Spunti di riflessione sulla nuova disciplina dell’autotutela tributaria

Di Matteo Demetri -

Abstract

La nuova disciplina contenuta nello Statuto dei diritti del contribuente, creando ex novo il discrimen tra autotutela obbligatoria e facoltativa – non previsto nella legge delega – oltre a far dubitare del rispetto dell’art. 76 Cost., rischia di determinare una frammentazione dell’istituto, prevedendo solo nei casi di cui all’art. 10-quater, un obbligo in capo all’Amministrazione finanziaria di provvedere.

Nel saggio si offre una diversa prospettiva, in ragione della quale esistono i margini per ritenere sussistente – in ogni caso – un obbligo di riscontrare l’istanza del privato volta all’annullamento in autotutela. La discrezionalità – da tale angolo visuale – riguarderebbe soltanto il contenuto del provvedimento di secondo grado e mancherebbe del tutto nei casi elencati dall’art. 10-quater.

Quale corollario, pertanto, ne deriverebbe l’impugnabilità del diniego tacito di autotutela facoltativa, anche in assenza di un’espressa previsione normativa.

In mancanza di tale cornice teorica – nella quale non pare inscriversi la giurisprudenza costituzionale e di legittimità – si viene a creare un assetto assai discutibile. L’insieme dei menzionati fattori, costituti dal discrimen tra autotutela obbligatoria e facoltativa, dall’assenza di un obbligo in capo all’Amministrazione di dare avvio al procedimento di riesame e dall’insindacabilità del diniego tacito nei casi di autotutela facoltativa, infatti, comporta conseguenze assurde come l’insindacabilità di ipotesi discutibilmente non contemplate nell’ambito dell’art. 10-quater.

In un’ottica di più ampio respiro, infine, l’inserimento della disciplina in commento nell’ambito della L. 27 luglio 2000, n. 212, fa propendere per un’evoluzione della stessa in un’ottica di rafforzamento delle garanzie, facendo assumere allo Statuto dei diritti del contribuente una veste sempre più simile a quella della L. 7 agosto 1990, n. 241 nell’ambito del diritto amministrativo generale.

Reflections on the new discipline of tax self-defense – The new regulations contained in the Taxpayer’s Rights Statute, by creating ex novo the discrimen between compulsory and optional self-defense – not provided for in the delegated law – in addition to raising doubts about compliance with Article 76 of the Constitution, will result in a fragmentation of the institution, providing only in the cases referred to in Article 10 quater, an obligation on the part of the tax administration to provide.

A different perspective is offered in the essay, due to which there is room to consider that there is – in any case – an obligation to find the private party’s request for self-protection cancellation. Discretion – from this angle of view – would concern only the content of the second instance measure and would be completely lacking in the cases listed in Article 10c.

As a corollary, therefore, the appealability of the tacit denial of optional self-protection would follow, even in the absence of an express regulatory provision.

In the absence of such a theoretical framework – in which constitutional and legitimacy jurisprudence does not seem to be inscribed – a highly questionable arrangement is created. Indeed, the combination of the aforementioned factors, consisting of the discrimen between compulsory and optional self-protection, the absence of an obligation on the part of the Administration to initiate the review procedure, and the unquestionability of tacit denial in cases of optional self-protection, lead to absurd consequences such as the unquestionability of hypotheses questionably not contemplated within the scope of Article 10c.

Finally, from a broader perspective, the inclusion of the regulations under comment within the scope of Law No. 212 of July 27, 2000, suggests that they are evolving with a view to strengthening guarantees, making the Taxpayer’s Rights Statute take on a guise increasingly similar to that of Law No. 241 of August 7, 1990, within the scope of general administrative law.

Sommario: 1. Le novità previste dai decreti legislativi 30 dicembre 2023, nn. 219 e 220 e rispetto dei principi e criteri direttivi enunciati dalla legge delega 14 agosto 2023, n. 111. – 2. Autotutela obbligatoria e facoltativa; riflessioni critiche sulla doverosità del procedimento di riesame ed efficacia vincolante dell’istanza del contribuente. – 3. L’impugnabilità del diniego di autotutela e del silenzio sull’istanza di autotutela alla luce delle modifiche apportate. – 4. Le conseguenze dell’abrogazione della disciplina previgente, con particolare riferimento al potere sospensivo. – 5. Considerazioni conclusive sull’avvicinamento del procedimento tributario alla disciplina del procedimento amministrativo generale.

