Una prima picconata (europea) al regime delle società di comodo: prospettive per la “rifondazione” della disciplina
Di Giuseppe Mercuri
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(commento a/notes to CGUE, sent. 7 marzo 2024, causa C-341/22)
Abstract
La Corte di Giustizia dell’UE ha escluso la sussistenza di un nesso logico fra risultati economici insufficienti e la presunzione di evasione o di elusione o di frode. Un rendimento poco soddisfacente, quindi, non è un dato idoneo a legittimare il diniego del diritto di detrazione. È venuto il momento per un’abrogazione dell’attuale disciplina e per una sua “rifondazione” in coerenza con il diritto europeo.
A first (European) stroke at the Italian regime of shell entities: an overview on reforming of the discipline – The Court of Justice of the European Union ruled out any logical link between insufficient economic results and the presumption of tax evasion, avoidance or fraud. So, a poor performance is not suitable to legitimize the denial of the right to deduct input VAT. The time has come for a repeal of the current Italian regime of shell entities and for its “refounding” consistently with European law.
Sommario: 1. I molteplici dubbi sollevati sulla “civiltà” del meccanismo presuntivo: una disciplina alla ricerca di ratio. – 2. I dati assunti dai giudici europei: il concetto di «attività di impresa» – 3. La rilevanza del diritto di detrazione nel segno della neutralità e proporzionalità. – 4. Considerazioni conclusive.
1. È ampiamente diffusa in dottrina l’idea secondo cui la disciplina delle società di comodo dia luogo ad un trattamento differenziato in peius fortemente problematico sotto il profilo della coerenza con i principi fondamentali in materia tributaria (Falsitta G., Le società di comodo e il paese di Acchiappacitrulli, in Per un fisco «civile», Milano, 1996; Stevanato D., Società di comodo, orrore senza fine: da imposta su presunti redditi di fonte patrimoniale a tributo extrafiscale sul patrimonio?, in Dialoghi tributari, 2014, 2, 142 -145; Id., Società di comodo, buona giustizia e cattiva legislazione, in Dialoghi tributari, 2014, 1, 31 ss.; Id., Società di comodo, un capro espiatorio buono per ogni occasione, in Corr. trib., 2011, 47, 3889 ss.; Beghin M., Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in Falsitta G., Manuale di diritto tributario, Padova, 2014, 715).
Il primo profilo di criticità risiede, anzitutto, nel contrasto con l’attribuzione in via presuntiva della qualifica di “non operatività” a società ed enti che non raggiungono un determinata soglia di ricavi e, quindi, l’imputazione “per ascrizione” di redditi figurativi derivanti dall’applicazione di coefficienti a determinati asset. Già solo sulla base di tale pseudo-nesso risulta di tutta evidenza il contrasto con una massima di comune esperienza secondo cui “chi non opera, non produce e, quindi, non guadagna”, salvo prestare fede in un biblico effet d’aubaine derivante dagli stessi cespiti aziendali.
Oltre a questo “problema strutturale” nella costruzione di un regime presuntivo sulla “qualità per quantità”, a ciò si aggiunge anche la carenza inferenziale di coefficenti applicati ai valori patrimoniali. Essi trovano applicazione – in specie – con riferimento ad immobili in modo uniforme per qualsiasi cespite da Vipiteno a Lampedusa senza alcuna differenziazione circa le qualità intrinseche e lo stato di conservazione del bene. È pur vero che, nel tempo sono state introdotte alcune “mitigazioni” alle rigidità iniziali (si pensi ad esempio alla riduzione del coefficiente per gli immobili situati in comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti), ma si tratta di ben poco per individuare una solida “base fattuale” da cui ritrarre una “potenzialità reddituale” affidabile.
Oltre all’aumento della base imponibile ai fini reddituali ed IRAP, si realizza poi una “discriminazione qualitativa” (anche) di quegli stessi “redditi figurativi”, prevedendosi addirittura un significativo aumento dell’aliquota IRES (maggiorazione del 10,5%).
Maggiori perplessità emergono anche se si vuole rintracciare un’adeguata giustificazione di tale regime all’interno del sistema.
