, ad essa, della disciplina di cui all’art. 9 D.L. 351/2001.

Un siffatto esame è, però, in buona parte ostacolato dalle incertezze che, presso la dottrina civilistica, tradizionalmente si sono registrate al momento di giustificare l’istituto secondo le categorie giuridiche tradizionali. Incertezze che, in estrema sintesi, derivano dall’avere la struttura e la disciplina dei fondi d’investimento il proprio archetipo nel trust (e, in particolare, nel c.d. contractual investment trust), con le conseguenti – ben note – difficoltà ricostruttive determinate dalla dicotomia (sconosciuta agli ordinamenti continentali) tra legal e equitable ownership.

Proprio per questo motivo, le molte configurazioni avanzate in proposito (prima e dopo l’introduzione dei fondi comuni nel nostro ordinamento) sono state per lo più mosse dall’obiettivo di coniugare (sul piano della struttura giuridica della fattispecie) – e pur nell’ambito e utilizzando le categorie del nostro ordinamento – i poteri di amministrazione attiva affidati al gestore (che implicano una piena disponibilità dei beni) con l’emersione (sul piano non meramente obbligatorio) dell’interesse degli investitori (in funzione esclusiva del quale avviene la gestione)[10].

Non a caso, tra i primi (e più autorevoli) tentativi ricostruttivi[11] vi è stato quello di chi, al fine di dare prevalenza a quest’ultimo interesse, ha ritenuto di considerare il fondo alla stregua di una comunione (con conseguente conservazione in capo agli investitori della [com]proprietà sui beni apportati) e, conseguentemente, il rapporto con il gestore alla stregua di un mandato (senza rappresentanza). Ricostruzione questa che, però, ha finito per scontrarsi, tra l’altro, con il dato, innegabile e caratterizzante l’istituto, dell’assenza di qualsivoglia forma di controllo gestorio da parte degli investitori e con il dato di essere ogni pretesa creditoria verso quest’ultimi eseguibile esclusivamente nei confronti della quota e non sui beni del fondo.

Di qui la prevalenza delle ulteriori ipotesi ricostruttive, secondo cui, invece, la perdita del godimento da parte degli investitori configurerebbe comunque un trasferimento, in favore del fondo o della SGR (a seconda che si propenda o meno per la “soggettivazione” del primo), a fronte della “quota” di partecipazione in favore dell’apportante. Titolo quest’ultimo che, lungi dall’essere rappresentativo dei beni apportati, incorpora invece (secondo la tesi in assoluto prevalente) il credito alla percezione dei proventi derivanti dalla gestione e quanto risultante dalla liquidazione finale[12].

Orbene, in questa seconda ottica, il trasferimento dei beni, operato a fronte della quota (con la conseguente modifica qualitativa del patrimonio dell’apportante), potrebbe giustificare l’attrazione dell’apporto nell’area dei trasferimenti a titolo oneroso (con la conseguenza di doversi considerare la disposizione di cui all’art. 9 cit. di natura agevolativa, in quanto non in linea con la struttura della fattispecie).

Sennonché, va comunque dato rilievo alla circostanza che, pur essendovi, in occasione dell’apporto, un trasferimento della proprietà – in particolare, a beneficio della SGR, secondo l’orientamento di legittimità prevalente in ambito civilistico[13] –, la gestione del fondo ad opera di quest’ultima deve avvenire, per legge, nell’esclusivo interesse degli investitori[14]. Sicché, il trasferimento alla SGR conseguente all’apporto al fondo è da riguardarsi, comunque, quale atto strumentale e strettamente necessario allo svolgimento dell’incarico di gestione ad essa collettivamente conferito dagli investitori (nei cui confronti, ex art. 36 TUF, la SGR assume, infatti, la medesima responsabilità del mandatario[15])[16].

Non a caso, e come noto, proprio per la circostanza di non dover eccedere detta (stretta) strumentalità, l’apporto è accompagnato dalla nascita, in capo ai beni che ne costituiscono l’oggetto, di uno specifico vincolo di destinazione, il quale determina, tra l’altro, il regime di perfetta separazione patrimoniale del patrimonio del fondo rispetto a quello della SGR (art. 36, comma 4, TUF)[17] [18] e degli stessi partecipanti.

