Tra la scomparsa dei termini decadenziali per l’accertamento e qualche (preoccupante) incertezza sugli effetti della rinuncia al credito, il mancato pagamento c’è ma si nasconde

Di Piera Santin -

Abstract

La Corte di Cassazione considera legittimo il diniego di rimborso da parte dell’Ammininstrazione finanziaria oltre i termini decadenziali se fondato sul riconoscimento della legittimità di variazioni in diminuzione a seguito di rinuncia abdicativa al credito. Ne consegue il riconoscimento della possibilità di effettuare le variazioni in una circostanza nuova, non di modifica dell’operazione né di mero mancato pagamento, che, se confermata, potrebbe avvicinare la disciplina italiana a quella europea.

Between the disappearance of the time limits for assessment and some (worrying) uncertainty about the effects of the waiver of claims, the non-payment is there but hidden –The Court of Cassation considers legitimate the refusal of reimbursement by the Financial Administration after the lapse of the time limit if it is based on the recognition of the legitimacy of VAT reduction following an abdicative waiver of the credit. Hence, it represents the recognition of the possibility of VAT reduction in a new circumstance, not of modification of the transaction nor of mere non-payment, which, if confirmed, could bring the Italian discipline closer to the European one.

Sommario: 1. La sentenza della Corte di Cassazione, sez. V., 19 dicembre 2023, n. 35581: considerazioni introduttive. – 2. La riaffermata irrilevanza dei termini decadenziali nella decisione sul rimborso. – 3. Vicende modificative dell’imponibile e dell’imposta in Italia e in Europa (cenni). – 4. Variazioni da rinuncia abdicativa: l’invenzione di un tertium genus giurisprudenziale? – 5. Considerazioni conclusive: verso un’(auspicabile) europeizzazione del mancato pagamento.

1. Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione si trova ad affrontare un tema relativamente nuovo in materia di vicende sopravvenute dell’operazione imponibile IVA e dei loro effetti sul contenuto dell’obbligazione tributaria. La succinta narrazione del fatto ad opera della sentenza della V sezione n. 35518 del 19 dicembre 2023, spiega che il problema di cui si dibatte è la legittimità o meno della nota di variazione emessa da un creditore al momento della mancata iscrizione dei suoi crediti al passivo fallimentare. Quale sia la corretta qualificazione civilistica della condotta del creditore e, di conseguenza, quali effetti essa abbia spiegato sull’obbligazione IVA è il punto focale della sentenza in commento. L’abbrivio processuale è, però, la richiesta di rimborso ex art. 30, comma 3, D.P.R. n. 633/1972 che il terzo assuntore del concordato fallimentare aveva presentato per recuperare la maggior IVA risultante da una dichiarazione precedente all’apertura del fallimento (specificamente relativa all’anno 2005, e sistematicamente riportata a nuovo nei periodi d’imposta successivi). L’Agenzia ha in parte negato il rimborso sulla base del fatto che l’eccedenza esposta in dichiarazione non teneva conto di tre note di accredito emesse da un creditore della società a seguito della variazione in diminuzione da lui effettuata in ragione di quella che parrebbe essere una parziale rinuncia al credito effettuata al momento dell’iscrizione al passivo fallimentare.

I giudici di legittimità riconoscono innanzitutto la liceità della contestazione nel merito opposta dall’Amministrazione finanziaria a detta richiesta di rimborso, nonostante l’intervenuta decadenza dei termini per l’accertamento; riconoscono poi anche la fondatezza del summenzionato diniego, poiché dipendente da una variazione in diminuzione effettuata dal creditore del ricorrente in esatta applicazione dell’art. 26 D.P.R. n. 633/1972.

Il primo profilo critico, ampiamento avversato dal ricorrente, è dunque collegato alla possibilità stessa dell’Amministrazione di contestare nel merito la legittimità del rimborso chiesto dal contribuente ricorrente dopo lo scadere dei termini di decadenza. La richiesta di rimborso ex art. 30, comma 3, D.P.R.n. 633/1972, infatti, è stata presentata nel 2012 dal terzo assuntore del fallimento, quindi ben oltre il termine riconosciuto all’Amministrazione finanziaria per esercitare il suo potere impositivo ex art. 57 sempre del D.P.R. n. 633/1972.