1. Tra le principali novità contenute nei decreti legislativi 30 dicembre 2023, nn. 219 e 220 vi è senza dubbio l’assetto dell’autotutela sugli atti impositivi, rispetto al quale la legge delega 14 agosto 2023, n. 111 prescriveva di «potenziare l’esercizio del potere di autotutela estendendone l’applicazione agli errori manifesti nonostante la definitività dell’atto, prevedendo l’impugnabilità del diniego ovvero del silenzio nei medesimi casi».

Com’è noto, il legislatore ha introdotto la c.d. autotutela obbligatoria nell’art. 10-quater L. 27 luglio 2000, n. 212 in una serie di ipotesi di manifesta illegittimità dell’atto o dell’imposizione. In tali casi, peraltro, se l’Amministrazione non esercita il proprio potere di autotutela – e il contribuente la invita a farlo entro un anno dalla definitività dell’atto – il diniego, espresso o tacito, sarà impugnabile.

Fuori dalle fattispecie in cui è previsto tale obbligo, l’Ente impositore può procedere all’annullamento, in tutto o in parte, di atti di imposizione, ovvero alla rinuncia alla stessa, senza necessità di istanza di parte, anche in pendenza di giudizio oppure in caso di atti definitivi, in presenza dell’illegittimità o dell’infondatezza dell’atto o dell’imposizione.

Al riguardo, solo il rifiuto espresso dell’autotutela facoltativa sarà impugnabile.

Da un punto di vista meramente pratico, infine, una novità – forse passata un po’ inosservata – in un’ottica di potenziamento dell’istituto in parola, è costituita dalla limitazione della responsabilità erariale dei dipendenti delle Amministrazioni finanziarie alle sole condotte dolose nell’ambito sia dell’autotutela obbligatoria sia dell’autotutela facoltativa.

Prima di commentare analiticamente le suddette disposizioni, non si può che accogliere favorevolmente la collocazione della materia de qua nel quadro dello Statuto dei diritti del contribuente.

La forza condizionante delle norme contenute nello Statuto, infatti, potrà sicuramente favorire una maggiore sensibilità presso le Amministrazioni nell’esercizio dell’attività di riesame degli atti (della medesima opinione Ingrao G., I nuovi sviluppi della normativa sull’autotutela, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 2, IV, 623 ss.).

Sempre in via preliminare occorre, tuttavia, rilevare come le innovative soluzioni dei decreti attuativi si siano discostate dai principi e criteri direttivi enunciati dal legislatore delegante tanto da far dubitare del rispetto dell’art. 76 Cost., il quale – secondo l’insegnamento della Corte costituzionale – non osta all’emanazione di norme che rappresentino un completamento delle scelte espresse dal Parlamento, ma tali norme delegate devono pur sempre essere coerenti con la ratio della delega stessa (ex plurimis, Corte cost. n. 230/2010).

Al riguardo – per quanto di nostro interesse – basti osservare come la creazione ex novo del discrimen tra autotutela obbligatoria e facoltativa non fosse prevista nella delega, così come la limitazione temporale di cui al comma 2 del nuovo art. 10-quater, in forza del quale l’obbligatorietà dell’annullamento prevista per i casi di cui al comma 1 viene meno al trascorrere di «un anno dalla definitività dell’atto viziato per mancata impugnazione».

È pur vero – d’altro canto e specularmente – che la stessa L. n. 111/2023 (delega al Governo per la riforma fiscale) recava numerose disposizioni sostanzialmente in “bianco”, cioè contenenti “principi e criteri direttivi” così vaghi da far sospettare a monte del rispetto dell’art. 76 Cost., specialmente se interpretato alla luce dell’art. 23 Cost. (è di questa opinione Giovannini A., Noterelle su deleghe in bianco e Costituzione, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, I, 21 ss.).