Pertanto, anche per i fondi, così come per i trust (cui, non a caso, la Suprema Corte mostra comprensibilmente di associare l’istituto in esame), l’avente causa dell’apporto (i.e., la SGR) diviene titolare solo “in senso formale” del bene, potendo disporre dello stesso solo in conformità alla destinazione ad essi impressa dagli investitori, a cui spetta la titolarità “in senso sostanziale”, rimanendo in capo ad essi l’imputazione di utilità, rischi e benefici della gestione[19].

Alla luce di quanto si è detto, non sembra irragionevole ritenere che l’art. 9 D.L. 351/2001 rifletta una volontà normativa tesa a cogliere il reale equilibrio tra gli interessi in gioco, al di là della configurazione dell’istituto secondo le categorie tradizionali. Con la conseguenza che lo “scarto” intercorrente tra detta disposizione e l’apparente rilevanza dell’istituto (ai fini del registro), può giustificarsi non già con un intento agevolativo bensì con l’esigenza di un miglior apprezzamento complessivo della fattispecie.

Del resto, la medesima dialettica – tra configurazione alla stregua delle categorie tradizionali e più adeguata rilevanza dell’interesse dell’investitore (orientato a cogliere funditus la portata – verrebbe da dire “economica” – della vicenda) sembra di rintracciarsi anche nel settore dell’imposizione diretta, pur con la cautela che è richiesta dalla diversità del contesto.

Infatti, appare significativo, ai fini che qui interessa, che, anche in quel settore, e anche nel dibattito che ha preceduto l’istituzione dei fondi, si sia posta la duplice necessità, che, da un lato, la disciplina tributaria, «comunque si voglia configurare [il fondo] sotto il profilo giuridico, non determini una tassazione aggiuntiva rispetto a quella che si avrebbe se i partecipanti al fondo effettuassero essi stessi, direttamente, i loro investimenti sul mercato mobiliare». E che, dall’altro, per il buon esito dell’istituto, “ai fondi venga concesso un trattamento fiscale di favore” [20]. Esigenza quest’ultima – quella di dotare la disciplina di un adeguato “apparato” incentivante – avvertita separatamente alla prima (quella della “trasparenza” dei fondi rispetto al regime di imposizione reddituale, implicitamente ritenuta strutturale)[21].

Proprio in quest’ottica, del resto, è appena il caso di rammentare, come, pur con significative eccezioni, la legge tributaria – ripetesi, e indipendentemente dalla costruzione giuridica di diritto sostanziale – ha per lo più stimato i fondi capaci[22] di “percepire” “redditi di capitale”[23] (qualificazione questa incompatibile con il soggetto – sulla cui natura commerciale non v’è da dubitare – titolare della fonte). E che, peraltro, proprio in sede di prima istituzione dei fondi mobiliari, di fronte alla previsione di una tassabilità delle plusvalenze conseguite dal fondo (inserita nella prima versione del testo di legge poi approvato), molte furono le voci polemiche (per effetto delle quali detta previsione fu abolita) basate proprio sull’intassabilità delle stesse in capo ai quotisti persone fisiche (se non a condizione che fosse provato l’intento speculativo).

Del resto, e ancora, proprio per le riferite peculiarità, i redditi dei fondi – tanto mobiliari quanto immobiliari – sono, da sempre (salvo l’operare di regimi eccezionali, di stampo antielusivo) tassati una volta sola (per di più, oggi, esclusivamente al momento della percezione da parte dei quotisti, attraverso applicazione di ritenute), essendovi stata tradizionalmente una perfetta alternatività (e mai sovrapposizione) tra imposizione al momento della produzione del reddito (e sua formale persistenza nella sfera di dominio del fondo o del gestore) e imposizione in capo ai partecipanti.

Infatti, a prescindere da un’indagine sui molteplici regimi che nel tempo si sono susseguiti, valga considerare che, anche laddove si è prevista un’imposizione dei redditi all’atto della loro produzione (prelevata dal gestore dal fondo)[24], il legislatore si è sempre premurato di escludere ogni imposizione in capo ai partecipanti. Essendosi evidentemente ritenuta sufficiente, ai fini del concorso di questi ultimi (cui in definitiva è riconducibile il reddito), la tassazione cedolare già avvenuta “per il tramite” della SGR, secondo un meccanismo non dissimile da quello della sostituzione tributaria[25].