Strettamente dipendente dalla soluzione del primo è il secondo dei temi trattati dalla sentenza in commento e cioè la ragione (il titolo) per cui il creditore ha emesso la nota di accredito: egli ha effettuato la variazione in diminuzione (con contestuale emissione della nota di accredito e obbligo per il committente di effettuare una corrispondente variazione in aumento) come conseguenza della sua parziale rinuncia al credito (le tre mensilità di affitto e la relativa rivalsa), operata al momento dell’iscrizione al passivo fallimentare. Né prima né in costanza di fallimento il debitore ha mai contabilizzato queste note di rettifica (si tratta di tre documenti, uno per ogni mensilità il cui pagamento è stato rimesso al fallito dall’ex creditore), ritenendo che esse fossero state illegittimamente emesse in quanto frutto di “rinuncia unilaterale”, ipotesi non prevista dall’art. 26 D.P.R. n. 633/1972 e perciò inadatte a far sorgere in capo al creditore il diritto alla variazione in diminuzione. L’Amministrazione finanziaria, al contrario, considera le note di variazione emesse a suo tempo dal creditore come legittime, quindi, retrospettivamente, suscettibili di essere registrate dal fallimento al tempo della loro emissione con conseguente diversa quantificazione dell’eccedenza risultante dalla dichiarazione per l’anno di interesse.

2. Come correttamente evidenziato dai giudici, l’interesse processuale al vaglio sulla legittimità della condotta della società fallita, che non ha mai registrato le note di accredito emesse da un suo creditore a seguito di una variazione in diminuzione, dipende dalla soluzione della questione di diritto formale legata alla decadenza del potere di accertamento nel merito da parte dell’Amministrazione finanziaria. Se, infatti, i giudici avessero accolto l’eccezione del contribuente, secondo cui l’Amministrazione finanziaria non aveva più diritto di opinare sul merito della richiesta di rimborso, perché il decorrere del termine per l’accertamento avrebbe prodotto l’effetto di cristallizzare le pretese debitorie e creditorie delle parti, allora non avrebbe più avuto senso verificare l’originale fondatezza della nota di accredito non registrata (rectius della variazione in diminuzione operata dal creditore al momento della rinuncia al credito e tradottasi, per il debitore, in una nota di accredito che avrebbe dovuto essere registrata ex art. 26, comma 2, ultimo periodo, testo allora vigente). Questo perché, secondo i giudici, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, atteso che termini decadenziali attengono ai soli crediti erariali (punto 7 della sentenza), con buona pace della teoria dei rapporti esauriti.

Nell’affermare ciò i giudici ripropongono il ragionamento già sviluppato dalla pronuncia a Sezioni Unite del 2021 cui la sentenza in commento si ispira esplicitamente. Essi ribadiscono che la funzione della decadenza è esclusivamente quella di limitare l’esercizio del potere pretensivo dell’Amministrazione finanziaria, ciò è a dire l’accertamento di un suo, suo dell’Amministrazione finanziaria, maggior credito (o, che è lo stesso, di un maggior debito del contribuente). Di talché il riferimento ai crediti da rimborso IVA contenuto all’art. 67 D.P.R. n. 633/1972 deve essere riferito alla «sottostima del debito di imposta indotta da accertamento sul maggior debito – che costituisce contestazione di credito di imposta indotto da ulteriore accertamento e non artificiosa scomposizione dell’eccedenza di imposta […] – non anche dall’insussistenza del credito derivante da un’originaria eccedenza di imposta a credito». Letta in questa prospettiva, secondo la Corte, la possibilità di superare la decadenza quando si tratta di accertare dei debiti dell’Amministrazione e non di rivendicare suoi crediti (cioè un maggior imponibile accertato ex novo, non quale conseguenza del disconoscimento di crediti che il contribuente pretende di azionare), non lede in alcun modo il diritto costituzionalmente tutelato del contribuente al rispetto del principio di capacità contributiva.