Pare, pertanto, opportuno dubitare del rispetto della menzionata norma costituzionale, che, com’è noto, pone una duplice direttiva normativa – nei confronti del Parlamento e del Governo, protagonisti del procedimento bifasico ivi disciplinato.

2. Lo studio della nuova disciplina, unitamente a quello dell’evoluzione del quadro giurisprudenziale – visto in chiave diacronica – permette di commentare in maniera più compiuta le ultime modifiche introdotte.

Nel prevedere un elenco di ipotesi di autotutela obbligatoria, in particolare, il legislatore pare essersi rifatto – più che ai criteri fissati dalla legge delega – ad un obiter dictum della pronuncia della Consulta 13 luglio 2017, n. 181, secondo cui «la non irragionevolezza della disciplina esaminata non comporta che siano precluse al legislatore altre possibili scelte […] in via di principio, il momento discrezionale del potere della Pubblica Amministrazione di annullare i propri provvedimenti non gode in sé di una copertura costituzionale. La previsione legislativa di casi di autotutela obbligatoria è dunque possibile» (sul punto vedasi, tra gli altri, Fransoni G., Il diniego tacito o espresso di autotutela non può essere impugnato, commento a Corte cost., sent. 13 luglio 2017, n. 1817, in Riv. tel. dir. trib., 2017, 2, V, 49 ss. secondo cui questo passaggio della pronuncia, pur non conferendo il carattere di “monito” alla sentenza, sembra essere espressione, sia pure in forma velata, di un auspicio).

La previsione di tale “doppio binario” ha portato i primi commentatori a distinguere tra un’autotutela obbligatoria-doverosa ed un’autotutela facoltativa-discrezionale.

Ad avviso di chi scrive, una distinzione così tranchant non pare pienamente condivisibile in quanto doverosità e discrezionalità non sono concetti necessariamente incompatibili.

Fuor di metafora, il connotato della doverosità con riguardo al potere di autotutela decisoria può essere indagato da un duplice angolo visuale, da una parte, come sussistenza di un obbligo di riscontrare l’istanza rivolta dal privato per sollecitare il riesame di un precedente provvedimento, dall’altra, come necessità di adottare un provvedimento di secondo grado volto a rimuovere un atto in contrasto con interessi considerati in re ipsa prevalenti.

Sotto il primo profilo, un’analisi delle disposizioni normative che tenga conto del principio di buona amministrazione finalizzata alla giusta imposizione fiscale condurrebbe a negare che sussista discrezionalità nell’an, ossia nella possibilità di scegliere se attivarsi o meno.

Al riguardo, com’è noto, la giurisprudenza ripete tralaticiamente che l’autotutela tributaria deve ritenersi discrezionale e che l’ente impositore non è obbligato a rispondere, emanando un atto amministrativo, a seguito di istanza di autotutela di un atto definitivo (così Corte cost., 13 luglio 2017, n. 181). Secondo tale impostazione, pertanto, riconoscere carattere vincolante all’istanza del privato significherebbe accordare al contribuente un’indebita forma di tutela anche dopo la scadenza del termine per l’impugnazione dell’atto in sede giurisdizionale.

Non sembra, tuttavia, implausibile sostenere la tesi opposta, riconoscendo in capo al privato – a fronte dell’istanza da questi presentata – un interesse legittimo di tipo pretensivo, e a contenuto procedimentale, all’esame dell’istanza, riconoscendo pertanto l’obbligo in capo all’Amministrazione finanziaria di dare avvio ad un procedimento di autotutela a fronte di una richiesta in tal senso del contribuente (così, tra gli altri, Tesauro F., Riesame degli atti impositivi e tutela del contribuente, in Giust. trib., 2008, 1, 20).

