L’art. 10, comma 2, nello Statuto del contribuente riformato: tutela o discriminazione?

Di Andrea Colli Vignarelli -

Abstract

Il presente lavoro evidenzia come il recente intervento normativo – operato dal D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219, modificativo dell’art. 10, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente – prevedendo la non debenza, oltreché di sanzioni e interessi, anche del tributo, nel caso di mutamento interpretativo in peius dell’Amministrazione con esclusivo riferimento ai tributi unionali, appare non conforme a Costituzione, per irragionevole disparità di trattamento a seconda della tipologia di tributo che viene in considerazione e lesione del legittimo affidamento del contribuente.

The art. 10, paragraph 2, in the reformed taxpayers’ statute: protection or discrimination? – This paper highlights how the recent regulatory intervention – operated by D. Lgs. 30 December 2023, n. 219, amending art. 10, paragraph 2, of the Statute of taxpayers’ rights – providing the non-debency of the tax, penalties and interest as well, in the event of an interpretative change in peius of the Administration with exclusive reference to EU taxes, appears not in accordance with the Constitution, for unreasonable unequal treatment depending on the type of tax that is taken into account and breach of the taxpayer’s legitimate expectations.

Sommario: 1. Buona fede e affidamento. – 2. La tutela del legittimo affidamento. – 3. La modifica all’art. 10, comma 2, dello Statuto ex D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219: profili di illegittimità costituzionale.

1. Nell’ambito della nozione di buona fede si è soliti distinguere, come noto, tra buona fede in senso “oggettivo” e buona fede in senso “soggettivo”: la prima intesa come regola di comportamento ispirata al principio della correttezza; la seconda intesa come uno stato soggettivo della coscienza, che «si atteggia, volta a volta, come convinzione (erronea) di agire in conformità al diritto, come ignoranza di ledere un altrui diritto, come affidamento in una situazione giuridica apparente (difforme da quella reale)» (così Bessone M. – D’Angelo A., Buona fede, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, V, 1; sulla distinzione dei due concetti, che si fonda sulla contrapposizione tra comportamento “secondo” e comportamento “in” (o “di”) buona fede, v. anche Bigliazzi Geri L., Buona fede nel diritto civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1988, II, 158 ss. e 169 ss.; per una quadripartizione delle norme codicistiche sulla buona fede v. Montel A., Buona fede, in Nov. dig. it., Torino, 1958, II, 603).

In correlazione alla nozione di buona fede rileva quella dell’affidamento, termine con il quale in generale si fa riferimento allo stato di fiducia posto da taluno «sull’apparenza delle situazioni e dei fatti divergente dalla loro effettiva sostanza» (così Pietrobon V., Affidamento, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, I, 1). Qualora il sistema appresti una tutela a tale stato soggettivo psicologico, può parlarsi di principio dell’affidamento, considerato appunto come regola volta a garantire detta tutela. A sua volta collegato a quello dell’affidamento è il c.d. “principio dell’apparenza”: tale principi (formulato in Italia da D’Amelio M., Apparenza del diritto, in Nuovo dig. it., Torino, 1937, I, 550 ss.) si concreterebbe nella ipotesi in cui «tutte le volte che un soggetto crea per fatto proprio un’apparenza giuridica a sé sfavorevole non può opporre il vero stato di fatto e diritto, difforme dall’apparenza, al terzo che abbia confidato (variante: che abbia confidato senza propria colpa) nell’apparenza ingannevole» (Sacco R., Affidamento, in Enc. dir., Milano, 1958, I, 662; quanto alla dottrina tributaria, analizzando storicamente il principio dell’apparenza, Paparella F., Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, 236 ss., evidenzia l’acquisizione nel nostro ordinamento «del principio secondo cui il terzo che confida nell’apparenza non può essere danneggiato dalla richiesta del vero stato delle cose da parte di chi ha creato colpevolmente tale situazione»).

La difficoltà di attribuire alla nozione di buona fede un contenuto univoco e determinato – tanto da potersi parlare di «vaghezza» del concetto e di «norma in bianco» (Bessone M. – D’Angelo A., op. e loc. ultt. citt.) – non ha impedito, nonostante notevoli “resistenze” in proposito, l’affermarsi di un processo espansivo del principio, che ha trovato una prima, rilevante conferma nel codice civile del 1942 rispetto a quello del 1865 (che dedicava sul punto poche scarne norme: cfr. Bessone M. – D’Angelo A., op. cit., 2 ss.).