La sentenza in commento, poi, riprende un passaggio delle SS.UU. del 2021, ma pare travisarne parzialmente il significato, o quantomeno, e questo è certo, sceglie di riassumerlo in una forma che ne rende travisabile il contenuto. Nel suo ricco argomentare, la sentenza delle Sezioni Unite affermava che l’esistenza del credito esposto nella dichiarazione IVA come conseguenza del coacervo delle poste detraibili che prevalgono sul debito dipende dalla sussistenza dei fatti generatori (dunque dall’esistenza delle operazioni imponibili) e non dalla mera esposizione in dichiarazione. A conferma di ciò, continuavano i giudici, il silenzio dell’Amministrazione a fronte della richiesta di rimborso si traduce in un rifiuto tacito dell’istanza, non nel riconoscimento implicito del debito. Questa affermazione è giustificata in un contesto in cui si discuteva del rimborso di un’eccedenza IVA fondata sulla contabilizzazione di operazioni inesistenti, e affonda le sue radici nella ricorrente preoccupazione dei giudici di legittimità, anche sulla scorta della giurisprudenza europea, di tutelare la “sostanza economica” delle operazioni imponibili tutte le volte in cui vi sia una patologia nell’applicazione dell’imposta stessa (i.e. pericolo di frode o anche solo di abuso).

Ma non basta, perché, nel caso di cui tratta la sentenza in commento, non sembrano emergere elementi che facciano pensare all’esistenza di condotte fraudolente. Certo, la variazione in aumento avrebbe dovuto essere registrata ma, come si vedrà di seguito, la soluzione può essere considerata pacifica solo oggi, alla luce di una corposa giurisprudenza, soprattutto europea, che ha meglio chiarito come debba essere correttamente interpretato l’art. 90 della Direttiva 2006/112 (e, anzi, ne ha riconosciuto l’immediata applicabilità). Oltretutto non si può escludere che questo mutato scenario ermeneutico abbia inciso sulla valutazione postuma della richiesta di rimborso (certo lo ha fatto sulla scelta dei giudici), fatto questo che rende ancor più preoccupante la scelta di applicare il principio del superamento dei termini decadenziali indiscriminatamente a tutti i crediti fatti valere dai contribuenti, a prescindere dalle ragioni – riconducibilità o meno a una frode – della decisione, come sembrano fare in questa pronuncia i giudici di legittimità.

3. Il secondo tema che merita di essere approfondito è quello di natura sostanziale, cui l’analisi della Cassazione approda dopo aver riconosciuto all’Amministrazione finanziaria pieno potere di sindacare sul punto in sede di richiesta di rimborso ex art. 30 D.P.R. n. 633/1972. Prima di analizzare in dettaglio la soluzione proposta dai giudici è opportuno fare una breve ricognizione sulla disciplina europea e italiana delle vicende sopravvenute che concorrono a modificare il contenuto dell’operazione imponibile. Nonostante alcuni significativi precedenti (sentenze Elida Gibbs, C-317/94, EU:C:1996:255 e, Kraft Foods Polska, C‑588/10, EU:C:2012:40), il punto di svolta nell’interpretazione europea in materia è pacificamente individuato nella sentenza Almos del 2014 (EU:C:2014:328), con cui la CGUE ha affermato due principi fondamentali della materia, reciprocamente dipendenti. I giudici europei hanno chiarito che l’art. 90, comma 1 della Direttiva 2006/112 deve essere considerato di immediata applicabilità con riferimento a tutti i casi diversi dal mero mancato pagamento, e nel senso che si riferisce a tutti i casi in cui la vicenda sopravvenuta determini il venir meno in tutto o in parte del vincolo giuridico che lega le parti.