4. Dando congrua rilevanza a tali circostanze, è allora possibile convenire sulla differenza con i conferimenti in società (e, pertanto, sulla congruità di un trattamento diverso per gli apporti ai fondi).

I conferimenti in società, infatti, determinano un trasferimento “finale”, essendo funzionali a dotare la conferitaria dei mezzi necessari all’esercizio della propria attività d’impresa (i cui risultati sono imputati alla società, e gestiti da quest’ultima nel proprio interesse), a fronte del vantaggio atteso dal conferente (consistente nella ripartizione degli utili). Diversamente dai risultati della gestione che, “accumulati” nel fondo, sono per ciò solo comunque vincolati alla soddisfazione dell’interesse dei quotisti (anche nel periodo in cui sono nella titolarità “formale” della SGR, la quale, infatti, non ha alcun potere sulla destinazione degli stessi).

Nel caso del conferimento, – pur senza entrare nel dibattito, tradizionale e mai sopito presso la dottrina commercialistica, circa la natura e il contenuto dell’“interesse sociale” – la prestazione in cui esso si concreta è tesa a soddisfare non già (se non mediatamente) l’interesse del conferente ma primariamente quello – diverso e con esso in potenziale antinomia – della società. Interesse quest’ultimo in funzione del quale, come sottolineato dalla pronuncia annotata, la società stessa esercita il diritto di proprietà acquisito in seguito e per effetto del conferimento.

Si diceva: nel conferimento in società, la relativa remunerazione è, dal punto di vista economico, legata non già alla produttività del bene conferito bensì all’attività d’impresa commerciale svolta (dalla società). Per questa ragione, e cioè proprio per essere le aspettative di remunerazione slegate dalla consistenza del bene conferito, il carattere di onerosità del rapporto è agevolmente apprezzabile. Lo sarebbe meno, invece, laddove, come nel caso degli apporti ai fondi, il conferimento riguardasse i medesimi beni produttivi. Considerato che, in quel caso, il mutamento della titolarità degli stessi, a fronte del diritto a riceverne comunque la remunerazione, sembra avvicinare in qualche misura, dal punto di vista economico, il conferimento ad un apporto finalizzato alla gestione. Circostanza questa che, pur se nell’ambito di un rapporto commutativo tra conferimento e aspettativa di remunerazione, evidenzia il permanere di un legame economico tra quest’ultima e il bene apportato (visto che, per l’appunto, le attese sono legate alla produttività di quel medesimo bene e non di una diversa fonte). Ciò che consente di ricondurre a razionalità anche la tassazione in misura fissa dei conferimenti di azienda (e di accomunare ad essi gli apporti ai fondi, in quanto aventi ad oggetto beni produttivi in quella prospettiva).

Ancora in merito alla comparazione con i conferimenti in società, dalle ultime battute della motivazione, pare evincersi che essa – valsa (come si diceva) primariamente a valutare la natura strutturale e non agevolativa della disposizione in esame – sarebbe servita anche a verificare (e poi ad escludere) un’eventuale qualificazione degli apporti ai fondi tra gli atti di cui all’art. 1 Tariffa.

Come si rammentava in apertura, infatti, la soppressione di cui all’art. 10, comma 4, D.Lgs. n. 23/2011, è subordinata, oltre (e prim’ancora che) alla natura agevolativa della disposizione in questione, anche alla tipologia di atti che ne costituiscono l’oggetto (i quali devono essere compresi all’art. 1 Tariffa).

La motivazione della sentenza, sembra, cioè, presupporre che un’eventuale equiparazione ai conferimenti in società avrebbe consentito di ricomprendere anche i primi (come i secondi) tra gli atti traslativi a titolo oneroso.

È questa però una preoccupazione non del tutto condivisibile, atteso che un’eventuale equiparazione ai conferimenti in società[26], quand’anche ammissibile, non parrebbe consentire comunque una qualificazione degli apporti ai fondi tra gli atti di cui all’art. 1 Tariffa (sui cui regimi agevolativi opera l’abolizione).