Tale processo ha condotto innanzitutto a ravvisare nel principio di buona fede una clausola generale disciplinante i rapporti interprivatistici (Bessone M. – D’Angelo A., op. cit., 4 s., nonché dottrina e giurisprudenza ivi citate), non necessariamente paritari, e in proposito occorre osservare che una delle obiezioni mosse in dottrina alla possibile applicabilità della clausola di buona fede all’Amministrazione finanziaria è stata proprio quella della sua operatività esclusiva, o quasi, nell’ambito di rapporti paritari, affermandosi che «buona fede ed affidamento hanno ottenuto una tutela in presenza di relazioni giuridiche di tipo – prevalentemente o almeno tendenzialmente – paritario, mentre paritarie non sono affatto quelle che ineriscono al rapporto giuridico d’imposta» (così Bertolissi M., Circolari nel diritto tributario, in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 1988, III, 99). L’operatività di detto principio sarebbe invece tale da comportare delle “correzioni” allo stesso ius strictum (cfr. Bigliazzi Geri L., op. cit., 172 s.), e quindi anche al di là della disciplina normativa e/o contrattuale: a titolo di esempio, basti ricordare la dichiarata irrilevanza ex art. 1366 c.c. (“Interpretazione di buona fede” del contratto) di (talune) clausole di cui all’art. 1341, comma 2, c.c. (c.d. clausole vessatorie), ridotte in tal modo a mere clausole di stile, a tutela della parte più debole del rapporto (in proposito v. Bigliazzi Geri L., op. cit., 181 s.).

Il processo di espansione di cui si discute ha inoltre condotto a estendere l’operatività del principio di buona fede anche al di fuori del diritto privato, come regola disciplinante i rapporti tra Amministrazione e amministrati. In particolare, dopo notevoli contributi dottrinali volti a riconoscere detto principio al di fuori della sua “naturale” sfera privatistica (Allegretti U., L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965; Merusi F., L’affidamento del cittadino, Milano, 1970) – fino a considerarlo vincolante, attraverso l’obbligo di non venire contra factum proprium da parte del legislatore – l’operatività anche nella sfera del diritto pubblico è ormai, e da tempo, un dato acquisito (cfr. Bigliazzi Geri L., op. cit., 176 s.; per un riferimento in tal senso v. Romano S., Buona fede (dir. priv.), in Enc. dir., Milano, 1959, V, 680; Modugno F., Principi generali dell’ordinamento, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, XXIV, 5; Merusi F., Buona fede e tutela dell’affidamento nella programmazione economica, in Aa.Vv., Studi sulla buona fede, Milano, 1975, 727 ss., spec. 740 s.; v. anche Mortati C., Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976, II, 1128).

2. Effettuate queste premesse, è ora possibile affrontare la problematica concernente i principi della collaborazione, della buona fede e della tutela dell’affidamento nel precipuo settore tributario.

In proposito è opportuno fare una precisazione, evidenziando che la dottrina che ha studiato la problematica in questione ha fatto riferimento principalmente all’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria, emanata una circolare interpretativa “favorevole” ai contribuenti (in quanto volta a riconoscere un trattamento fiscale di favore, come un’agevolazione o la natura esente di un determinato reddito), abbia successivamente mutato orientamento “in peius” con una successiva circolare, “inducendo” in tal modo gli Uffici periferici a emanare i conseguenti avvisi di accertamento, conformi alla nuova circolare, nei confronti di coloro che si erano adeguati alla precedente interpretazione. Questo in quanto la questione oggetto della nostra attenzione è appunto la disciplina prevista, in ipotesi siffatte, dal riformato art. 10, comma 2, seconda parte, aggiunta al comma dal D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219.

In tema di tutela del legittimo affidamento del contribuente nell’ipotesi considerata1, è possibile brevemente evidenziare (per maggiori approfondimenti, v. Colli Vignarelli A., La violazione dell’art. 12 dello Statuto e la illegittimità dell’accertamento alla luce dei principi di collaborazione e buona fede, in Bodrito A. – Contrino A. – Marcheselli A., a cura di, Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, Torino, 2012, 499 ss., nonché gli altri saggi citati nella bibliografia in calce) che la soluzione “letterale” accolta dallo Statuto all’art. 10 in esame (limitando per ora il discorso al testo prima dell’“aggiunta” apportata dal citato D.Lgs. n. 219/2023) è quella della non debenza solo delle sanzioni e degli interessi, mentre rimarrebbe dovuto il tributo a carico del contribuente tratto in “inganno” dall’interpretazione dell’Amministrazione.