L’esclusione del mancato pagamento dipende(va) dal fatto che esso era inteso come mera condizione di fatto, cui corrisponde, ancora, la piena titolarità del credito in capo al cedente o prestatore e il suo diritto di tutelarlo in via giudiziaria; di conseguenza, era integralmente rimessa all’autonomia degli Stati la scelta di riconoscere o meno il diritto di ridurre la base imponibile IVA in assenza di vicende giuridiche dell’operazione imponibile, e in ogni caso lasciava loro piena sovranità nell’individuazione delle condizioni per procedere. Nelle sentenze più recenti, invece, la Corte ha affermato un’interpretazione restrittiva del potere derogatorio degli Stati, che sarebbe limitato alle ipotesi di totale incertezza (sentenza SCT, C-146/19, EU:C:2020:464). Di conseguenza, tutte le volte in cui si verifichino le condizioni per cui è ragionevolmente certo (e non assolutamente improbabile) che il pagamento non è destinato ad avvenire (o quantomeno non a breve), allora gli Stati devono consentire la riduzione dell’imponibile o dell’imposta se non per una previsione normativa nazionale, come conseguenza dell’effetto diretto attribuito all’art. 90.

Dal punto di vista degli effetti della modifica dell’imponibile, invece, è opportuno ricordare che la Direttiva si limita a introdurre in capo agli Stati l’obbligo di prevedere una norma che garantisca la rettifica della detrazione già effettuata dal cessionario o committente di un’operazione poi venuta meno in tutto o in parte (art. 185). Niente viene previsto in merito alla posizione del cedente o prestatore, perché, dal punto di vista sistematico, il testo della Direttiva (e l’interpretazione giurisprudenziale europea) sottintende che alla modifica dell’imponibile (art. 90) debba necessariamente seguire la modifica dell’imposta dovuta. La Corte afferma che dei due articoli (artt. 90 e 185 della Direttiva IVA) deve essere data una interpretazione coordinata e coerente, proprio per evitare che, in spregio alla neutralità, siano date ipotesi in cui viene consentita la riduzione dell’imponibile e dell’imposta al cedente o al prestatore, senza però obbligare il cessionario o committente alla rettifica della sua detrazione.

In Italia il problema delle vicende sopravvenute dell’operazione imponibile IVA trova la sua disciplina all’art. 26 D.P.R. n. 633/1972, che ne regola al contempo i profili formali e sostanziali. Dal punto di vista sostanziale si afferma che danno origine a modifica dell’imponibile e dell’imposta «la dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione» con una formula di chiusura che, come evidenziato anche dalla sentenza, comprende ogni altra fattispecie simile, purché estintiva del rapporto. La certezza del mancato pagamento, invece, viene identificata dal legislatore tributario italiano nella presenza di accordi di ristrutturazione dei debiti, nella pubblicazione di un piano attestato di risanamento, nella conclusione infruttuosa di procedure esecutive individuali o nella presenza di procedure concorsuali.

Nell’ordinamento interno, tuttavia, l’incertezza ha da sempre accompagnato la possibilità di effettuare le variazioni a seguito di mancato pagamento. Si ricorderanno qui solo due soluzioni legislative: quella attualmente in vigore e quella applicabile ratione temporis al momento del verificarsi della vicenda modificativa dell’operazione imponibile nel caso di specie (i.e. la rinuncia al credito). Oggi, e dal 2021, il mancato pagamento viene ricondotto all’assoggettamento del debitore alla procedura concorsuale (oltre alla conclusione di accordi di ristrutturazione e alla pubblicazione del piano attestato di risanamento), quindi ragionevolmente al momento della sua apertura, mentre nel 2005 era necessario che la procedura concorsuale fosse rimasta infruttuosa. Ancora una volta, il discrimine è quello della presenza di una condizione giuridicamente apprezzabile che garantisca la certezza dell’irreversibilità del mancato pagamento (che è comunque sempre una situazione di fatto, non un venir meno degli effetti giuridici del contratto che regola l’operazione imponibile).