Se si indaga l’esistenza di una “ratio antievasiva” (assumendo cioè la fattispecie presuntiva come strumento di ricerca della prova di proventi occultati), allora non si spiega la ragione per cui viene mantenuto «fermo l’ordinario potere di accertamento»: l’Amministrazione finanziaria potrebbe verificare la sussistenza di ulteriori proventi rispetto a quelli rimasti “in potenza” secondo il valore degli asset, disponendo di una duplicazione di strumenti che potrebbe condurre anche ad una doppia tassazione. Inoltre, le presunzioni dovrebbero essere concepite come mezzi per agevolare l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria sol ove sussistano effettive asimmetrie informative insormontabili. Non risponde ad un sistema basato sulla rule of law quello in cui è sufficiente un marchio di “incapacità” (per mancato raggiungimento di una soglia) per desumerne l’“inoperatività” e, quindi, per attribuire il bollino di “evasore”. Qualcosa stride fortemente con una tenuta generale di questa ricostruzione presuntiva alla luce della ratio di contrasto all’evasione.
Non meno problematico risulta il riconoscimento di una ratio antielusiva. Non sarebbe dato intravedere quale sia il vantaggio fiscale indebito. Le società assoggettate ad IRES hanno una tassazione al 24% e la cedolare sugli immobili è del 21% (in alcuni casi si scende anche al 10%). È prevista la tassazione come reddito diverso della differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione in godimento di beni dell’impresa in capo ai soci o a familiari (art. 67, lett. h-ter, TUIR). Il regime degli immobili meramente patrimoniali non segue la regola di determinazione “a costi e a ricavi”, ma le regole poggianti sulle risultanze catastali, con la conseguenza che le spese e gli altri componenti negativi di detti cespiti non sono ammessi in deduzione (art. 90, comma 2, TUIR). E si potrebbe anche proseguire.
La ratio potrebbe essere intesa in una “dimensione dirigista”, ma sarebbe da comprendere se sia davvero necessario un intervento così penalizzante sotto il profilo tributario se non sussiste un nesso logico con una maggiore forza economica di questo tipo di soggetti. Anzi, la misura fiscale sarebbe utilizzata in modo del tutto improprio perché per alcuni tipi societari il meccanismo presuntivo mirerebbe all’espulsione dal mercato di soggetti “non meritevoli” di restarvi (meritevolezza valutata oltretutto secondo parametri discutibili). L’ingerenza pubblica – nel perseguimento di una ratio prevalentemente extra-fiscale – sarebbe eccessivamente invasiva sulle scelte e sui risultati dell’impresa, tanto da essere intollerabile in considerazione di ulteriori strumenti meno invasivi (come quelli in sede amministrativa) o comunque in relazione alla prospettiva di abbandonare del tutto tale pretesa, rimettendo i risultati al naturale corso del mercato (come dovrebbe essere in un sistema liberal-democratico).
Se poi si volesse invece tassare maggiormente il “beneficio” ritraibile dalla separazione patrimoniale tramite lo schermo societario (chiaramente secondo una “giustificazione sociale” dell’imposta diversa da quella poggiante sulla “capacitazione contributiva”), anche su questo profilo vi sarebbero dubbi se si considera che l’actio pauliana è ritenuta esperibile anche rispetto al conferimento di beni in una società schermo (Cass. n. 2817/1995; n. 10359/1996; n. 1804/2000; n. 23891/2013; n. 23685/2014; n. 2536/2016; n. 2153/2021).
Inoltre, non può sfuggire una contraddizione di fondo in un sistema che vorrebbe orientare mediante espulsione (indiretta) chi non è ritenuto capace di sfruttare i propri cespiti (ripetesi, sulla base di soglie aventi dubbia validità) e, al contempo e con cadenza periodica, agevola l’assegnazione dei beni delle società commerciali in favore di società semplici (da ultimo, v. art. 1, comma 100, L. n. 197/2022). Tant’è che il diritto tributario – tradizionalmente considerato come una materia di “secondo grado” (in ragione del recepimento di istituti derivanti da altre branche del diritto, sia pur con differente grado, talvolta, di autonomia e, talaltra, di vero e proprio particolarismo) – diventa un dato normativo primario agli occhi degli studiosi di diritto commerciale per poter predicare la configurabilità di “società semplici di mero godimento”, risultando quest’ultime non solo come legittime, ma addirittura come favorite dal legislatore (Spada P., Dalla società civile alla società semplice di mero godimento, in Studio n. 69-2016/I, Consiglio Nazionale del Notariato).