Nei precedenti interventi sul tema, tale interpretazione ci è sempre parsa non accoglibile, pena una possibile dichiarazione di incostituzionalità di una norma contenuta in un testo di legge che, oggi, espressamente si dichiara attuativo «delle norme della Costituzione, dei principi dell’ordinamento dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo», e le cui norme «costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario». Una interpretazione “costituzionalmente orientata” o “adeguatrice” induceva, invero, a ritenere non dovuto, in specifici casi, anche il tributo oltreché – come testualmente (e solamente) previsto dall’art. 10 Statuto – sanzioni e interessi (nello stesso senso v,. anche, Marongiu G., Statuto del contribuente, affidamento e buona fede, in Rass. trib., 2001, 5, 1281 ss.; e, più di recente, Viotto A., Tutela dell’affidamento, consulenza giuridica e interpello, in Ragucci G. – Albertini F.V., a cura di, Costituzione, legge, tributi, Milano, 2018, 321 ss.; contra, fra gli altri, Stevanato D., Fondamenti di diritto tributario, Milano, 2022, 212 s.; Ingrao G., Diritto tributario. Teoria e tecnica dell’imposizione, Milano, 2023, 100; Beghin M., Diritto delle imposte, Milano, 2023, 36 s. In giurisprudenza, per l’interpretazione “favorevole” al contribuente, v. la fondamentale sentenza Cass., 10 dicembre 2002, n. 17576, che è stata valorizzata anche da Cass., sent. 12 maggio 2021, n. 12453; contra, fra le altre, Cass., sez. 5, ord. 11 luglio 2019, n. 18618 e ord. 21 giugno 2021, n. 17588, cui si rinvia anche per i precedenti conformi).

Gli argomenti a supporto di questa soluzione ermeneutica sono molteplici.

Innanzitutto, può sostenersi che un dovere generale di correttezza, vincolante non solo i singoli consociati ma la stessa Amministrazione, sia desumibile dal dovere di solidarietà ex art. 2 Cost., assumendo così valore e copertura costituzionale. Ancora di più se si considera che «tutti i principi generali, in un modo o nell’altro (o perché inducibili dalla legislazione in quanto attuazione della Costituzione, o perché immanenti alle strutture istituzionali che poggiano su dati offerti dalla Costituzione formale, o perché connessi all’essenza e al modo di essere fondamentale dell’ordinamento, o perché comunque collegabili a principi e norme della Costituzione), tutti i principi generali – si diceva – proprio in quanto assunti come funzionalmente più generali rispetto ad altri, o comunque per le loro essenzialità o fondamentalità, sono dotati di copertura costituzionale almeno indiretta» (così, Modugno F., op. cit., 7, enfasi aggiunta).

Se comportarsi in modo solidale significa, tra l’altro, comportarsi nei rapporti con gli altri soggetti in maniera corretta, e se tale obbligo è richiesto tra privati, che agiscono – o possono agire – spinti da spirito “egoistico”, non vi è motivo per cui detto obbligo non debba sussistere anche – e soprattutto – per l’Amministrazione pubblica, che deve necessariamente agire per il perseguimento di interessi collettivi e non singoli o comunque particolari. In un processo di normogenesi, dall’art. 2 Cost. e dal principio di solidarietà deriva, dunque, un canone generale di comportarsi secondo correttezza, vincolante non solo i privati ma anche la Pubblica amministrazione, come soggetto volto alla tutela di interessi generali. Non priva di rilevanza è la circostanza che detto canone sia desumibile da una norma costituzionale (l’art. 2) che il Costituente ha espressamente incluso tra i “principi fondamentali”, considerati, al pari di tutti i “principi supremi” desumibili dalla Costituzione, «essenziali, ovvero … irretrattabili, inalterabili e inderogabili nel loro contenuto essenziale» (Modugno F., op. cit., 11), e costituenti un limite alla stessa possibilità di revisione costituzionale (cfr. Onida V., Le costituzioni. I principi fondamentali della Costituzione italiana, in Amato G. – Barbera A., a cura di, Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997, I, 111; Guastini R., Principi di diritto, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1996, XIV, 350 s.; Corte Cost., sentenza 29 dicembre 1988, n. 1146). Sul punto deve osservarsi che è vero che le norme desumibili dai principi fondamentali (nel caso di specie, la regola dell’agire correttamente, desumibile dal dovere di solidarietà) sono derogabili, a differenza di questi ultimi, «sia in virtù di espresse norme formalmente costituzionali, sia anche in virtù di norme legislative che esplicitano i limiti immanenti al contenuto essenziale delle disposizioni costituzionali dalle quali i principi sono ricavati», ma quello che è essenziale è che in ogni caso «la cedevolezza di una norma» deducibile da un principio supremo richiede «una specifica giustificazione di necessarietà, di adeguatezza e comunque di ragionevolezza» (Modugno F., op. cit., 13). Da ciò discende che ogni deroga al principio di buona fede (quale principio derivante dal dovere di solidarietà ex art. 2 Cost.) richiede una “ragionevole giustificazione”, e vedremo che questa manca nell’ipotesi in esame.