Infatti, i conferimenti, sin dalle origini dell’imposizione di registro, sono, da sempre, individuati e trattati distintamente dagli “altri” trasferimenti a titolo oneroso. E ciò per la loro ritenuta diversa (e minore) idoneità ad intercettare la ratio sottesa al tributo di registro (nel senso di rivelare una minore “intensità” del trasferimento).

Basti pensare che, nella legislazione francese, i conferimenti erano ritenuti atti “dichiarativi”[27] e che, in ogni caso, nella legislazione italiana successiva, si è sempre avvertita la necessità di separatamente identificare (per diversamente tassare) i fenomeni in questione. E tanto, per l’appunto, per averli assunti quali fenomeni diversi, sotto i profili rilevanti per quella legislazione, dagli altri negozi (onerosi) produttivi degli effetti traslativi[28].

Del resto, ancora oggi (pur in un contesto completamente mutato, per effetto della legislazione comunitaria in tema di imposta sulla raccolta dei capitali sopravvenuta sul finire degli anni Sessanta), l’analogia di trattamento tra conferimenti di immobili e altri negozi traslativi dei medesimi beni è il frutto non già di un’esigenza strutturale, ma di una ratio sostanzialmente antielusiva[29]. Trattandosi, tradizionalmente, di disposizione eccezionale rispetto al regime naturale dei conferimenti in seno all’imposta di registro.

5. Si è sin qui osservato che il regime di cui all’art. 9, pur potendo apparire prima facie confliggente con la più ricorrente configurazione di diritto sostanziale dei fondi (alla cui stregua la gestione avviene per effetto del trasferimento della proprietà, a riscontro della quale vi è la quota del partecipante), risulta, re melius perpensa, comunque ancorato ad un complessivo apprezzamento degli interessi in gioco. Così da potersene escludere la natura agevolativa (con conseguente sua sopravvivenza all’intervento di soppressione di cui all’art. 10, comma 4, D.Lgs. n. 23/2011).

Ciò detto, non può negarsi che considerazioni relative alla strumentalità del trasferimento (e la tracciata analogia con l’istituto del trust) potrebbero risultare estendibili anche ad ambiti ulteriori rispetto a quello specifico oggetto di trattazione (in primis, le imposte ipotecarie e catastali)[30]. Sennonché, va considerato che, proprio l’anzidetta e diffusa configurazione di diritto sostanziale, parrebbe ostacolare, al di là del perimetro della norma in questione, operazioni estensive del tipo che si è detto.

Del resto, a tal proposito, va considerato che, con riguardo ai soggetti passivi IVA, l’art. 3, comma 122, L. n. 350/2003, con decorrenza dal 1° gennaio 2004, ha disposto, modificando il comma 1-bis) dell’art. 8 D.L. n. 351/2001, che gli apporti ai fondi immobiliari, quando hanno ad oggetto una «una pluralità di immobili prevalentemente locati», si considerano quali conferimenti d’azienda agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto nonché «agli effetti delle imposte di registro, ipotecaria e catastale».

A parte il non ben comprensibile riferimento alle imposte di registro (per le quali, nel momento dell’entrata in vigore dell’anzidetta disposizione, senz’altro valeva la disposizione di esonero di cui all’art. 9 cit.), la disposizione sembra presupporre, implicitamente ma inequivocamente, con riferimento alle imposte ipotecarie e catastali, un’equiparabilità degli apporti ai fondi ai conferimenti in società. E, pertanto, l’assoggettamento delle stesse alla disciplina ordinaria, al di fuori dell’ipotesi tracciata dalla disposizione.

(*) Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review con valutazione positiva. Esso confluirà nel fascicolo n. 2/2024 (semestrale) della Rivista telematica di diritto tributario.