La giurisprudenza – costituzionale e di legittimità (tra le pronunce più recenti, Cass., 20 settembre 2023 n. 26907; Cass., 4 settembre 2023 n. 25659; Cass., 23 ottobre 2020 n. 23249) – pare infatti confondere due piani che dovrebbero più correttamente ritenersi distinti, poiché la discrezionalità non riguarda l’agire ma soltanto l’emanazione di un certo provvedimento positivo. Non è corretto affermare, infatti, che la discrezionalità sotto il profilo del quomodo, ossia nella determinazione del contenuto del provvedimento, implichi necessariamente la sussistenza della discrezionalità nell’an, ossia la libertà di decidere se emanare o meno un provvedimento. Conseguentemente, anche ammettendo che il potere di riesame ed il consequenziale provvedimento abbiano contenuto discrezionale, non se ne può trarre la conseguenza che l’Ufficio sia libero di decidere se attivarsi o meno in presenza di un atto che potrebbe essere illegittimo.

Alla luce di quanto sopraesposto, sussistono i margini per concludere nel senso che l’istanza del contribuente, volta all’annullamento di un atto impositivo, non sia da ritenersi una mera sollecitazione priva di conseguenze giuridiche, ma un atto vincolante per l’Amministrazione finanziaria (giunge alla medesima conclusione, tra gli altri, Cairo P.P., Profili in tema di autotutela nel diritto tributario, Milano, 2010, 116).

Sotto il secondo menzionato profilo, che attiene più propriamente alla discrezionalità nel quomodo, ossia al contenuto del provvedimento di secondo grado, può, invero, ritenersi che i casi elencati nell’ambito del comma 1 dell’art. 10-quater debbano essere intesi come ipotesi di ritiro non correlate ad una ponderazione di interessi diversi.

L’attività che dovrà svolgere l’ Amministrazione finanziaria – se ci si permette il paragone, forse non perfettamente calzante – può ritenersi assimilabile, con terminologia invalsa dal diritto amministrativo generale, al mero accertamento tecnico, ossia ad un’operazione sfociante in un risultato che è certo e privo di alternative e la cui attività amministrativa non presenta margini di opinabilità.

Qual è la sorte dei casi di autotutela facoltativa?

A ben vedere, solo per quest’ultima pare corretto ancora interrogarsi sulla natura del riesame nell’ambito tributario.

Storicamente si sono contese il campo due differenti impostazioni. Una parte della dottrina, da un lato, anche per la generale natura vincolata degli atti tributari, sostiene che l’istituto debba configurarsi come un potere di natura vincolata, il cui esercizio non implichi alcuna indagine sull’interesse pubblico concreto alla rimozione di un atto illegittimo, ritendendo che la sola illegittimità fosse una ragione di pubblico interesse di per sé idonea e sufficiente (tra gli altri, Tesauro F., Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, 2016, Torino, 178).

Diversamente opinando – come accennato sopra – la Corte costituzionale ritiene che l’esercizio dell’autotutela tributaria richieda – per la sua intrinseca natura discrezionale – la configurabilità anche del requisito dell’interesse pubblico, accanto alla condicio sine qua non costituita dell’illegittimità dell’atto.

Non essendo questa la sede per analizzare compiutamente cosa intenda la giurisprudenza costituzionale per «rilevante interesse generale, non coincidente con il mero ripristino della legalità violata», può solamente rilevarsi che in tal caso l’Amministrazione finanziaria dovrà far uso della discrezionalità tecnica, volta ad accertare la sussistenza di un interesse generale che, nel caso concreto, permetta un riesame positivo per il contribuente e renda doveroso l’annullamento dell’atto (in tal senso vedasi Farcomeni F., Autotutela tributaria e interesse generale alla rimozione dell’atto, commento a Cass. civ., sez. trib., 7 marzo 2022, n. 7318, in Riv. tel. dir. trib., 2022, 2, III, 592 ss. e Barabino P., L’autotutela tributaria tra il rilevante interesse generale e la ricerca della ‘giusta imposizione’, in Riv. trim. dir. trib., 2020, 1, 196 ss.).

3. Lungi dal voler svolgere meri esercizi accademici, quanto emerso dalle superiori riflessioni ha grande rilevanza pratica in termini di impugnabilità o meno del diniego di autotutela.