In secondo luogo, a sostegno della tesi prospettata si può far riferimento anche al disposto dell’art. 97 Cost., il quale garantisce «il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione», e non priva di importanza è la circostanza che lo stesso Statuto – dopo aver affermato, in generale, che «le disposizioni della presente legge, in attuazione delle norme della Costituzione, dei principi dell’ordinamento dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario» (art. 1, comma 1) – sancisce al comma 1 dell’art. 10 (rubricato “Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente”), che «i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede». Numerosa dottrina ha fatto riferimento all’art. 97 Cost. come fondamento del dovere di correttezza – e collaborazione – vincolante l’Amministrazione finanziaria nei confronti del contribuente (v., fra gli altri, Logozzo M., La tutela dell’affidamento e della buona fede del contribuente tra prospettiva comunitaria e «nuova» codificazione, cit., 1131; Id., L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002, 239; Garcea A., Spunti ricostruttivi in tema di interpello tributario, in Riv. dir. trib., 2003, 6, I, 484 e 493; D’Ayala Valva F., L’onere della prova ed il principio di collaborazione fra pubblica amministrazione e contribuente nella fase amministrativa e nella fase processuale, in Riv. dir. trib., 2002, 4, II, 270 e 276; Id., Il principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente. Il ruolo dello Statuto, in Riv. dir. trib., 2001, 10, I, 1004; Mastroiacovo V., Efficacia dei principi dello Statuto e affidamento del contribuente, in Riv. dir. trib., 2003, 3, II, 283).

In terzo luogo, si può fare riferimento all’esigenza di garantire la libertà economica del soggetto, in osservanza di quanto previsto dall’art. 41 Cost., in quanto «il contribuente, ove non venisse tutelato il suo affidamento nelle scelte interpretative dell’Amministrazione finanziaria, sarebbe costretto ad operare le sue scelte economiche in un clima di assoluta incertezza, con conseguente violazione dell’art. 41 della Costituzione, che assicura al privato il diritto di intraprendere liberamente iniziative economiche» (così, prima dell’emanazione dello Statuto, Sammartino S., Le circolari interpretative delle norme tributarie emesse dall’amministrazione finanziaria, in Aa.Vv., Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, 1997, II, 1089). Bisogna infatti ritenere che, nell’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria abbia determinato l’affidamento del contribuente a ritenere un certo evento fiscalmente neutrale, dal mutamento di orientamento deve conseguire la piena tutela del contribuente e la piena responsabilità dell’Amministrazione stessa. Si pensi all’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria riconosca la sussistenza del diritto di un determinato contribuente a godere di una esenzione fiscale e, considerata l’esistenza dei requisiti, fornisca espresso riconoscimento dell’esenzione predetta. Il contribuente, ponendo affidamento nel predetto riconoscimento, pone in essere una strategia aziendale nella quale la programmazione del rapporto costi-ricavi non preveda l’incidenza del tributo. Ossia la “ricarica” predeterminata esclude il “costo” fiscale, in relazione alla non prevedibilità della sussistenza di detto costo. Orbene, nell’ipotesi di riconoscimento successivo, da parte dell’Amministrazione finanziaria, della sussistenza della pretesa tributaria, si deve ammettere che il contribuente non potrà che subire – per i periodi d’imposta precedenti per i quali venisse richiesto il pagamento anche del “solo” tributo – una ingiusta alterazione in relazione alla (im)prevedibilità del gravame fiscale, posto che a «libertà di iniziativa economica che l’art. 41» Cost. “garantisce”, «esige la quantificazione prospettica dei costi e la stabilità delle informazioni occorrenti per procedere a tale quantificazione» (cfr., Falsitta G., Corso istituzionale di diritto tributario, Milano, 2022, 211).