In questo complesso (ma avvilente) quadro viene da domandarsi se sia riscontrabile un nesso logico fra il dovere tributario (qui configurato come peggiorativo rispetto ad altre fattispecie) e i principi fondamentali del sistema oppure se sia totalmente saltato quel bilanciamento fra l’interesse ad assicurare il concorso alla ripartizione della spesa pubblica e i diritti fondamentali dei contribuenti, quali riflessi nel principio/valore della garanzia della capacità contributiva.
L’allontanamento dalle “altissime ragioni di civiltà giuridica” nel caso di specie rende evidente «un’alterazione del rapporto tributario, con gravi conseguenze in termini di disorientamento non solo dello stesso sviluppo dell’ordinamento, ma anche del relativo contesto sociale» (Corte cost. n. 288/2019).
Si potrebbe replicare che esiste la “prova contraria” attraverso “oggettive situazioni” impedienti il conseguimento di risultati minimi predeterminati dall’art. 30 L. n. 724/1994. Ma anche qui si tratta di un approccio del tutto sproporzionato, in quanto chi gestisce la società – ancorchè sia semplicemente “incapace” e, quindi, ha problemi “soggettivi” nella gestione – sarà tenuto a dimostrare in sede di interpello o di contenzioso un fatto economico oggettivo che giustifica il mancato ottenimento di “adeguati” introiti, provando così di non essere un “evasore”. Un procedimento siffatto – oltre ad assumere tratti così grotteschi da sembrare ispirato da un romanzo di Bulgakov – risulta oltretutto costoso per la società sotto il profilo della gestione amministrativa e contenziosa della vicenda.
V’è da chiedersi oltretutto come mai un regime come quello delle società di comodo identifichi un unicum in tutta Europa. Gli studiosi hanno messo in luce come altre esperienze giuridiche si siano poste il problema delle società fantasma o delle c.d. letter box (cfr. Pistone P. – Nogueira J. – Turina A. – Lazarov I., On the European Commission Consultation on fighting the use of shell entities and arrangements for tax purposes in the EU Feedback to the EU consultation by the IBFD task force on EU law, in Intl. Tax Stud., 2021, 4, 7 ss.), come nel caso della normativa bulgara, svedese, olandese e danese. Ma in tutti questi casi, anzitutto, gli indici su cui si fonda la presunzione si riferiscono a dati strutturali e organizzativi per comprendere se ricorra (o meno) una “wholly artificially arrangement”. Inoltre, non vi è un aggravamento impositivo sul versante figurativo, ma solo il disconoscimento di “benefici fiscali” derivanti da Convenzioni o dal diritto interno.
La disciplina italiana, invece, potrebbe arrivare all’assurdo di qualificare la società come “non operativa” e, allo stesso tempo, di farla rientrare nel regime PEX quale “società commerciale”, trattandosi di discipline concorrenti e non già alternative (circ. n. 7/E/2013, 26-27). Quindi, si pone anche un problema di coerenza rispetto alla ratio secondo cui il regime in discorso colpirebbe un abuso dello statuto fiscale delle società commerciali (Miceli R., Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, Pisa, 2018).
Proprio per tutti questi profili di criticità, gli studiosi chiamati ad approfondire le modalità per contrastare a livello europeo il fenomeno delle shell companies hanno sconsigliato di assumere indici correlati al volume d’affari in termini di “remunerazione dei cespiti” (Pistone P. – Nogueira J. – Turina A. – Lazarov I., cit.), non essendo ritenuti conformi agli obiettivi e, come tali, apparendo contrari al principio di proporzionalità.
Nonostante i molteplici dubbi rilevati dalla dottrina, la giurisprudenza italiana ha mantenuto per lungo tempo una posizione laissez faire nei confronti del legislatore, negando – forse troppo sbrigativamente – la sussistenza degli estremi per sollevare una questione di legittimità costituzionale (Cass. n. 31259/2021; Cass. n. 21358/2015) o per un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE (Cass. n. 16204/2018; n. 16472/2022) in ragione della possibilità di una “prova contraria” del contribuente.
