Ancora incertezze sulla distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti (anche) nella giurisprudenza di merito

Di Federica Campanella -

Abstract

La recente sentenza della Corte di Giustizia tributaria di primo grado di Reggio Emilia n. 6/2024 si è occupata della differenziazione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti; tema su cui si è registrata una recente evoluzione giurisprudenziale, seguita dalle novità normative introdotte in attuazione delle legge delega per la riforma fiscale (L. 9 agosto 2023, n. 111). In particolare, i giudici di merito hanno affrontato la questione concernente l’individuazione del termine decadenziale entro cui l’Ufficio è legittimato a svolgere l’azione finalizzata al disconoscimento della compensazione attuata dal contribuente, ritenendo, in modo assai discutibile, che lo stesso termine, nelle ipotesi in cui si riferisca alla notifica di un avviso di recupero di un credito di imposta non spettante, inizi a decorrere dal momento in cui il credito è stato esposto in dichiarazione e non già dal momento del relativo utilizzo.

Still uncertainties on the distinction between non-existent credits and non-usable credits (even) in a recent judgment of the tax court of justice of Reggio Emilia – The recent ruling of the Tax Court of Justice of Reggio Emilia n. 6/2024 dealt with the differentiation between “non existent credits” and “not usable credits”; a topic on which there has been a recent jurisprudential evolution, followed by the regulatory changes introduced in the implementation of the enabling law for tax reform (Law 9 August 2023, n. 111). In particular, the judges tackled the issue concerning the identification of the limitation period within which the Office is entitled to carry out the action aimed at disavowing the compensation implemented by the taxpayer, stating, in a highly questionable way, that the same period , in the cases in which it refers to the notification of a notice of recovery of an undue tax credit, begins to run from the moment the credit was shown in the tax return and not from the moment of its use.

Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La differenziazione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti nella recente giurisprudenza di legittimità: le sentenze SS.UU., 11 dicembre 2023, nn. 34419 e 34452. – 3. (Segue). Le novità normative introdotte in attuazione della legge delega per la riforma fiscale. – 4. La decisione della Corte di Giustizia tributaria di primo grado di Reggio Emilia. – 5. Considerazioni critiche sulla pronuncia. – 6. Conclusioni.

1. Con la sentenza 8 gennaio 2024, n. 6, la Corte di Giustizia tributaria di primo grado di Reggio Emilia si è pronunciata sulla questione relativa alla differenziazione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti nella prospettiva di individuare il termine decadenziale entro cui l’Ufficio è legittimato a notificare l’atto di recupero del credito di imposta indebitamente o irregolarmente utilizzato in compensazione dal contribuente.

La vicenda riguarda una società per azioni, la quale ha proposto ricorso avverso l’atto emesso dall’Agenzia delle Entrate in relazione al periodo di imposta 2017, concernente il recupero di un credito per “Investimenti in beni strumentali nuovi” ex art. 18 D.L. n. 91/2014, maturato per l’anno 2014, esposto dalla contribuente nel modello di dichiarazione “Unico 2015 – SC” e successivamente utilizzato in tre quote annuali di pari importo nei periodi di imposta 2016, 2017 e 2018.

Nell’atto impugnato, l’Agenzia delle Entrate ha evidenziato che dalla documentazione prodotta emerge che gli oneri accessori, che hanno contribuito alla formazione del credito, sono stati in parte sostenuti anche mesi dopo la data del collaudo. Gli stessi, dunque, non avevano titolo a contribuire alla formazione del credito dichiarato, con la conseguenza che lo stesso andava rideterminato al netto dei suddetti oneri. Una volta quantificato correttamente il credito, la quota utilizzata per ciascun periodo d’imposta è stata, così, opportunamente ridotta e la differenza “recuperata” ai sensi dell’art. 1, comma 421, L. n. 311/2004.

La società contribuente ha contestato la legittimità dell’atto impugnato, deducendo che il recupero del credito di imposta è intervenuto oltre il termine di decadenza di cui all’art. 43 D.P.R. n. 600/1973, non potendo trovare applicazione, nella fattispecie, il maggior termine decadenziale di otto anni di cui all’art. 27, comma 16, D.L. n. 185/2008, in quanto quest’ultima disposizione è applicabile nei soli casi in cui siano contestati «crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241».

La ricorrente ha chiesto, quindi, l’annullamento dell’atto, rilevando altresì, nel merito, che gli oneri accessori contestati dall’Agenzia rientrano, per loro natura e momento di sostenimento, a pieno titolo tra le spese eleggibili al credito investimenti.