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[1] L’art. 7 Tabella prevede che, tra gli atti per i quali non è necessaria la registrazione, rientrino anche quelli «relativi alla istituzione di fondi comuni di investimento mobiliare autorizzati, alla sottoscrizione e al rimborso delle quote, anche in sede di liquidazione, e all’emissione ed estinzione dei relativi certificati». Come evidenziato nel testo, ai sensi dell’art. 9 D.L. n. 351/2001, detta disposizione «deve intendersi applicabile anche ai fondi d’investimento immobiliare disciplinati dall’articolo 37 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e dall’articolo 14-bis della legge 25 gennaio 1994, n. 86». Dalla lettura combinata dei due testi di legge si evince comunemente (cfr. circ. 8 agosto 2003, n. 47/E e circ. 5 agosto 2004, n. 38/E) che la norma si applica (salvo l’operare congiunto dell’art. 11 Tariffa, Parte I, come si vedrà) anche laddove, nei fondi immobiliari, la sottoscrizione delle quote avvenga a fronte di un apporto di beni immobili.

[2] L’esonero riguarda la sola “registrazione”. Ragione questa per cui la disposizione si è sempre ritenuta limitata all’imposta di registro e non già alle imposte ipotecarie e catastali.

[3] Sul punto, si veda, anche circ. n. 47/E/2003 e circ. 19 giugno 2006, 22/E. In dottrina, Busani A., I fondi immobiliari: apporti, acquisti, cessioni e assegnazioni, in Corr. trib., 2018, 12, 962.

[4] L’art. 10, comma 4, D.Lgs. n. 23/2011, nell’ambito di un più ampio intervento di riordino dell’imposizione di registro sugli atti di trasferimento immobiliari, ha disposto infatti che, a decorrere dal 1° gennaio 2014, «in relazione agli atti di cui ai commi 1 e 2 (e, cioè, quelli – traslativi a titolo oneroso di diritti immobiliari – di cui all’art. 1, Tariffa Parte Prima, TUR) sono soppresse tutte le esenzioni e le agevolazioni tributarie, anche se previste in leggi speciali», fatta eccezione per talune disposizioni specificamente indicate (che, quindi, sono state specificamente “salvate” dall’intervento di abolizione). Tra queste ultime, naturalmente, non rientra quella – cui si fa riferimento nel testo – di cui agli artt. 9 D.L. n. 351/2001 e 7 Tabella TUR. Sull’anzidetto provvedimento di riordino si veda, in generale, Mastroiacovo V., Modifiche all’imposizione indiretta sui trasferimenti di immobili a titolo oneroso, in Corr. trib., 2014, 3, 187; Id., La soppressione delle agevolazioni per i trasferimenti immobiliari nell’imposta di registro e l’araba fenice, in Corr. trib., 2016, 7, 531; Petteruti G. – Pischetola A., Agevolazioni ed esenzioni fiscali per i trasferimenti immobiliari, dopo il D.Lgs. n. 23 del 2011, in Notariato, 2014, 3, 325; del Vaglio M., Imposte indirette sui trasferimenti di immobili e aziende in operazioni societarie e di fondi immobiliari, in Corr. trib., 2014, 12, 902.

[5] La letteratura in tema di agevolazioni fiscali è vastissima. Senza pretesa di esclusività, si veda, La Rosa S., Esenzioni ed agevolazioni tributarie, in Enc. giur., Roma, 1989; Id., Le agevolazioni fiscali, in Amatucci A. (a cura di), Trattato di diritto tributario, Padova, 1994, I, 401 ss.; Fichera F., Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992; Basilavecchia M., Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni fiscali (diritto tributario), in Enc. dir., Agg. V, 2002, 48 ss.; Batistoni Ferrara F., Agevolazioni ed esenzioni fiscali, in Cassese S. (a cura di), Diz. Dir. Pubbl., 2006, I, 175 ss.; Pace A., Agevolazioni fiscali. Forme di tutela e schemi processuali, Torino, 2012.

[6] Per un primo commento, si veda Giannelli A., L’apporto di immobili in fondi d’investimento dagli enti previdenziali sconta l’imposta di registro fissa, in il fisco, 2024, 10, 979.

[7] La tesi è espressa anche nella ris. n. 376/E/2021 e nella risposta (non pubblicata) all’istanza di interpello n. 954-826/2015 (menzionata nella circ. n. 16/2018, di Assoprevidenza). I riferimenti sono richiamati anche da Giannelli A., L’apporto di immobili, cit., 979.