Tuttavia, la giurisprudenza non ha colto il problema strutturale rinvenibile nella mistificazione legislativa che rende la disciplina de qua priva della necessaria coerenza fra presupposto (reddito) e base imponibile (patrimonio), finendo per tramutare un’imposta sul reddito in un’imposta cripto-patrimoniale con ulteriore discriminazione peggiorativa dei maggiori redditi. Anche sul punto vi sarebbe da porre il tema nel segno di una “proporzionalità in funzione demistificatoria” rispetto ad un ragionamento presuntivo connotato da circolarità e da una tautologia di fondo. L’imposta appare mal mirata a fronte di risultati (asseritamente) insoddisfacenti, rimanendo una fattispecie impositiva sul reddito (aggravata) in assenza di un’espressa alternatività rispetto ad una forma di imposizione sul patrimonio.
Di recente si è però verificato un netto cambio di passo grazie ad una ricostruzione della disciplina alla luce dei principi fondamentali relativi al quadro del sistema IVA europeo. E difatti, la Suprema Corte ha sollevato la questione in relazione ai “limiti” posti al rimborso dell’eccedenza IVA sugli acquisti previsto dall’art. 30 L. n. 724/1994 a cagione del mancato conseguimento dei risultati (pretensivamente) ritraibili dai cespiti societari (ord. n. 16091/2022; cfr. Miceli R., La disciplina nazionale IVA sulle società di comodo al cospetto della Corte di Giustizia. Si preannuncia l’incompatibilità europea. Nota all’ordinanza della Corte di Cassazione n. 16091 del 15 maggio 2022, in Giustiziainsieme.it, 14 novembre 2022; Petrillo G., I nuovi orizzonti della disciplina fiscale delle società di comodo. Riflessioni sulle proposte di modifica racchiuse nel ddl di riforma fiscale, in Il Nuovo Diritto delle Società, 2023, 7, 1122 -1140).
È su questa domanda che l’intervento della Corte di Giustizia UE ha segnato un importante passo in avanti per il superamento di un regime con connotati fortemente irragionevoli.
2. Già da tempo, la dottrina aveva attentamente osservato come l’aspetto più controverso dell’art. 30 L. n. 724/1994 riguardasse proprio la preclusione del rimborso dell’eccedenza IVA (Schiavolin R., Considerazione di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in Tosi L., a cura di, Le società di comodo, Padova, 2008, 61; Nussi M., La disciplina impositiva delle società di comodo fra esigenze di incentivazione e rimedi incoerenti, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2010, 4, 510).
Ed è su questo versante che si è aperta una prima breccia nel regime delle società di comodo.
Anzitutto, il problema è stato posto sotto il profilo del nesso fra soggettività passiva, presupposto e soglie di presunzione. Ci si chiede se possa venire meno il requisito soggettivo a fronte di risultati frustranti rispetto ai ricavi ipotizzabili secondo i coefficienti dell’art. 30 citato.
La risposta dei giudici europei è negativa. La qualità di “soggetto passivo” si ricollega a chiunque eserciti un’«attività economica» in modo indipendente a prescindere dal luogo, dallo scopo e, soprattutto, dai risultati. L’art. 9 Direttiva 2006/112/CE – in specie – fa riferimento alle attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate. Il concetto europeo dispone, quindi, di una latitudine più ampia rispetto alla formula adottata dalla normativa interna (cfr. l’art. 4 D.P.R. n. 633/1972 recante una definizione analoga a quella prevista ai fini delle imposte sui redditi ed improntata su quella di attività commerciale) come già osservato dalla dottrina (Fantozzi A. – Paparella F., Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Padova, 2019, 408-411; Contrino A., Incertezze e punti fermi sul presupposto soggettivo dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., 2011, 3, I, 535-599; Amatucci F., Identificazione dell’attività di impresa ai fini fiscali in ambito comunitario, in Riv. dir. trib., 2009, 10, I, 781-793; Ficari V., Il profilo soggettivo nell’imposta sul valore aggiunto: l’impresa e l’imprea dell’ente commerciale, in Riv. dir. trib., 1999, 6, I, 547-594).