L’Agenzia delle Entrate, costituitasi in giudizio, ha sostenuto la legittimità del proprio operato, ritenendo che nella fattispecie, trattandosi di crediti inesistenti, debba trovare applicazione il termine di decadenza di otto anni di cui al summenzionato art. 27, comma 16, D.L. n. 185/2008, il quale inizierebbe a decorrere non già dall’anno in cui il credito è stato dichiarato, bensì dall’anno in cui lo stesso è stato utilizzato.

È evidente che la questione della differenziazione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti assume una rilevanza decisiva, in quanto dalla diversa qualificazione discendono conseguenze affatto diverse sul piano applicativo: laddove il credito utilizzato dalla società contribuente venisse considerato “non spettante”, occorrerebbe verificare l’intervenuta decadenza dell’Ufficio dall’azione di recupero in applicazione del termine decadenziale ordinario di cui all’art. 43 D.P.R. n. 600/1973; diversamente, nel caso in cui il credito venisse qualificato “inesistente”, bisognerebbe applicare il termine decadenziale più ampio di cui all’art. 27, comma 16, D.L. n. 185/2008.

Per affrontare correttamente la questione, è necessario definire preliminarmente la nozione di credito inesistente, differenziandola rispetto alla nozione di credito non spettante, nell’ottica di stabilire a quale delle due categorie concettuali ricondurre il credito vantato dalla contribuente nel caso in esame. In secondo luogo, al fine di verificare la legittimità dell’atto impugnato, occorre chiarire quale sia il regime procedimentale applicabile in relazione alle ipotesi di inesistenza ovvero non spettanza del credito, avendo particolare riguardo all’individuazione del dies a quo del termine previsto a pena di decadenza per l’esercizio dell’azione di recupero dell’Ufficio.

Svolte tali considerazioni sulla rilevanza della differenziazione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti ai fini procedimentali, sarà possibile analizzare e cogliere l’effettiva portata della decisione assunta dai giudici in relazione al caso in esame, da valutare anche alla luce della recente evoluzione della giurisprudenza di legittimità sul tema e delle novità normative introdotte, in attuazione della legge delega per la riforma fiscale (L. 9 agosto 2023, n. 111), dal D.Lgs. 12 febbraio 2024, n. 13.

2. Come è noto, sulla differenziazione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti oggetto di compensazione fiscale sono emersi, negli ultimi anni, contrasti interpretativi nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, risolto dalle Sezioni Unite con due recenti sentenze dell’11 dicembre 2023, nn. 34419 e 34452, le quali, pur identiche nella risoluzione di detto contrasto (nel senso della esistenza di una netta differenziazione tra le due nozioni), si distinguono semplicemente per l’oggetto del giudizio, essendo stata la Corte investita, con il primo, della questione del termine di decadenza per l’accertamento, e, con il secondo, della questione delle sanzioni applicabili nell’una o nell’altra ipotesi.

Nelle predette sentenze, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, dopo aver dato conto degli orientamenti difformi esistenti presso la Sezione tributaria, hanno ritenuto che «la distinzione tra credito inesistente e credito non spettante ha, innanzitutto, carattere strutturale e trae il suo fondamento logico giuridico dal complessivo sistema ordinamentale tributario».

Al riguardo, i giudici della Suprema Corte hanno ripercorso l’evoluzione della normativa sul tema, evidenziando come il progressivo ampliamento dello strumento della compensazione fiscale e il sempre maggiore utilizzo dell’istituto da parte dei contribuenti abbiano determinato l’esigenza per il legislatore di definire apposite misure – sia sul piano procedimentale che sul piano sanzionatorio – per consentire all’Amministrazione di contrastare efficacemente eventuali illeciti in materia.

Si è, così, delineata nel tempo una netta distinzione tra il regime giuridico dei crediti inesistenti e di quelli non spettanti oggetto di compensazione fiscale.

In particolare, per quanto concerne i profili procedimentali, rileva la disposizione di cui all’art. 1, comma 421, L. n. 311/2004, con cui è stata introdotta la possibilità per l’Agenzia delle Entrate di operare «la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241» mediante un «apposito atto di recupero motivato da notificare al contribuente con le modalità previste dall’articolo 60 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973».

Come osservato dai giudici, si tratta di una modalità idealmente più agile e di più lata applicazione, che si aggiunge all’ordinario avviso di accertamento e concorre con quelle del recupero attraverso l’accertamento automatizzato ex artt. 36-bis e 36-ter, D.P.R. n. 600/1973 e 54-bis, D.P.R. n. 633/1972.