Sotto il profilo formale il risultato della rettifica dell’imponibile e dell’imposta viene raggiunto con lo strumento delle note di variazione. Se viene meno in tutto o in parte il contratto che disciplina il vincolo giuridico tra le parti, allora viene meno in tutto o in parte l’obbligazione di rivalsa, quindi viene meno il diritto di credito di rivalsa in capo al cedente o prestatore. Il venir meno dell’obbligazione di rivalsa produce due effetti speculari: in capo al cedente o prestatore viene meno il debito nei confronti dell’Erario (per una somma pari al credito di rivalsa non più vantato); in capo al cessionario o committente viene meno il credito (diritto di detrazione) nei confronti dell’Erario. Entrambi gli effetti vengono registrati sulla base dell’esistenza di un documento, la nota di accredito, emesso dal cedente o prestatore che, preso atto del venir meno dell’operazione imponibile, ne formalizza le conseguenze IVA. È impossibile che si verifichi un’ipotesi di interpretazione contraddittoria, come poteva nel sistema della Direttiva con riferimento agli artt. 90 e 185, semplicemente perché è la stessa norma che in un sol colpo disciplina le modifiche dell’imponibile, dell’imposta e dei loro effetti nei confronti sia dei creditori sia dei debitori.

4. È quindi vero che le variazioni, nell’ordinamento italiano, vengono realizzate mediante una “operazione negativa” basata sulla rideterminazione del contenuto dell’obbligazione di rivalsa (nuova detrazione per il cedente, nota di accredito, registrazione di nuovo debito ex artt. 23 o 24 per il cessionario), ma è altresì vero che l’unica giustificazione a questa procedura è l’esistenza di una causa sostanziale, cioè il verificarsi di una vicenda giuridica dell’operazione (ivi compresi gli accordi, pur coi noti limiti temporali, che tuttavia non rilevano nell’analisi del caso di specie), ovvero l’avverarsi delle circostanze che determinano il mancato pagamento. Ne consegue che il credito di rivalsa non è liberamente disponibile: il creditore non può rinunciare alla rivalsa mantenendo intatta la pretesa del corrispettivo e, di converso, non può esercitare il credito di rivalsa per un’operazione estinta. Il passaggio estinzione dell’operazione imponibile, estinzione della rivalsa, obbligo di variazione in aumento del cessionario o committente è necessario se si stabilisce che quella che si è verificata è una vicenda estintiva dell’operazione.

Per questa ragione è capzioso e tautologico affermare, come fanno i giudici al punto 35, che la perdita della detrazione consegue all’impossibilità di assolvimento della rivalsa, essendo risultato inopponibile il relativo credito privilegiato. Il punto è se questa impossibilità di assolvimento dipenda dall’estinzione dell’operazione o dal mero mancato pagamento, punto che la Corte evita accuratamente di affrontare nel momento in cui sceglie di inquadrare la fattispecie come “rinuncia abdicativa” con conseguenze ermeneutiche a dir poco ambigue.

La rinuncia abdicativa, infatti, è un istituto di matrice giurisprudenziale tradizionalmente riferito ai beni immobili (rinuncia abdicativa al diritto di proprietà) e successivamente considerato applicabile anche ai crediti dei soci nei confronti della società, così da superare la teoria dell’incasso giuridico a favore dell’apporto di capitale. Ciò che distingue la rinuncia abdicativa dalla rimessione di debito, infatti, è l’assenza di effetto estintivo, il che è coerente con la sopravvivenza del credito che, con la perdita del diritto a restituzione, si tramuta in finanziamento a fondo perduto.