Da ultimo, sempre a livello di normativa costituzionale, può invocarsi l’art. 53, spesso “utilizzato” viceversa per sostenere, nell’ipotesi in esame, la debenza del tributo anche nel caso di lesione del legittimo affidamento del contribuente, indotto in “errore” da una precedente interpretazione dell’Amministrazione, poi modificata in peius, in quanto – secondo questa tesi – ragionando diversamente si sottrarrebbe il soggetto all’obbligo di contribuzione secondo la propria capacità contributiva (cfr. Turchi A., La tutela dell’affidamento del contribuente a fronte dei mutamenti interpretativi della finanza, in Riv. dir. trib., 2003, 9, I, 783), finendosi inoltre per attribuire alla circolare una “forza di legge” in violazione dell’art. 23 Cost.2. Infatti, a prescindere dalla natura in ogni caso “interpretativa” della circolare, lo stesso art. 53 Cost. può essere “utilizzato” a sostegno della tesi definita “favorevole” per il contribuente, posto che Il riconoscimento della retroattività del revirement interpretativo dell’Amministrazione in peius può determinare la tassazione di un fatto anche a notevole distanza di tempo dal suo realizzarsi (in considerazione dei termini previsti dalla legge ai fini dell’accertamento), quando ormai il contribuente potrebbe avere legittimamente (in quanto “autorizzato” dalla precedente interpretazione a lui favorevole) consumato la ricchezza espressa da quel fatto, con conseguente tassazione di una capacità contributiva non più “attuale”.

3. Per tutti i motivi illustrati, riteniamo che la tutela dell’affidamento del contribuente, sussistendo specifiche condizioni, vada assicurata in modo “pieno”, ovverosia prevedendo la non debenza, oltre che di sanzioni e interessi (scontata), anche del tributo: infatti, «si avverte l’ingiustizia del recupero “a posteriori” di un tributo nei casi in cui l’errore sia causato dalla stessa Amministrazione finanziaria» (così, Trivellin M., L’applicazione dei tributi: moduli, attività dei contribuenti e controlli del Fisco, in Aa.Vv., Fondamenti di diritto tributario, Milano, 2022, 365).

Considerando la relazione fattispecie-effetto giuridico, può dirsi che l’errore del contribuente è scusabile ogniqualvolta vi sia responsabilità dell’Amministrazione finanziaria. In tale ipotesi occorre una tutela piena dell’“affidamento”, poiché nella specie l’errore soggettivo del contribuente è caratterizzato da uno specifico elemento, causativo dell’errore e perciò generatore della responsabilità dell’Amministrazione finanziaria. Da quanto detto non può non derivare una tutela giuridica “piena” del contribuente stesso. Nel caso in cui il contribuente – per decorso del tempo o per il compimento di atti irreversibili – abbia assunto una determinazione ormai incompatibile con la successiva asserzione di imponibilità, vi sarà un danno per il contribuente stesso (affidato), con una corrispondente responsabilità dell’Amministrazione finanziaria. Così può aversi riguardo alla avvenuta conclusione di una attività contrattuale: la stipula di un atto notarile non potrebbe essere rivista per il cambiamento di opinione del Fisco. In definitiva, alla tutela dei diritti del contribuente non possono non corrispondere doveri e obblighi, e conseguenti responsabilità, dell’Amministrazione finanziaria (in proposito v. Casetta E., Responsabilità della Pubblica Amministrazione, in Dig. disc. pubbl., Torino, 1997, XIII, 210 ss.). Come evidenziato, la soluzione prospettata e la responsabilità dell’Amministrazione sono, ovviamente, relative alle ipotesi di impossibile adeguamento postumo alla nuova iniziativa di imponibilità.