Sebbene la suddetta disposizione non preveda una dicotomia tra crediti inesistenti e crediti non spettanti – essendo possibile procedere con il recupero ai sensi dell’art. 1, comma 421, L. n. 311/2004, a prescindere dalla qualificazione del credito come inesistente ovvero non spettante – la distinzione tra le due categorie concettuali assume rilevanza a seguito delle modifiche normative intervenute ad opera del D.L. n. 185/2008, il cui art. 27, comma 16, ha espressamente previsto che «l’atto di cui all’articolo 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo».

Le Sezioni Unite hanno in proposito precisato che l’applicazione di questo ampio termine decadenziale «non concerne qualsiasi indebita compensazione per crediti inesistenti ma solo quelle emergenti dal “controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato”, come esplicitamente prevede il comma 16, con espressione poi ripresa dal successivo comma 17» dell’art. 27 D.L. n. 185/2008. Tale locuzione, in linea con quanto specificato dalla relazione illustrativa al provvedimento legislativo, si riferisce alle ipotesi in cui «dai riscontri sui dati contenuti nei modelli di pagamento unificato relativi alle compensazioni esposte» risultino «crediti d’imposta non esposti, come obbligatoriamente previsto, nelle dichiarazioni presentate, nonché relativi a periodi di formazione per i quali le dichiarazioni risultano omesse, o nei quali l’attività economica esercitata dai contribuenti risulta essere cessata», ossia in esito a verifiche dalle quali emerga «l’inesistenza dei crediti stessi, non essendo, nella maggior parte dei casi, riscontrabili partendo dal controllo delle dichiarazioni fiscali».

Come rilevato dai giudici, «si tratta di ipotesi in cui il credito viene “creato” direttamente con il modello F24 pur in assenza di riscontro documentale od esposizione nella dichiarazione o, ancora, in forza di attività artificiose mediante la creazione di crediti fittizi, ancorché, in questo caso, riportati nelle dichiarazioni. Le condotte rilevanti, dunque, sono quelle caratterizzate da profili abusivi, occulti o fraudolenti, che, in quanto tali, sono rilevabili solamente attraverso riscontri di coerenza contabile del modello di versamento e non meramente cartolari poiché non emergenti dalle dichiarazioni presentate (o da esse falsamente emergenti) o dal mero raffronto con i relativi modelli di versamento. In altri termini, il più severo regime giuridico previsto dall’art. 27, commi 16-20, ha riguardato solo la compensazione di crediti connotati da una condizione di inesistenza qualificata dalla non verificabilità in sede di controllo formale».

Nei restanti casi (in cui, ad esempio, il recupero abbia ad oggetto crediti esistenti ma non spettanti, ovvero crediti inesistenti esposti in dichiarazione e facilmente “intercettabili” in sede di controllo formale) non trova, dunque, applicazione il termine decadenziale di otto anni di cui al citato art. 27, comma 16, D.L. n. 185/2008, bensì il termine di decadenza ordinario previsto dall’art. 43 D.P.R. n. 600/1973, per la notifica del “comune” avviso di accertamento.

I giudici della Suprema Corte hanno, altresì, evidenziato che la differenziazione tra crediti inesistenti e non spettanti abbia nel tempo assunto rilevanza anche ai fini sanzionatori, avendo il legislatore previsto (dapprima nell’art. 27, comma 18, D.L. n. 185/2008, e successivamente nell’art. 13, comma 5, D.Lgs. n. 471/1997, nonché, in ambito penale, nell’art. 10-quater, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000) l’irrogazione di una sanzione più grave per le ipotesi di utilizzo in compensazione di crediti inesistenti rispetto a quella irrogabile per le ipotesi di non spettanza del credito utilizzato in compensazione.

Dal complessivo quadro normativo su esposto, emerge con evidenza l’esistenza di una dicotomia tra credito inesistente e credito non spettante, rilevante ai fini procedimentali e sanzionatori.

Di conseguenza, appare fondamentale definire esattamente le due nozioni, individuandone i caratteri distintivi.

Al riguardo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, richiamando espressamente la definizione di credito inesistente fornita dal legislatore nell’ambito dell’art. 13, comma 5, D.Lgs. n. 471/1997, hanno precisato che la condizione di “inesistenza” del credito si realizza «allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter, d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis, d.P.R. n. 633 del 1972».