Soggetto e presupposto si compenetrano ai fini della fattispecie impositiva, con l’ulteriore precisazione che l’attività economica si sostanzia in particolare nello “sfruttamento di un bene” (materiale o immateriale) onde ricavarne introiti con carattere di stabilità.
Secondo la Corte di Giustizia dell’UE, l’attività viene considerata in sé e per sé a prescindere da finalità o risultati, avendo solo un connotato “oggettivo” scevro da qualsiasi analisi ulteriore (CGUE, C‑604/19).
La soggettività passiva, quindi, deve essere valutata alla stregua dell’esercizio effettivo dell’attività come sfruttamento di un bene che sia diretto a ricavare “introiti” con stabilità, non essendo possibile affermare che il mancato raggiungimento di una soglia di ricavi possa equivalere al mancato svolgimento dell’attività.
Sicché, alla luce del presupposto di fatto delineato dall’art. 9, è una questione di merito rimessa al giudice nazionale verificare se la società fosse (o non fosse) in concreto operativa, esercitando un’attività economica.
E d’altronde, questa soluzione “realista” dei giudici europei si riflette nella recente tendenza della Corte di Cassazione a riconoscere il diritto alla prova contraria in ordine alla non operatività. In passato ci si interrogava se il mancato raggiungimento della soglia di ricavi potesse configurare una presunzione assoluta circa la qualifica di società non operativa, in quanto il mancato superamento del test di operatività comportava automaticamente al passaggio alla seconda presunzione (relativa) sul conseguimento di redditi non dichiarati. Si argomentava ciò sulla scorta dell’abrogazione ad opera dell’art. 1, comma 109, L. n. 296/2006 dell’inciso «salvo prova contraria» dal primo comma dell’art. 30 della l. n. 724/1994 avente ad oggetto la qualificazione di società non operativa a fronte dell’esito negativo del test (contra v. Peverini L., Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto tributario all’uso distorto della forma societaria, in Giur. Comm., 2013, 2, 260-308). Tuttavia, questa soluzione interpretativa è stata ampiamente superata dalla giurisprudenza secondo cui il trattamento fiscale peggiorativo non trova applicazione ove si dimostri la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva (caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e dalla continuità aziendale) e, dunque, ove sia provata l’operatività reale della società (Cass. n. 8856/2024; Cass. n. 16472/2022; Cass. n. 4946/2021; Cass. n. 26219/2021; in dottrina già Tassani T., La disciplina delle «società non operative» (dopo la legge finanziaria 2008), in Studio n. 20-2008/T, Consiglio Nazionale del Notariato, 16).
Quindi, è sufficiente l’operatività in concreto per contrastare la (prima) presunzione di non operatività e così precludere gli effetti derivanti dalla seconda presunzione (redditi figurativi) e le ulteriori limitazioni di situazioni soggettive altrimenti ammesse. Ma se è così, sfugge ancora quale possa essere il senso del mantenimento di un meccanismo presuntivo del genere, tenuto conto che, da un lato, è sufficiente la prova di “operare” (anche al di là delle circostanze impedienti il conseguimento dei ricavi minimi) per superare la presunzione. I benefici appaiono ridotti anche per l’Amministrazione finanziaria in termini di “sgravio” di attività nella ricerca della prova. Quanto al versante dei contribuenti, le società subiscono anche gli ulteriori costi per la gestione delle pratiche volte a dimostrare l’operatività in concreto in sede di interpello e/o di contenzioso.
Detto in altri termini, viene da chiedersi se questa evoluzione (giustamente correttiva) possa valere ancora a giustificare il meccanismo presuntivo da un punto di vista di efficienza ed economicità dell’intero sistema sul piano degli oneri a carico delle imprese, dell’attività amministrativa e di quella giurisdizionale.
3. Il vero punto di svolta sembra ravvisabile nella soluzione della seconda questione pregiudiziale.
La Corte di Cassazione chiedeva, infatti, se il disconoscimento del diritto di detrazione dell’IVA sugli acquisti possa essere validamente negato nei confronti del soggetto passivo che, per tre periodi di imposta consecutivi, abbia eseguito operazioni attive in misura (ritenuta) non coerente rispetto a quanto ci si può attendere dagli asset patrimoniali secondo i criteri predeterminati dall’art. 30 L. n. 724/1994, là dove questi non abbia modo di dimostrare l’esistenza di oggettive situazioni ostative all’ottenimento di un volume d’affari “adeguato”.