Quel che sembra di capire è che, nell’interpretazione della Suprema Corte, l’effetto trasformativo della rinuncia abdicativa al credito nei confronti del fallimento sia quello di farlo “uscire dal patrimonio” del prestatore, senza che sia dato sapere quale sia la sua destinazione (giacché l’obbligazione non è estinta) ma con la conseguenza di far perdere il diritto alla detrazione del cessionario. Né è accettabile ritenere che la Corte consideri il credito di rivalsa come sopravvissuto all’obbligazione principale estinta, giacché la rinuncia avrebbe in questo caso valore di remissione di debito (paragrafo 33) – sebbene la sentenza usi sempre l’espressione rinuncia abdicativa, lo fa citando dei precedenti che parlano esplicitamente di rimessione di debito – poiché si tratterebbe di una rivalsa senza titolo, di per sé indebita.

In questo contesto, la Corte guarda alla variazione in aumento che il ricorrente avrebbe dovuto fare e non ha fatto (quindi alla pienezza del diritto a detrazione che dà origine all’eccedenza e che non è mai stata ridotta) come fosse del tutto indipendente dalle vicende dell’operazione imponibile.

Afferma che la rinuncia al credito (e non si capisce se si riferisca al credito originario o al credito da rivalsa) è assimilabile alle vicende giuridiche dell’operazione imponibile perché rappresenta un «mutamento degli elementi presi in considerazione per determinare l’importo delle detrazioni» (lessema riportato come citazione ma senza fonte e senza riferimenti) e in quanto tale uno di quegli eventi in base ai quali una parte o la totalità della controprestazione non potrà più in modo definitivo essere percepita dal cedente.

Non solo, sempre secondo la Corte, questa circostanza consentirebbe di chiarire che, nell’interpretare la formula “e simili” presente all’art. 26 D.P.R. n. 633/1972 sarebbe necessario fare riferimento all’art. 185 della Direttiva IVA, di talché la variazione in diminuzione sarebbe consentita nei casi previsti e in quelli simili, non ai casi espressamente richiamati, ma simili a quelli previsti dalla Direttiva IVA per obbligare alla variazione in aumento.

Questa però è una strettoia, da due punti di vista: innanzitutto perché i giudici mutuano la formula da ultimo riportata da una sentenza (Boehringer, EU:C:2021:818, punto 61) in cui la CGUE offre una definizione della nozione di mancato pagamento, circostanza che i giudici di legittimità affermano di voler escludere, e sembrano addirittura riferirla alla rivalsa, sempre intesa come credito indipendente da quello del corrispettivo. In secondo luogo, perché sembrano confondere profili sostanziali (quando l’imponibile viene modificato, art. 26 D.P.R. n. 633/1972) e formali (quando e con che mezzi la modifica viene registrata, art. 185 Direttiva 2006/112) e contribuiscono così ad aumentare la confusione tra le ipotesi di estinzione del rapporto giuridico, con conseguente e automatico venir meno di tutti i rapporti debitori e creditori connessi all’applicazione dell’IVA, e quelle di mancato pagamento, in cui gioca un ruolo fondamentale l’autonomia normativa degli Stati membri, e in cui l’Italia ha sempre fatto scelte molto restrittive.

5. Quel che rimane all’interprete sono un dubbio e un principio di diritto formulato in maniera oscura e ambigua ma, se parafrasato, meno incomprensibile di quanto potrebbe apparire. Il dubbio è che l’obiettivo reale della Corte sia di riconoscere nell’ordinamento italiano la legittimità dei casi di variazioni da mancato pagamento fuori dai casi e dalle condizioni espressamente previste dall’art. 26, senza però ammetterlo esplicitamente. Per fare ciò, però, i giudici hanno avuto bisogno di una giustificazione sistematica, ottenuta attribuendo a una norma procedurale, l’art. 185 della Direttiva IVA, valore sostanziale e, ancor più, la funzione di parametro interpretativo di un lessema presente nella norma nazionale ma pacificamente riferito a una parte della previsione di natura sostanziale.