Secondo i giudici, la nozione di credito inesistente definita dal legislatore nell’ambito dell’art. 13, comma 5, D.Lgs. n. 471/1997, difatti, non ha una rilevanza limitata ai fini della irrogazione delle sanzioni amministrative tributarie in materia di compensazione fiscale. Essa, invero, assume una portata più generale, rilevando anche ai fini penalistici e procedimentali: «si tratta di esito che, oltre a discendere dal dato letterale delle norme, risponde a criteri di coerenza e di razionalità di sistema e alle finalità, obbiettive, perseguite dal legislatore».

L’applicazione del più severo regime giuridico (sanzionatorio e procedimentale) si giustifica, infatti, solamente in relazione a quelle condotte poste in essere dal contribuente che oggettivamente risultino più gravi e insidiose, in quanto, oltre ad involgere crediti sostanzialmente inesistenti, siano più difficili da accertare.

In questa misura – osservano i giudici – non sarebbe ragionevole prevedere l’applicazione di un termine decadenziale lungo per l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni più gravi in relazione a violazioni dei contribuenti che, pur involgendo l’utilizzo di crediti sostanzialmente inesistenti (perché privi dei presupposti costitutivi), siano agevolmente accertabili dall’Ufficio nell’ambito di un controllo formale della dichiarazione.

Parimenti, non si potrebbe giustificare l’applicazione del più severo regime giuridico nelle ipotesi in cui la violazione del contribuente, pur non riscontrabile nell’ambito di un controllo automatizzato della dichiarazione, involga l’utilizzo di crediti esistenti ma non spettanti in virtù di specifiche limitazioni legislative, atteso che le conseguenze della condotta in termini di danno arrecato alle casse erariali non sarebbero paragonabili a quelle che si determinerebbero nel caso in cui venisse posta in essere una compensazione indebita (mediante l’utilizzo di crediti del tutto inesistenti per mancanza dei presupposti costitutivi).

Sulla base di queste considerazioni, i giudici hanno, così, ritenuto che la definizione di credito inesistente di cui all’art. 13 D.Lgs. n. 471/1997, dovrebbe assumere rilevanza anche ai fini dell’individuazione del termine decadenziale per l’esercizio dell’azione di recupero da parte dell’Amministrazione finanziaria e hanno, al riguardo, affermato il seguente principio di diritto: «In tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, all’azione di accertamento dell’erario si applica il più lungo termine di otto anni, di cui all’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008, quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza – alla luce anche dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 – allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972; ove sussista il primo requisito ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l’attività di accertamento».

3. Sulla questione relativa all’individuazione del termine decadenziale entro cui l’Ufficio è legittimato a notificare l’atto di recupero del credito di imposta indebitamente o irregolarmente utilizzato in compensazione dal contribuente, si intendono segnalare, altresì, le recenti novità normative introdotte in attuazione della legge delega per la riforma fiscale (L. n. 111/2023).

Nonostante l’art. 17 della legge delega – dedicato alla revisione del procedimento accertativo – non contenga un espresso criterio direttivo, l’art. 1 del decreto legislativo di attuazione relativo a tale procedimento (D.Lgs. 12 febbraio 2024, n. 13) interviene con una nuova regolamentazione dell’avviso di recupero del credito d’imposta (sino ad oggi contemplato dall’art. 1, comma 421, L. n. 311/2004), inserendo specificamente l’art. 38-bis nel D.P.R. n. 600/1973. Questa norma, oltre a tipizzare in modo compiuto le caratteristiche del provvedimento impositivo finalizzato al recupero dei crediti non spettanti o inesistenti utilizzati, in tutto o in parte, in compensazione ai sensi dell’art. 17 D.Lgs. n. 241/1997, contiene una precisa indicazione con riguardo ai termini di decadenza da applicare.

Sul punto, si rileva che, prima della sua approvazione in via definitiva, lo schema di tale decreto legislativo prevedeva l’introduzione di un termine decadenziale unico, di otto anni, entro cui notificare al contribuente l’avviso di recupero per la riscossione dei crediti inesistenti o non spettanti utilizzati, in tutto o in parte, in compensazione nel modello di versamento F24.

Tale scelta, operata in sede di predisposizione dello schema di decreto legislativo in materia di procedimento accertativo, poteva essere apprezzata nella misura in cui avrebbe consentito di superare tutte quelle contestazioni in ordine alla intervenuta decadenza dell’Ufficio dall’azione di recupero che negli ultimi anni si sono verificate proprio basandosi sulla differenziazione tra le ipotesi di inesistenza ovvero non spettanza del credito.

