RECENTISSIME DALLA CASSAZIONE TRIBUTARIA – Cass., sez. trib., 4 gennaio 2024, n. 223 – Buona fede e affidamento, decadenza dal potere di accertamento in caso di perdite fiscali e “plusvalutazione” degli incrementi patrimoniali in una recente sentenza di legittimità

Di Francesco Pedrotti -

Buona fede e affidamento, decadenza dal potere di accertamento in caso di perdite fiscali e “plusvalutazione” degli incrementi patrimoniali in una recente sentenza di legittimità (*)

La massima della Suprema Corte

La sentenza in esame affronta alcune questioni, interessanti sul piano sistematico, di seguito sintetizzate.

La prima questione riguarda l’applicazione delle disposizioni statutarie in tema buona fede e affidamento, le quali sono state ritenute inconferenti dai giudici nel caso vagliato perché esse presupporrebbero un comportamento “attivo” dell’Amministrazione finanziaria, mentre i fatti di causa evidenziavano l’esistenza di una condotta di natura “omissiva”. I giudici hanno poi ritenuto inidoneo l’art. 10, comma 2, L. n. 212/2000 ai fini della disapplicazione anche del tributo.

La seconda questione concerne il termine di decadenza del potere di accertamento in presenza di perdite fiscali prodotte da una società, poi incorporata mediante fusione, in un periodo di imposta antecedente il perfezionamento dell’operazione. In virtù dell’autonomia dei periodi di imposta, la Suprema Corte ha ritenuto legittima la contestazione dell’ammontare delle perdite fiscali prodotte in un dato periodo di imposta (nel caso di specie, il 2006) in un controllo riferito ad un periodo successivo (nel caso di specie, il 2007), senza ravvisare alcuna violazione del diritto di difesa e dell’affidamento.

In ordine al terzo aspetto, i giudici hanno avallato la tesi erariale volta a disconoscere, ai fini dell’art. 172, comma 7, TUIR, l’aumento di patrimonio netto contabile operato dalla summenzionata società incorporata, prima dell’operazione di fusione, ritenendo non provata la sussistenza dei presupposti di natura civilistico-contabile, giustificativi della deroga ai criteri valutativi codicistici adottati dal contribuente, circa la “plusvalutazione” di elementi dell’attivo correlata al predetto incremento patrimoniale.

Il (tentativo di) dialogo

In relazione al primo degli aspetti vagliati dalla Suprema Corte, la tesi dei giudici di legittimità in ordine all’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 10, comma 2, L. n. 212/2000, presta il fianco a una serie di obiezioni.

Il perimetro applicativo della citata disposizione deve essere, infatti, misurato avvalendosi dell’argomento sistematico, e, in particolare, valutandone la portata in combinata con la regola della buona fede oggettiva ricavabile dal comma 1 dell’art. 10, il quale – affinché esplichi piena efficacia e in quanto espressione di un principio immanente nel diritto tributario – sembra legittimare un’estensione dell’ambito applicativo del successivo comma 2 anche ai casi di “inerzia” dei verificatori durante i controlli. Ciò avrebbe consentito, nel caso di specie, di equiparare il comportamento contraddittorio tenuto dall’Agenzia, riconducibile all’omessa contestazione di un illecito in occasione di precedenti controlli, ad una mancata “indicazione in atti” cui fa espresso riferimento la disposizione da ultimo nominata. In ogni caso, pare più difficile sostenere l’applicabilità dell’art. 10, comma 2, L. n. 212/2000, oltre alle sanzioni e agli interessi moratori, anche al maggiore tributo accertato, e ciò non solo per il chiaro tenore letterale della disposizione vigente all’epoca dei fatti, ma anche in ragione della recente disposizione di natura innovativa – introdotta dal D.Lgs. n. 219/2023 nell’art. 10, comma 2, ultimo periodo, dello Statuto del contribuente – limitata ai tributi unionali.