Ebbene, sul punto, i giudici europei presentano una ricostruzione allineata al sistema dell’IVA europea e, segnatamente, ai principi che ne regolano il funzionamento, precisando i casi in cui i diritti dei contribuenti possono essere oggetto di compressione da parte del legislatore nazionale.
È ben noto che il meccanismo dell’IVA si fonda sulla «perfetta neutralità» per tutte le attività economiche. Il diritto di detrazione, quindi, è parte integrante nel perseguimento di tale obiettivo europeo. Esso deve essere accordato in presenza di due requisiti sostanziali: il primo attiene alla soggettività passiva e – come visto – si compenetra con il profilo dello svolgimento di un’attività economica; il secondo richiede l’utilizzo dei beni o servizi acquistati da un altro soggetto passivo, dovendosi ravvisare un nesso “diretto e immediato” tra una specifica operazione a monte e le operazioni a valle. Ma si può trattare anche di spese generali sostenute per acquisti che siano parte integrante degli elementi costitutivi del prezzo delle operazioni tassate a valle (CGUE, C-98/2021).
Una volta integrati i due requisiti della soggettività e dell’inerenza ricorrono i fatti costitutivi del diritto di detrazione.
Gli Stati membri non possono limitare detta situazione soggettiva (fondamentale non solo a livello individuale, ma anche come “ingranaggio” di un sistema più ampio) sol ove individuino valide giustificazioni e applichino un metodo di ottimizzazione dei vari interessi coesistenti. In questo quadro, la Corte evoca la funzione strutturante della proporzionalità.
I legislatori nazionali possono introdurre “altri obblighi” a carico dei soggetti passivi IVA, circoscrivendo ulteriormente il diritto di detrazione solo per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta e nella prospettiva di contrasto all’evasione (art. 273 Direttiva IVA). Né è possibile per i contribuenti “abusare” dei diritti riconosciuti dalla direttiva, perseguendo vantaggi fiscali che si rivelino contrari agli obiettivi perseguiti dalla disciplina europea.
L’intervento nazionale può muoversi entro e non oltre queste finalità legittime (recte: limiti) altrimenti si metterebbe a repentaglio il funzionamento del sistema europeo dato dalla “detrazione per la neutralità”.
Anche nel disciplinare queste fattispecie critiche per gli interessi erariali, si deve pur sempre seguire un metodo improntato alla proporzionalità.
Anzitutto, non è concepibile una presunzione generale di evasione e di abuso (CGUE C-6/16). Un sistema poggiante sul “mero sospetto” o sull’“illazione” risponderebbe ad una dimensione “irrazionale” del diritto (o dello pseudo-diritto), soprattutto là dove fosse alimentata da intenti moralizzanti di impronta giacobinista che finirebbero per travolgere ingiustificatamente chiunque, ivi compreso gli stessi fautori di idee così assolute e radicali da condurre allo smarrimento di una “connessione logica” fra la realtà dei fatti e le responsabilità (si pensi storicamente alla figura di Robespierre).
In questo senso, la “presunzione del male” non è mai un “bene”, perché potrebbe giustificare scelte in ambito fiscali che esondano gli argini tracciati dagli obiettivi della direttiva, pregiudicandoli irrimediabilmente.
Per questo occorre scendere nel concreto ed accertare i “fatti impeditivi” che limitano fondatamente il diritto detrazione come eccezioni ad una regola così rilevante a livello sistematico, ancorché ricorrano le condizioni sostanziali surricordate (soggettività e inerenza).