La Consulta escludeva (ed è probabile che continuerà a farlo anche nella vigenza del nuovo Statuto dei diritti del contribuente) l’esperibilità dell’azione avverso il silenzio e l’eventuale impugnabilità dell’esito del procedimento che ne deriva per il timore che, affermando il dovere dell’Amministrazione tributaria di pronunciarsi sull’istanza di autotutela, avrebbe aperto la porta – ammettendo l’esperibilità dell’azione contro il silenzio, con la conseguente affermazione del dovere dell’Amministrazione di provvedere e l’eventuale impugnabilità dell’esito del procedimento che ne deriva – «alla possibile messa in discussione dell’obbligo tributario consolidato a seguito dell’atto impositivo definitivo». L’autotutela, infatti – ad avviso della Corte – avrebbe finito per «offrire una generalizzata seconda possibilità di tutela, dopo la scadenza dei termini per il ricorso contro lo stesso atto impositivo» (così Corte cost., sent., 13 luglio 2017, n. 181).

Al riguardo, anche ammettendo l’impossibilità di qualificare l’autotutela alla stregua di uno strumento di tutela per il contribuente, si può obiettare che il giudizio sul diniego della stessa concerna la legittimità del rifiuto medesimo e non la fondatezza della pretesa tributaria.

Traguardando la questione da questo angolo visuale, pare pertanto improprio escludere la sindacabilità del provvedimento di rigetto dell’istanza di autotutela quantomeno sotto il profilo della propria legittimità con riferimento all’imparzialità e correttezza dell’azione amministrativa.

Ciò discende, del resto, anche dal generale principio di accountability dell’azione pubblica in campo fiscale, che dovrebbe condurre all’affermazione definitiva della impugnabilità dei dinieghi di autotutela (similmente Costanzo L., L’autotutela tributaria tra motivazione e processo, in Riv. tel. dir. trib., 2021, 1, VI, 188 ss.).

Oggi il problema pare (almeno sulla carta) parzialmente superato in quanto, com’è noto, il riconoscimento dell’impugnabilità del rifiuto è stato inserito nell’elenco di atti impugnabili di cui all’art. 19 D.Lgs. 31 dicembre1992, n. 546; e tuttavia con un’importante distinzione: rispetto all’autotutela obbligatoria potrà essere impugnato anche il rifiuto implicito, grazie all’inserimento di questa fattispecie nell’ambito dell’art. 21 D.Lgs. n. 546/1992, affiancando il diniego di autotutela a quello di rimborso (vedasi Basilavecchia M., Autotutela tributaria sugli atti impositivi tra luci, ombre e nubi dalla giurisprudenza, in IPSOA Quotidiano, 3 febbraio 2024).

Al riguardo, non sono tardate – per vero, da questo angolo visuale, del tutto condivisibili – le critiche; vengono, per così dire, inquinati i delicatissimi equilibri degli artt. 19 e 21, «equiparando, abnormemente l’autotutela a restituzioni o a rimborsi, senza considerare che il giudice tributario, sulla base dei poteri ad esso assegnati dalla Costituzione, nel giudicare sull’istanza di autotutela, può solo disporre o non disporre il ripristino dell’obbligo dell’ente impositore di ripronunciarsi sull’istanza di autotutela, a fronte del rifiuto espresso o tacito dell’istanza stessa, se ritenuto illegittimo, ma non può ripronunciarsi sugli atti impositivi pregressi né, tantomeno, disporre restituzioni o rimborsi di sorta, oltre i limiti che ne connotano la funzione» (così Glendi C., Riforma del contenzioso fiscale: troppe irricevibili escrescenze nel decreto attuativo, in IPSOA Quotidiano 23 dicembre 2023).

Come anticipato sopra, il sindacato esperibile dal giudice tributario andrà limitato al solo controllo della legittimità del diniego – espresso o tacito che sia – e dunque al controllo del corretto esercizio del potere discrezionale da parte dell’Ufficio. Tale illegittimità andrà valutata in relazione alle già menzionate ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere e non alla fondatezza della pretesa (così, ex multis, Cass. nn. 25563/2014, 22253/2015, 25705/2016, 4582/2017, 21146/2018, 24032/2019, 19365/2020, 24652/2021, 7318/2022).

Permane, di converso, il problema per il diniego tacito di autotutela facoltativa.