Questa possibilità discende dalla qualificazione innovativa delle scelte del creditore come rinuncia abdicativa, che non estingue l’obbligazione ma comporta l’uscita dal di lui patrimonio del diritto di rivalsa. Parrebbe quasi che con questa pronuncia i giudici stiano introducendo delle variazioni in diminuzione del terzo (a stretto rigore del quarto, perché dovrebbero essere prese in considerazione anche le variazioni da vicende interpretative, che però in questo caso non rilevano) tipo: non da vicenda giuridica (l’obbligazione principale non è estinta); non da mancato pagamento (i giudici lo escludono), le variazioni saranno definite come “da rinuncia abdicativa” o da “espunzione del credito di rivalsa”.

Il problema è che, anche nelle variazioni IVA, il genere non è un costrutto sociale, ma una questione genetica. Le operazioni imponibili o sono estinte o non lo sono; nel primo caso il credito di rivalsa viene meno, nel secondo no; nel primo caso le variazioni possono essere effettuate, nel secondo no. C’è un’unica alternativa a questa dicotomia: il mancato pagamento, cioè la circostanza in cui l’operazione imponibile sarebbe ancora esistente ma (è una circostanza di fatto), c’è la ragionevole certezza che l’obbligazione del debitore (pagare corrispettivo e rivalsa) non verrà mai adempiuta. In questo caso la rivalsa sarebbe dovuta, ma si tratta di una potenzialità non destinata a tradursi in atto e chiedere al cedente o prestatore di versare l’IVA corrispondente comporterebbe per lui un costo economico che il sistema europeo vuole evitare.

In questo quadro ha poco senso immaginare un approccio non binario alle circostanze in cui le variazioni in diminuzione sono ammesse. A meno che non si sia disposti ad ammettere che, in questo caso, l’obiettivo della Cassazione sia stato più politico che poetico. Come è noto, e come è stato ricordato anche al paragrafo 3 di questo commento, l’approccio del legislatore italiano mancato pagamento è sempre stato molto restrittivo; al contrario, negli ultimi anni la CGUE invita gli Stati ad interpretare restrittivamente il concetto di mancato pagamento quale deroga all’ordinario sistema di rettifica dell’imponibile e dell’imposta.

In questa tensione interpretativa il legislatore nazionale ha sì fatto delle scelte concilianti (soprattutto dopo la censura arrivata con la pronuncia Di Maura, EU:C:2017:887), ma non ha rinunciato al suo approccio formalistico, col conseguente rischio di lasciare priva di tutela qualche circostanza, come quella del caso di specie, che non rientra pacificamente in nessuna delle definizioni previste al comma 3-bis dell’art. 26. Con le sue variazioni non binarie questa sentenza offre così una soluzione ecumenica: nega che si tratti di mancato pagamento (paragrafo 39), ma al contempo riconosce la legittimità della variazione anche in una circostanza in cui non è chiaro quale sia l’esito dell’obbligazione principale (anche visto e considerato che la giurisprudenza di legittimità esclude che la mera mancata iscrizione al passivo abbia la natura di rimessione di debito).

Un’ultima nota conclusiva riguarda l’applicabilità futura di questo principio di diritto. La Corte afferma che la rinuncia al credito non estintiva dell’obbligazione dà diritto al creditore di effettuare la variazione in diminuzione, e ciò comporta che il debitore sia obbligato a registrare la nota di accredito che ne consegue. La decisione dei giudici di legittimità, infatti, muove pur sempre dal diritto dell’Amministrazione finanziaria di negare un rimborso sulla base di valutazioni di merito che i supremi giudici ritengono corrette.

L’effetto che ne deriva è che viene colmata una lacuna applicativa (la disciplina IVA applicabile ai crediti non ammessi al passivo fallimentare, o a qualunque altro titolo esclusi dal coacervo) ma, perché questo effetto benefico trovi piena efficacia ordinamentale, l’auspicio è che il principio di diritto formulato dalla sentenza, e interpretato nei termini di cui si è detto, non soffra di una applicazione limitata alla ricognizione dei debiti dell’Amministrazione ma possa essere fatto legittimamente valere da tutti i soggetti passivi che si trovino in circostanze simili per l’affermazione dei loro crediti da variazione in diminuzione.

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