In tal modo depone la giurisprudenza europea, quando richiede che l’Amministrazione finanziaria debba dimostrare «elementi oggettivi» alla cui stregua è dato predicare un’evasione oppure l’assenza di buona fede, declinata in termini di conoscenza o conoscibilità della circostanza che la propria operazione si iscriveva nell’ambito di una frode (CGUE, C-114/22); oppure quando rimarca che, ai fini della prova dell’abuso, occorre la sussistenza di «un insieme di elementi oggettivi» dai quali è dato ritrarre che lo scopo essenziale delle operazioni si limita all’ottenimento di un vantaggio fiscale indebito (CGCE C-255/02; CGUE C-114/22); lo stesso dicasi per il divieto di “costruzioni meramente artificiose” che sono tal se «prive di effettività economica» e realizzate al solo scopo di ottenere benefici fiscali contrari agli obiettivi della direttiva IVA (CGCE C-264/96; CGUE C-114/22).
Prescindere da “elementi oggettivi” e dall’“effettività” significa andare oltre gli scopi legittimamente previsti e, quindi, adottare scelte sproporzionate. Quindi, solo l’accertamento dei “fatti impeditivi” può legittimare l’inopponibilità del diritto di detrazione e, quindi, “fondare” gli atti impositivi dell’Amministrazione finanziaria.
È possibile che vi siano presunzioni legali relative, ma la “base fattuale” su cui si innesta l’effetto deve essere logicamente giustificata nel sistema e alla luce dei fatti costitutivi e impeditivi del diritto.
Nel caso del regime delle società di comodo, la presunzione poggia su un’inconferente «soglia di ricavi». Si tratta di un elemento del tutto «estraneo» a quegli elementi oggettivi dai quali è dato dimostrare un’evasione o un abuso (cfr. il punto 39 della sentenza C-341/22).
Il risultato del volume d’affari è un dato quantitativo privo di alcuna significatività rispetto a ciò che si dovrebbe provare e cioè l’occultamento di operazioni attive (evasione) oppure la realizzazione di artifici frodatori o elusivi.
L’art. 30 L. n. 724/1994 reca una presunzione che non poggia su una «valutazione della realtà effettiva» circa le operazioni rilevanti ai fini IVA oppure sull’inerenza. Tale norma riconduce l’effetto impeditivo ad una valutazione del «volume» delle operazioni. È, quindi, un dato privo di adeguata relazione rispetto a ciò che dovrebbe essere dimostrato, ossia l’esercizio del diritto di detrazione in modo fraudolento o abusivo.
Il beneficio è suscettibile di essere denegato sol ove i fatti invocati per dimostrare l’evasione o l’abuso siano stati «sufficientemente dimostrati» con elementi diversi da «supposizioni» (CGUE, C-281/20).
Detto in altri termini, il mero “risultato” non può essere indice rivelatore di “rischi” tali da legittimare una limitazione del diritto alla detrazione. La presunzione (basandosi su una circostanza priva di valenza inferenziale) non è idonea rispetto all’obiettivo riconosciuto dall’art. 273 Direttiva IVA, eccedendo quanto necessario per conseguire gli scopi ammessi dal diritto europeo.
4. Alla luce delle indicazioni dei giudici europei, si possono trarre alcune conclusioni anche sulla ragionevolezza sul “piano interno” con riferimento alle altre conseguenze del regime ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP.
La mancanza di logicità nel rapporto instaurato dalla presunzione posta fra i risultati insufficienti e le conseguenze (in specie, l’aggravio impositivo derivante dalla discriminazione qualitativa e dal disconoscimento di situazioni soggettive altrimenti ammesse) merita attenzione nel quadro di una considerazione complessiva della disciplina.
Di sicuro così com’è articolata ora, il rapporto instaurato presuntivamente è fortemente sbilanciato verso “l’autorità” (ossia il “tu devi”) rispetto alla “giustificazione” (cioè “il tu devi perché…”).
Messa in questi termini la soluzione migliore sarebbe quella di una totale abrogazione di questo unicum a livello europeo (v. già Melis G., Disciplina delle società di comodo e presunzione di evasione: non sarà forse l’ora di eliminarla?, in Dialoghi di diritto tributario, 2006, 10, 1325) per riformulare la disciplina ex novo.
In questo senso, il legislatore dovrebbe predisporre un mezzo adeguato per il contrasto alle “costruzioni di puro artificio”, perseguendo tale fine sulla base di presupposti ed effetti diversi da quelli attuali.