Pur in mancanza di una previsione espressa in tal senso, la decisione di non provvedere potrebbe essere ritenuta sindacabile. In altri termini, e come si accennava supra, se il non rispondere costituisce il risultato di una valutazione discrezionale deve necessariamente essere sindacabile (similmente Marcheselli A., Accertamenti tributari. Poteri del Fisco. Strategie del difensore, Milano, 2022, 1187).

Sebbene ci si renda conto che questo non sia l’orientamento della giurisprudenza – e verosimilmente non lo sarà neppure in futuro – se si riconosce l’esistenza di un interesse legittimo in capo al contribuente all’inizio del procedimento di riesame e all’adozione di un atto motivato, esso deve essere impugnabile non solo se il diniego è espresso ma anche se è tacito.

Tutt’al più potrebbe riconoscersi la possibilità di impugnare il primo provvedimento successivo, facendo valere il vizio costituito dal mancato esercizio del potere di secondo grado.

A ciò generalmente si obietta che «se l’amministrazione non risponde ad un’istanza di autotutela volta al ritiro di un precedente atto e poi emana un atto successivo autonomamente impugnabile, il comportamento potrebbe essere inteso come rigetto implicito dell’istanza di autotutela del contribuente, sicché l’impugnazione avverso l’atto successivo rischierebbe di scontrarsi con la impossibilità giuridica di dedurre come vizi riflessi quelli direttamente incidenti sull’atto non impugnato di cui si era chiesto il ritiro in autotutela» (Napolitano A., L’autotutela tributaria, in Chindemi D., a cura di, Diritto tributario giurisprudenziale, 2021, 178 ss.). E tuttavia la controbiezione – che coglie nel segno – è data dal fatto che l’atto viziato che contaminerebbe i successivi, non sarebbe l’atto da ritirare in autotutela ma il mancato esercizio del potere di autotutela (così Marcheselli A., Accertamenti tributari. Poteri del Fisco. Strategie del difensore, cit., 1188).

In mancanza della sovraesposta cornice teorica – nella quale non pare inscriversi la giurisprudenza costituzionale – si viene a creare un assetto assai discutibile. L’insieme dei menzionati fattori, costituti dal discrimen tra autotutela obbligatoria e facoltativa, dall’assenza di un obbligo in capo all’Amministrazione finanziaria di dare avvio al procedimento di riesame e dall’insindacabilità del diniego tacito nei casi di autotutela facoltativa, infatti, potrebbe comportare conseguenze assurde come l’insindacabilità di ipotesi discutibilmente non contemplate nell’elencazione di cui all’art. 10-quater. Al riguardo – per ragioni di sinteticità – se ne menzionano solo due che paiono paradigmatiche. In primo luogo, si può pensare all’autotutela necessaria per ripristinare la supremazia del diritto unionale non applicato nel caso concreto. In secondo luogo, viene in rilievo il giudicato penale favorevole al contribuente, non previsto tra i casi di autotutela obbligatoria, ma rispetto al quale la Consulta ha avuto modo di affermare che l’Amministrazione finanziaria, in presenza di un giudicato penale, «deve uniformarsi, in sede di autotutela, nell’adozione dei provvedimenti ivi previsti» (Corte cost., 23 luglio 1997, n. 264).

Un ulteriore – e connesso – effetto distorsivo che si profila all’orizzonte è costituito dai probabili tentativi dei contribuenti di estendere la portata dell’elencazione di cui all’art. 10-quater, trovando verosimilmente un appiglio in tal senso nella lettera e) dello stesso che si riferisce all’errore sul presupposto di imposta.

4. Tra le conseguenze dell’abrogazione della disciplina previgente e dell’esaustiva regolamentazione dell’autotutela tributaria nell’ambito dello Statuto dei diritti del contribuente merita di essere segnalata l’esclusione dalla novella della sospensione amministrativa degli effetti dell’atto.

Più precisamente e in chiave diacronica, nell’alveo dell’autotutela veniva ricondotto dal legislatore anche il potere di sospensione dell’atto impositivo illegittimo, come previsto dai commi 1-bis e seguenti dell’art. 2-quater, L. 30 novembre 1994, n. 656, introdotti dall’art. 27 L. 18 febbraio 1999, n. 28 (la disposizione di cui al comma 1-bis, in particolare, stabiliva che «nel potere di annullamento d’ufficio o di revoca […] deve intendersi compreso anche il potere di disporre la sospensione degli effetti dell’atto che appaia illegittimo o infondato»).