Prima della modifica apportata all’art. 10 dello Statuto dal D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219, ritenevamo che, interpretando l’art. 10, comma 2 – contenuto in una legge ordinaria – in senso “restrittivo” in danno del contribuente, questo era suscettibile di censura costituzionale, per violazione degli artt. 2, 53 e 97 Cost., nonché del criterio di ragionevolezza (è, infatti, «principio costituzionalmente implicito [n.d.a.; nell’art. 3] quello di ragionevolezza o non arbitrarietà delle leggi»; così Modugno F., op. cit., 2), per cui, in proposito, prospettavamo la diversa soluzione interpretativa, “favorevole” al contribuente, ispirata al c.d. “principio di conservazione” dell’ordinamento.

Ritenevamo dunque che, nonostante il tenore letterale della norma (che prevede solo la non debenza di sanzioni e interessi, rendendo, “a prima vista”, viceversa dovuto il tributo), solo un’interpretazione della norma in questione, volta a non escludere una responsabilità dell’Amministrazione in caso di revirement in peius di una sua precedente interpretazione – con conseguente possibile annullamento dell’atto impositivo contrastante con detta interpretazione – consentiva di superare le anzidette censure di incostituzionalità (prospetta una possibile incostituzionalità dell’art. 10, comma 2, dello Statuto, per contrasto con il principio dell’affidamento, Galeotti Flori M.A., in Aa.Vv., Appendice de I tributi in Italia, Padova, 2001, 10 ss.; in proposito v. anche Della Valle E., La tutela dell’affidamento del contribuente, in Rass. trib., 2002, 2, 467, e Falsitta G., Corso istituzionale di diritto tributario, cit., 212).

Oggi, dopo le citate modifiche, l’anzidetta interpretazione “adeguatrice” o “costituzionalmente orientata” non è più possibile, con conseguente incostituzionalità della norma in esame.

Infatti:

  1. prevedendosi espressamente la non debenza del tributo «limitatamente ai tributi unionali», ovviamente per quelli “nazionali” il tributo rimane dovuto;

  2. il legittimo affidamento – pena una palese violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevole trattamento differenziato di situazioni sostanzialmente uguali, come nel caso di specie – va tutelato come valore in sé, a prescindere dalla tipologia di tributo (in particolare, “unionale” o “non unionale”). È del tutto irragionevole, infatti, tutelare il contribuente in misura “piena” o meno a seconda della natura del tributo: il legittimo affidamento è un principio che va rispettato o sempre (e questa è ovviamente la soluzione da accogliere anche dal punto di vista costituzionale) o mai. In proposito occorre anche evidenziare che, per assurdo, nel caso in esame lo Stato rinuncia a un tributo che è al contempo una “risorsa propria” dell’Unione Europea, mentre non rinuncia a un tributo “proprio”;

  3. infine, come già osservato, a conferma della sua rilevanza, secondo la migliore interpretazione il legittimo affidamento del soggetto vincola anche il legislatore, e come esempio della portata di quanto detto possiamo ricordare – in materia tributaria – la dubbia legittimità del recente intervento legislativo (art. 1, comma 64, L. 30 dicembre 2023, n. 213, “Legge di Bilancio 2024”) che ha introdotto (ovviamente per motivi di cassa, “collegati” a un presunto intento speculativo ravvisabile nella cessione immobiliare infradecennale), al comma 1 dell’art. 67 (“Redditi diversi”) del TUIR, la lettera b-bis)3: in tal modo si è stabilita la tassazione estesa al periodo di un decennio (rispetto al quinquennio previsto dalla lett. b) delle plusvalenze4 realizzate mediante la cessione di immobili (sussistendo i requisiti di cui alla citata lettera b-bis), che abbiano beneficiato del c.d. “Superbonus”. Così facendo, il legislatore ha disciplinato una “nuova” ipotesi impositiva lesiva del legittimo affidamento di coloro che hanno beneficiato dell’agevolazione fiscale, agevolazione che aveva, tra l’altro, finalità di sicurezza, miglioramento ed efficientamento energetico degli edifici nonché stimolo allo sviluppo dell’attività economica.

Dalle osservazioni svolte consegue che una norma – l’art. 10, comma 2 contenuta in una legge che dovrebbe tutelare i diritti del contribuente risulta, in realtà, lesiva degli stessi (perché impedisce una interpretazione “costituzionalmente orientata”). e conseguentemente appare meritevole di una dichiarazione di incostituzionalità da parte della Consulta.