Anzitutto, quanto alle condizioni, si dovrebbe avere riguardo agli elementi strutturali, organizzativi e gestionali all’interno della società e non già ai (poco significativi) ricavi conseguiti. Sul punto, nonostante i profili di criticità della proposta di direttiva europea sulle shell companies, sembra mirare correttamente alle letter box, front entities o alle società fantasma costituite per conseguire benefici fiscali derivanti da Convenzioni o da norme agevolative interne oppure per realizzare frodi IVA.
In quella proposta si distinguono i requisiti “gateway”, i quali sono rapportati al tipo di redditi (in specie, passive income con percentuali abbastanza elevate), al tipo di operazioni (in particolare, cross-border), alle modalità di gestione ordinaria (con modalità esternalizzata).
Ma i criteri di entrata comportano solo obblighi di comunicazione, innescando un alert indirizzato all’Amministrazione finanziaria che poi può svolgere un’attività di monitoraggio dei soggetti ad “alto rischio”. Non sono tenuti a tale adempimento “soggetti oggettivamente innocui” quali ad esempio quelli sottoposti a vincoli di vigilanza (come le società quotate) oppure quelli che hanno una struttura minima (ad esempio, le società con un numero minimo di dipendenti impiegati a tempo pieno).
Negli altri casi, invece, le società che soddisfano i “criteri di entrata” devono provare alcuni “indicatori di sostanza minima”, quali l’utilizzo di locali nel territorio dello Stato membro, l’esistenza di un conto corrente attivo oppure altre circostanze riferibili agli amministratori e ai dipendenti. Detto in altri termini, si richiede si richiede un’organizzazione di mezzi (locali o conto corrente attivo) e di persone (amministratori e dipendenti) sufficientemente radicata sul territorio dello Stato membro in cui è residente l’impresa.
In mancanza di tali elementi, la società è presuntivamente qualificata come priva di “sostanza minima”. Esiste anche la possibilità di addurre “prove supplementari” che consentono una maggiore proporzionalità del meccanismo. Ma in mancanza di un’adeguata giustificazione sul piano delle logiche commerciali, dei processi decisionali e del ruolo dei dipendenti, la società “senza sostanza minima” subisce gli effetti indicati dalla proposta di direttiva.
Da questo punto di vista, l’Amministrazione finanziaria può negare il rilascio del certificato di residenza fiscale per un uso al di fuori della propria giurisdizione oppure può rilasciarlo con la specifica attestazione che l’impresa non ha diritto ai benefici convenzionali e delle direttive.
Inoltre, l’Autorità fiscale può legittimamente disconoscere benefici convenzionali, così come quelli accordati sulla base della Direttiva “Madre-figlia” o dalla Direttiva “Interessi-canoni”.
I redditi della “società senza sostanza” sono tassati direttamente in capo agli azionisti, come se fossero generati direttamente in capo a questi ultimi (però, con possibilità di decurtare le imposte versate nello Stato membro della società, là dove sia gli azionisti che il pagatore siano residenti a fini fiscali in uno Stato membro UE).
Ciò posto e tornando ai profili interni, la legge delega n. 111/2023 sembra instradata nel solco europeo, richiedendo l’individuazione di «nuovi parametri» per qualificare le «società senza impresa», nonché di «cause di esclusione» da riferire a parametri di congruità basati sul «numero di lavoratori dipendenti» e alla luce del tipo di «attività in settori economici oggetto di specifica regolamentazione normativa» (art. 9, comma 1, lett. b, nn. 1 e 2).
Tali premesse sono di buon auspicio per una riforma secondo “ragionevolezza” e cioè secondo una scelta che muove dalla considerazione di “circostanze” e “limiti” dell’intervento pubblico nel quadro dei valori fondamentali in gioco.
Resta da comprendere se la delega consenta (o meno) una revisione anche degli effetti e non solo dei presupposti, riportando in equilibrio il rapporto che deriva dalla fattispecie. Da questo punto di vista l’art. 9 citato sembra rimettere la possibilità di “rivedere” solo “parametri” e “cause di esclusione”, ma non anche le conseguenze sul piano del trattamento fiscale in peius.
Forse sarebbe più prudente riportare la questione all’interno del dibattito parlamentare, onde evitare il rischio di un eccesso di delega da parte del Governo oppure l’adozione di soluzioni ibride e poco soddisfacenti rispetto ai principi fondamentali.
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