In merito al secondo degli aspetti esaminati dalla Suprema Corte, contrariamente alla tesi espressa dai giudici il diritto temporalmente illimitato di utilizzo delle perdite fiscali (comunque mediato dal limite quantitativo di detto utilizzo) non pare legittimare l’Agenzia a valutare in maniera discrezionale all’interno del predetto lasso temporale, prescindendo dunque dal termine quinquennale di decadenza del potere accertativo, il periodo in cui contestare gli elementi del presupposto relativo al periodo di imposta in cui dette perdite fiscali sono ascrivibili.

Anche nella diversa prospettiva di matrice pubblicistica dell’efficacia dell’azione amministrativa, non è certo necessario attendere l’intero periodo in cui le perdite possono essere utilizzate, prima del loro materiale esaurimento, per stabilire se gli elementi reddituali da cui esse sono scaturite siano stati correttamente qualificati, determinati e imputati a periodo, con ciò riproponendo ingiustificatamente, lungo tutto tale periodo, il sindacato erariale in merito alla correttezza o meno del comportamento tenuto dal contribuente. Da ciò consegue che il potere di accertamento quinquennale dell’Agenzia deve sottostare a un termine di decadenza decorrente dal periodo di imposta in cui la perdita fiscale si è formata, senza che alcun ruolo sia svolto dal diritto, temporalmente illimitato, di riporto a nuovo della perdita medesima. Quest’ultima impostazione, sposata dalla dottrina nettamente maggioritaria (cfr., inter alia, Castaldi L., Intorno al principio di autonomia dei periodi impositivi e ai termini decadenziali di accertamento, in Riv. trim. dir. trib., 2019, 1, 195, ss.; Pedrotti F., Considerazioni intorno alla decadenza dal potere di accertamento in caso di componenti reddituali ad efficacia pluriennale, in Riv. dir. trib., 2021, 2, II, 66 ss. e Contrino A., Sulla lenta “agonia” della decadenza nei tributi diretti e il “colpo di grazia” della sentenza delle SS.UU. n. 8500/2021, in Riv. dir. trib., 2022, 6, I, 653 ss.), è stata seguita anche dal legislatore della Riforma tributaria nell’art. 15, comma 1, lett. g), n. 1), L. n. 111/2023, che, ad oggi, non è stato ancora attuato.

Per quanto concerne la terza e ultima questione affrontata dalla Cassazione, va innanzitutto evidenziato come i giudici non mettano in discussione, sul piano sostanziale, la scelta di bilancio operata dagli amministratori, bensì, ai fini probatori, la mancata indicazione in nota integrativa di bilancio di esaustive ragioni volte a giustificare alcune deroghe ai criteri valutativi delle poste patrimoniali adottate in esercizi precedenti.

Dalla lettura del testo della sentenza si evince, in controluce, il retropensiero dell’organo verificatore, fatto proprio anche dai Supremi giudici: le “plusvalutazioni” sarebbero state essenzialmente volte ad incrementare lo stock di patrimonio netto contabile ante fusione della società incorporata al mero fine di incrementare lo stock delle perdite fiscali trasmissibili alla società incorporante. Da ciò, il sospetto di una violazione, da parte del contribuente, della ratio della disposizione antielusiva specifica di cui all’art. 172, comma 7, TUIR. Ma se così è, si dovrebbe poter affermare che la violazione della ratio di una disposizione tributaria, sia di natura strutturale sia di natura antielusiva, vada contestata mediante l’applicazione della disposizione antielusiva generale, che, all’epoca dei fatti di causa, era rappresentata dall’art. 37-bis D.P.R. n. 600/1973. Un tale errore nella metodologia accertativa, che sembra integrare un vizio motivazionale dell’atto impositivo, può essere annoverato, anche in coerenza con un recente indirizzo giurisprudenziale (Cass. n. 18767/2020), tra i vizi “sul” procedimento di cui all’art. 7-bis, comma 1, L. n. 111/2023, foriero, ancor prima di vagliare l’integrazione o meno degli elementi costitutivi della fattispecie elusiva, di annullabilità in parte qua dell’atto impositivo.

(*) La rubrica – come l’intera Rivista – è aperta a tutti coloro che intendono contribuire al progresso del diritto tributario, in generale, e al miglioramento della sua applicazione, in particolare, nella specie con interventi di commento della giurisprudenza di legittimità dialogici e costruttivi, scevri di polemiche e posizioni partigiane.

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