Si ponevano, tuttavia, dubbi e perplessità con riferimento alla prevista indiscriminata estensione pro fisco del termine decadenziale di otto anni per l’esercizio dell’azione di recupero alla luce di quella che è la ratio dell’art. 27, comma 16, D.L. n. 185/2008, il quale, come detto, ha introdotto un termine di decadenza più ampio, rispetto a quello ordinario, per il recupero dei crediti inesistenti al fine di consentire all’Ufficio di contrastare più efficacemente quelle condotte del contribuente che risultano davvero più difficili da accertare proprio perché involgono l’utilizzo di crediti inesistenti e presuppongono una componente di fraudolenza.

Nella versione approvata in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 25 gennaio scorso, non viene più prevista un’equiparazione ai fini procedimentali tra le due fattispecie di inesistenza e non spettanza del credito utilizzato in compensazione e, in conformità alle indicazioni fornite dalle Sezioni Unite nelle sentenze dell’11 dicembre 2023, n. 34419 e 33452, viene stabilito che l’atto «emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti non spettanti e inesistenti, di cui all’articolo 13, commi 4 e 5, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, utilizzati, in tutto o in parte, in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere notificato, a pena di decadenza, rispettivamente, entro il 31 dicembre del quinto anno e dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo» (ciò è quanto disposto dal nuovo art. 38-bis D.P.R. n. 600/1973, introdotto ad opera dell’art. 1 D.Lgs. n. 13/2024).

La differenziazione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti, quindi, continuerà ad assumere rilevanza sia ai fini procedimentali che sanzionatori.

In merito alla definizione normativa delle due nozioni occorre, invero, ricordare che si attende un ulteriore intervento del legislatore delegato, il quale, in virtù di quanto previsto dall’art. 20, comma 1, lett. a), punto 5, della legge delega per la riforma fiscale, è chiamato ad «introdurre, in conformità agli orientamenti giurisprudenziali, una più rigorosa distinzione normativa anche sanzionatoria tra le fattispecie di compensazione indebita di crediti di imposta non spettanti e inesistenti».

In questo senso, sarebbe ragionevole aspettarsi l’introduzione di una definizione normativa di credito inesistente e di credito non spettante – rilevante sia ai fini procedimentali, sia ai fini della irrogazione delle sanzioni amministrative e penali per le violazioni in materia di compensazione – che sostanzialmente corrisponda alle definizioni già previste nell’ambito dell’art. 13 D.Lgs. n. 471/1997, in conformità alle indicazioni recentemente fornite dalle Sezioni Unite.

Negli schemi dei decreti di attuazione della legge delega per la riforma fiscale in materia di sanzioni amministrative e penali, approvati in via preliminare dal Consiglio dei Ministri il 21 febbraio scorso, si rinviene, tuttavia, una definizione delle nozioni di “credito inesistente” e di “credito non spettante” del tutto nuova, la quale porrebbe ulteriori questioni interpretative da risolvere, proprio quando i dubbi emersi negli ultimi anni in merito alla individuazione dei confini tra le due categorie concettuali sembravano essersi risolti, anche alla luce delle recenti pronunce delle Sezioni Unite.

In particolare, viene definito “non spettante” il credito «fondato su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità. È non spettante altresì il credito utilizzato in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quello fruito in misura superiore a quella prevista». Si considera, invece, “inesistente” «il credito per il quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo».

Non sarebbe più necessario, così, verificare, ai fini della qualificazione del credito come inesistente, se, in concreto, sussista o meno la possibilità per l’Ufficio di riscontrare tale inesistenza nell’ambito delle procedure di liquidazione e controllo formale delle dichiarazioni, essendo sufficiente accertare la mancanza, in tutto in parte, dei presupposti costitutivi del credito individuati dalla legge.

È bene ribadire, comunque, che si tratta di un testo non ancora approvato in via definitiva ed è possibile che intervengano delle modifiche a seguito del parere rilasciato dalle Commissioni parlamentari competenti, come, del resto, già avvenuto con riferimento allo schema di decreto attuativo in materia di procedimento accertativo. Per il momento, dunque, si rinvia qualsiasi considerazione in merito alla nuova definizione delle nozioni di “credito inesistente” e “credito non spettante” prospettata negli schemi dei decreti di attuazione della riforma in materia di sanzioni e si prosegue l’analisi alla luce della normativa oggi vigente.