[8] La disposizione relativa alla non obbligatorietà della registrazione è stata introdotta, per la prima volta, con il D.P.R. n. 131/1986, di approvazione del Testo Unico del Registro, all’art. 7 Tabella (e, pertanto, pochi anni dopo la prima introduzione, nella legislazione nazionale, dei fondi comuni di investimento mobiliare aperti, avvenuta con L. n. 77/1983, in cui non si faceva menzione del regime dei fondi ai fini delle imposte indirette). Secondo la circ. n. 37/1986, con detta novità sarebbe stato «chiarito che l’imposta sostitutiva di cui alla legge 23 marzo 1983, n. 77, assorbe anche l’imposta di registro per gli atti relativi ai fondi comuni di investimento mobiliare autorizzati, alla sottoscrizione e al rimborso delle quote, anche in sede di liquidazione, e all’emissione ed estinzione dei relativi certificati, compresi le quote ed i certificati di analoghi fondi esteri autorizzati al collocamento nel territorio dello Stato». L’interpretazione è scarsamente condivisibile, atteso che l’imposta di cui al testo originario della L. n. 77/1983 risultava (pur nella laconicità del testo di legge, che non riferiva quali fossero le imposte “sostituite”) sostituire il regime ordinario di imposizione sui redditi (e non, quindi, le imposte indirette). In tal senso, anche, pur se dubitativamente e prima dell’approvazione, con il D.P.R. n. 131/1986, della disposizione che espressamente esclude l’obbligo di registrazione per la sottoscrizione di quote dei fondi comuni, Bosello F., Fondi comuni di investimento (disciplina fiscale), in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 1991, 258.

[9] Nel senso della sopravvivenza dell’art. 9 D.L. n. 351/2001 all’intervento di soppressione si sono già pronunciati, in dottrina, Baruzzi S., Fondi immobiliari, siiq e imposizione indiretta. Effetti del riordino delle imposte di registro e ipocatastali, in il fisco, 2013, 37, 5723; Busani A., I fondi immobiliari: apporti, acquisti, cessioni e assegnazioni, cit., 961, nota 6; Committeri G.M. – Lo Re C., Apporti di immobili ai fondi di investimento immobiliare: addio alle agevolazioni fiscali?, in il fisco, 2018, 20, 1947.

[10] Per una panoramica delle tesi, si veda Casella P. – Rimini E., Fondi comuni d’investimento nel diritto commerciale, in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 1991, 212.

[11] Ascarelli T., L’investment trust, in Banca Borsa e titoli di credito, 1954, I, 178.

[12] Sulla configurazione della quota e la sua equiparazione alle azioni cfr. Lener A., Commento agli artt. 3 e 4 L. 23.3.1983, n. 77, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 1984, 398; più di recente, Cass. n. 14325/2019.

[13] Secondo cui il fondo, lungi dall’essere soggetto di diritto, costituisce patrimonio autonomo della SGR.

[14] A tal proposito, si è autorevolmente osservato che «sembrò più rispondente alla natura delle cose ammettere che né la situazione dei partecipanti, né quella della società di gestione fossero compiutamente riconducibili al diritto di proprietà così come codificato nel nostro ordinamento e che la separazione tra la posizione di potere (della società di gestione) e di utilità-rischio (dei partecipanti) era la conseguenza inevitabilmente connessa, da un lato, alle caratteristiche dell’investimento e, dall’altro, alla mancanza nel nostro sistema di situazioni riconducibili a quelle che convivono nell’ambito del trust anglosassone», cfr., Costi R., Gli investitori istituzionali, in Buonocore V. (a cura di) Manuale di diritto Commerciale, Torino, 1999, 848. Cfr. anche, Ferro-Luzzi P., L’istituto dei fondi immobiliari e le relative problematiche, in L’evoluzione dei fondi comuni immobiliari, Atti Convegno di Studio, Milano, 3 febbraio 2012.