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1 Un problema di tutela del contribuente si pone comunque in tutti i casi in cui, a prescindere dall’esistenza di una circolare diramata dall’Amministrazione centrale (ricomprendendo con tale termine anche atti diversi ma sempre a contenuto interpretativo, come risoluzioni o note), il contribuente sia stato indotto in errore da una informazione “sbagliata” dell’Amministrazione, fornita attraverso i più disparati – e oggi sempre più diffusi – strumenti, che non posseggono, o possono non possedere, lo stesso grado di attendibilità dell’interpretazione fornita a livello centrale. Tali “messaggi” comunque finiscono per influire sulle scelte e i comportamenti del contribuente: si pensi alle informazioni fornite tramite “videoconferenze” – spesso trasfuse in apposite circolari -, comunicati stampa, strumenti informatici (con apposito sito “Internet” del Ministero dell’economia e delle finanze e delle Agenzie fiscali), servizio telefonico per l’assistenza ai contribuenti, personale addetto agli sportelli (c.d. URP, Ufficio per le relazioni con il pubblico). A queste ipotesi, o almeno ad alcune di esse, sembra riferirsi l’art. 10, comma 2, L. n. 212/2000, là dove, con formula in verità poco felice, sancisce che “non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, … qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa”).

2 Circa l’“ostacolo” rappresentato dal citato art. 23 Cost. alla tesi che abbiamo definito “favorevole” al contribuente, può osservarsi che non vale in proposito richiamare – per sostenere la tesi contraria – il principio di riserva di legge di cui al citato articolo, che sarebbe violato qualora si riconoscesse natura vincolante all’interpretazione contenuta in una circolare dell’Amministrazione finanziaria, la quale verrebbe in tal caso ad assurgere a vera e propria fonte del diritto. Sul punto occorre invero evidenziare, innanzitutto, che l’atto impositivo che applichi retroattivamente il revirement interpretativo in peius, o che comunque contraddica una precedente circolare favorevole al contribuente, è da considerare annullabile non perché la circolare vincoli l’Ufficio ad accogliere un’interpretazione (presumibilmente) erronea della norma, divenendo così fonte del diritto; l’annullabilità discende infatti dalla circostanza che l’atto è stato emanato in violazione di una regola – quella della correttezza – che disciplina l’attività dell’Amministrazione, al pari, ad esempio, delle norme che regolamentano la raccolta delle prove: se anche in teoria l’atto fosse fondato, la violazione delle norme disciplinatrici l’attività è, per ciò solo, motivo di annullamento dell’atto stesso fondato sulle prove “illegittime” (come oggi espressamente prevede lo Statuto all’art. 7-quinquies – rubricato “Vizi dell’attività istruttoria” – che testualmente stabilisce: «non sono utilizzabili ai fini dell’accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova acquisiti oltre i termini di cui all’articolo 12, comma 5, o in violazione di legge»). In secondo luogo, l’interpretazione contenuta nella circolare “contraddetta” dall’atto impositivo non può dirsi “a priori” errata, ed esatta quella accolta nell’atto stesso (potendo ben avvenire il contrario), sino alla definitiva pronuncia del giudice sul punto (e anche questa potrebbe essere disattesa dalle pronunce di altri giudici). L’accoglimento dell’opinione da noi sostenuta esclude peraltro che a tale pronuncia “interpretativa” della norma tributaria si giunga (e si possa sapere, nel caso concreto, qual era l’interpretazione “corretta” secondo il giudice), dovendo l’atto essere annullato per violazione della normativa di correttezza. Non può dunque affermarsi che con l’emanazione di una circolare interpretativa, che ha l’effetto di rendere nulli gli atti contrastanti adottati dagli Uffici periferici, l’Amministrazione crei diritto, in violazione dell’art. 23 Cost. Si rimane sempre nell’ambito di un’attività interpretativa e non creativa del diritto, che ha l’effetto sopra indicato in virtù dell’operare del principio, costituzionalmente previsto, di correttezza.

3 La nuova fattispecie impositiva si applica alle cessioni di immobili effettuate a partire dal 1° gennaio 2024.

4 Calcolate in base al disposto del modificato comma 1 dell’art. 68 TUIR.

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