L’abrogazione di tale disciplina costituisce un problema abbastanza significativo ma, tutto sommato, neppur troppo difficilmente superabile in via interpretativa. Il potere di sospensione può, infatti, ritenersi incluso in quello di annullamento; identici sono del resto gli elementi che ne giustificano l’esercizio e l’organo deputato a concederli.

La funzione della sospensione, pertanto, è coerente con quella dell’eventuale annullamento – ed anche in mancanza di una disposizione normativa apposita – può ritenersi in esso necessariamente inclusa.

5. Adottando una visione di insieme e azzardando una – seppur succinta – riflessione di più ampio respiro, in conclusione, l’inserimento della disciplina in commento nell’ambito del nuovo Statuto del contribuente, fa propendere per un’evoluzione dello stesso in un’ottica di rafforzamento delle garanzie del contribuente.

Lo Statuto, in altre parole, da disciplina che prevedeva garanzie distribuite tra le diverse fasi di attuazione del tributo senza legarle con una nozione di procedimento (così Basilavecchia M., Corso di diritto tributario, Torino, 2022, 377) – inteso come “farsi dell’atto” – pare ora assumere un ruolo sempre più simile a quello svolto dalla L. 7 agosto 1990, n. 241 nell’ambito del diritto amministrativo generale, confermando in maniera inequivocabile il proprio ruolo come fondamentale punto di riferimento per la regolamentazione dei procedimenti tributari.

Traguardando la questione da un altro – seppur collegato – angolo visuale, le novità normative complessivamente considerate costituiscono un’evidente sterzata nell’ottica del riconoscimento della rispondenza del procedimento tributario al più ampio genus del procedimento amministrativo generale, spesso rifiutata facendo riferimento al particolarismo tributario.

Al riguardo, l’istituto in commento è paradigmatico in quanto la disciplina dell’autotutela amministrativa contenuta nell’art. 21-nonies L. n. 241/1990 risultava difficilmente applicabile alla materia tributaria. Anche prescindendo, infatti, dalla specifica regolamentazione nell’ambito del D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, la suddetta disposizione della legge sul procedimento amministrativo solo forzatamente poteva essere applicata alla materia tributaria, non foss’altro per il richiamo agli interessi dei destinatari e dei contro-interessati, del tutto inconferenti con la materia de qua (sul punto vedasi Perrone L., La disciplina del procedimento tributario nello Statuto del contribuente, in Rass. trib., 2011, 3, 563).

Nell’ottica di forte osmosi tra materia tributaria e amministrativa generale, si inscrive anche la considerazione di fondo per cui dall’innegabile assenza di discrezionalità nel procedimento tributario di accertamento per quanto concerne la determinazione del tributo non si può far derivare una sopravvalutazione della natura vincolata della funzione impositiva, anche a scapito di quei significativi margini di discrezionalità pur rinvenibili in alcuni peculiari segmenti dell’azione impositiva (così Del Federico L., I rapporti tra lo statuto e la legge generale sull’azione amministrativa, in Rass. trib., 2011, 6, 1393)

Tale contrapposizione tra attività discrezionale ed attività vincolata, che apertamente svaluta il ruolo dell’autoritatività del potere pubblico nella dialettica con il privato, ammettendo funzione, interesse legittimo e provvedimento soltanto in presenza del potere discrezionale, pare, infatti, smentita dal legislatore da un doppio punto di vista. Da un lato, la novella del 2005 ha modificato la L. n. 241/1990 identificando una disciplina unitaria dell’azione amministrativa, incentrata sull’autoritatività, alla quale viene esplicitamente ricondotto tanto il provvedimento discrezionale, quanto quello vincolato. Dall’altro, le novità introdotte nello Statuto dei diritti del contribuente costituiscono, per così dire, nuova linfa per la “procedimentalizzazione” dell’azione impositiva, quale garanzia per il contribuente, immanente all’esercizio di qualsivoglia funzione amministrativa.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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