[15] In dottrina, è diffusa l’idea che la previsione secondo cui la SGR assume la responsabilità del mandatario non è incompatibile con un inquadramento del rapporto con gli investitori al di fuori del quadro del mandato. Dovendosi piuttosto interpretare l’anzidetta previsione normativa alla stregua di un rinvio a quella disciplina, pur in assenza di un rapporto qualificabile nei termini del mandato.

[16] Ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. j) del TUF è «‘fondo comune di investimento’ ‘l’Oicr costituito in forma di patrimonio autonomo, suddiviso in quote, istituito e gestito da un gestore’»; la successiva lettera k) definisce l’«‘Organismo di investimento collettivo del risparmio’ (Oicr)» come «l’organismo istituito per la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio, il cui patrimonio è raccolto tra una pluralità di investitori mediante l’emissione e l’offerta di quote o azioni, gestito in monte nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi nonché investito in strumenti finanziari, crediti, inclusi quelli erogati, a favore di soggetti diversi da consumatori, a valere sul patrimonio dell’OICR, partecipazioni o altri beni mobili o immobili, in base a una politica di investimento predeterminata». A norma degli artt. 1, comma 1, lett. d-bis e 12-bis D.M. n. 228/1999, i fondi comuni di investimento immobiliare sono i fondi che (i) investono il proprio patrimonio “esclusivamente o prevalentemente” – vale a dire in misura non inferiore ai 2/3 del valore complessivo del fondo – in beni immobili, in diritti reali immobiliari ivi inclusi quelli derivanti da contratti di leasing immobiliare con natura traslativa e da rapporti concessori, in partecipazioni in società immobiliari e in parti di altri fondi immobiliari, anche esteri ; (ii) i fondi che investono il 51 per cento del proprio patrimonio nei beni di cui al punto (i) a condizione che il patrimonio sia altresì investito in misura non inferiore al 20 per cento del suo valore in strumenti finanziari rappresentativi di operazioni di cartolarizzazione aventi ad oggetto beni immobili, diritti reali immobiliari o crediti garantiti da ipoteca immobiliare.

[17] Ai sensi del quale, come noto, «Ciascun fondo comune di investimento, o ciascun comparto di uno stesso fondo, costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione del risparmio e da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni altro patrimonio gestito dalla medesima società; delle obbligazioni contratte per conto del fondo, la Sgr risponde esclusivamente con il patrimonio del fondo medesimo. Su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori della società di gestione del risparmio o nell’interesse della stessa, né quelle dei creditori del depositario o del sub depositario o nell’interesse degli stessi. Le azioni dei creditori dei singoli investitori sono ammesse soltanto sulle quote di partecipazione dei medesimi. La società di gestione del risparmio non può in alcun caso utilizzare, nell’interesse proprio o di terzi, i beni di pertinenza dei fondi gestiti».

[18] Del resto, va considerato che, nel diverso ambito delle gestioni individuali (e, cioè, anche al di là della mera intestazione fiduciaria), in cui il fenomeno è ricostruito alla stregua del mandato, la stessa giurisprudenza ha ritenuto che i beni rimangono nella proprietà dell’investitore. In proposito, si veda, anche per ulteriori richiami, Fransoni G., Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. trib., 2008, 8, 650.

[19] L’impostazione è recepita dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha evidenziato che «la separazione, unitamente alle specifiche disposizioni cui s’è fatto cenno, garantisce adeguatamente la posizione dei partecipanti, i quali sono i proprietari sostanziali dei beni di pertinenza del fondo, lasciando però la titolarità formale di tali beni in capo alla società di gestione che lo ha istituito» (così, Cass., sent. n. 16605/2010, in senso conforme, Cass., sent. n. 12062/2019).

[20] Bosello F., Aspetti fiscali degli istituendi fondi comuni di investimento, in Rivista bancaria, 1971, ora in Carinci A. – Del Federico L. – Greggi M.- Montanari F. – Tassani T. (a cura di), L’attualità del pensiero di Furio Bosello nel diritto tributario contemporaneo, Torino, 2022, 173.

[21] Affermava espressamente, in sede di approvazione della L. n. 77/1983, che il fondo è «una proiezione delle persone fisiche, da trattare – ai fini della tassazione dei redditi di capitale – come le persone fisiche», Falsitta G., Lineamenti del regime fiscale dei fondi comuni d’investimento mobiliare aperti, in Rass. trib., 1984, I, 9, richiamato anche da Quattrocchi A., La tassazione dei redditi finanziari tra imposizione alla fonte e (crisi della) progressività, in Riv. dir. trib., 2018, 4, 443.

[22] La cosa è vera per i fondi mobiliari e non per quelli immobiliari. Per questi ultimi, invece, dalla loro introduzione, e fino alle modifiche intervenute nel 2001, in realtà, il reddito fu senz’altro imputato alla SGR con la previsione dell’applicabilità delle regole del reddito d’impresa, ai fini del calcolo dell’imponibile a cui assoggettare l’imposta sostitutiva. Ciò che conferma, però, la capacità del legislatore di cogliere o meno l’aspetto di cui si trattava nel testo.

[23] Così l’art. 8 L. n. 77/1984, in vigore fino alla modifica intervenuta con D.L. n. 225/2010, conv. con mod. L. n. 10/2011.

[24] Questo era il modello, poi sostituito dal meccanismo delle ritenute presso i partecipanti, seguito per i fondi mobiliari sino alle modifiche intervenute con D.L. n. 225/2010, conv. con mod. L. n. 10/2011, e, per i fondi immobiliari, sino al 1° gennaio 2004 (data in cui l’imposizione patrimoniale – sostitutiva di quella reddituale – prelevata dalla SGR, è stata rimpiazzata dal sistema di ritenute operate all’atto della percezione dei proventi).

[25] Come del resto ritenuto, nell’ambito del trust, da Fransoni G., La disciplina del trust nelle imposte dirette, in Riv. dir. trib., 2007, 3, I, 236. In proposito, sulla necessaria distinzione tra soggettività quale idoneità ad essere titolare dell’obbligazione e quale termine “per individuare il centro d’imputazione dell’indice di capacità contributiva che costituisce la giustificazione del tributo e, quindi, il dovere tributario” si veda anche Fransoni G., La soggettività del Trusts, in www.il-trust-in-italia.it/Formazione/Congressi/congresso_2008/g_fransoni.pdf.

[26] Qualificazione che, come si vedrà, l’art. 8, comma 1-bis, D.L. n. 351/2001 pare implicitamente – ma comunque erroneamente – presupporre.

[27] Wahl A., Traité de droit fiscal, 1902-1906, I, 487, citato da Vanoni E., L’applicazione della tassa graduale di registro alla ripartizione dei dividendi tratti dalle riserve, in Riv. dir. fin., 1938, II, 149.

[28] Vanoni, L’applicazione, cit., 149 e, ancora da un punto di vista storico, Vanoni E., La tassa di conferimento nel caso di apporto di stabilimento o di concentrazione di azienda ed il preteso requisito della identità dell’oggetto, in Riv. dir. fin., 1939, II, 302 (richiamato anche da Corasaniti G., Profili tributari dei conferimenti in natura e degli apporti in società, Padova, 2008), il quale sottolinea che «il legislatore, nell’emanazione del T.U. 30 dicembre 1923, riaffermò il valore traslativo del conferimento ma mantenne il riconoscimento della natura particolare (enfasi nostra) di questa traslazione attraverso l’applicazione di un’aliquota diversa e minore di quella fissata per la vendita». Sul punto, e in piena sintonia, si veda anche Battista M. – Jammarino E., Tasse di Registro, Torino, 1935, III, 212 ss.

[29] Sin dalle origini, infatti, il legislatore «solo per i conferimenti di beni immobili diversi dagli opifici industriali, fu innovato il sistema della legge del 1911, fissandosi un’aliquota pari a quella della vendita: ma nella relazione al re il Ministro delle Finanze spiegava che questo provvedimento si è reso necessario per fare argine all’espediente sempre più diffuso nelle attuali contingenze di intensificata speculazione sui beni immobili di conferire tali beni in società, per poi trasmetterli da individuo a individuo in esenzione di imposta, col semplice trasferimento del pacchetto delle azioni» (Vanoni E., L’applicazione, cit., 150).

[30] Così Giannelli A., L’apporto di immobili, cit., 980.

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