4. Ebbene, svolte tali considerazioni preliminari, è possibile analizzare e cogliere l’effettiva portata della decisione assunta dai giudici di merito in relazione alla fattispecie in esame.

Nella sentenza 8 gennaio 2024, n. 6, la Corte di Giustizia tributaria di primo grado di Reggio Emilia ha richiamato espressamente la decisione delle Sezioni Unite dell’11 dicembre 2023, n. 34419, e, applicando alla fattispecie concreta dedotta in giudizio il principio di diritto da esse affermato, è giunta alla conclusione per cui i crediti di imposta utilizzati in compensazione dalla società contribuente «non possono essere qualificati come inesistenti ma al più non spettanti con l’applicazione del termine ordinario di decadenza».

Al riguardo, i giudici hanno osservato che «l’Agenzia non ha dimostrato, come era suo onere, né l’esistenza di una artificiosa rappresentazione, né la carenza dei presupposti di legge, né l’estinzione del credito; in particolare per quanto attiene il momento di sostenimento degli oneri accessori che, per loro natura, incontestabilmente fanno parte del “costo” agevolabile, essendo indispensabili alla messa in opera dell’impianto, va detto che non ha alcuna importanza se il momento del loro sostenimento sia dopo o prima del collaudo essendo unicamente necessaria la presenza, anche per loro, dei requisisti di certezza, competenza, oggettiva determinabilità, qualità non contestate dall’Agenzia». È stato evidenziato, inoltre, che «la supposta inesistenza non è stata riscontrata tramite i controlli formali».

Sul punto, occorre, invero, precisare (come chiarito anche dalle Sezioni Unite) che la condizione del mancato riscontro formale, normativamente richiesta ai fini della qualificazione del credito come “inesistente”, ha un valore oggettivo, sicché non assume rilievo che, materialmente, l’inesistenza del credito sia stata rilevata a seguito di accertamento sostanziale ma solo che, in sede di controllo formale, non sarebbe stato possibile riscontrarne la mancanza, ancorché, in concreto, tale verifica non sia stata operata.

Ebbene, si nota, in proposito, che il credito utilizzato nella fattispecie in esame rientra nell’ambito di quei crediti che, confluendo nel Quadro “RU” del modello dichiarativo, non possono essere contestati nell’ambito di un controllo formale della dichiarazione. Di conseguenza, ai fini della loro qualificazione come crediti inesistenti ai sensi dell’art. 13, comma 5, D.Lgs. n. 471/1997 (e, dunque, anche ai fini dell’applicabilità del termine lungo di decadenza di cui all’art. 27, comma 16, D.L. n. 185/2008) è sufficiente accertare che, in concreto, non sussistano i presupposti costitutivi individuati dalla legge.

Come rilevato dai giudici di merito, nella fattispecie in esame non è dato riscontrare la mancanza dei presupposti costitutivi del credito, il quale non può, pertanto, essere considerato «come “inesistente” ma al più “non spettante”», con la conseguente applicazione del termine ordinario per l’accertamento di cui all’art. 43 D.P.R. n. 600/1973.

Ciò posto, per valutare se effettivamente sia intervenuta la decadenza dell’Ufficio dall’azione di recupero, i giudici hanno affrontato la questione concernente l’individuazione del dies a quo di tale termine decadenziale ordinario.

Nella sentenza viene prospettata, al riguardo, la posizione assunta dall’Agenzia delle Entrate, secondo la quale, pur accogliendo la tesi per cui i crediti contestati siano “non spettanti” e non “inesistenti”, la stessa non sarebbe, comunque, decaduta dal potere di accertamento posto che il termine decadenziale (ordinario) «andrebbe conteggiato dall’anno d’imposta accertato, cioè l’anno 2017». Tale tesi si baserebbe sul principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 8500 del 23 marzo 2021, secondo cui: «In caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale non per l’errato computo del singolo rateo dedotto, ma a causa del fatto generatore e del presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, ex art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente pluriennale è indicato, e non già del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio».

Secondo i giudici di merito, tale principio, sia pur autorevolmente affermato, non appare condivisibile proprio in virtù dell’autonomia di ogni singolo periodo d’imposta – continuamente richiamata nella pronuncia delle Sezioni Unite – la quale, invero, impedisce di condividere le conseguenze che ne trae la Suprema Corte secondo cui «tutte le volte in cui viene riportato in dichiarazione il componente di reddito pluriennale ne vengono al contempo richiamati e riutilizzati tutti i fatti presupposti e gli elementi costitutivi».

In proposito, i giudici di merito hanno rilevato che «se un “fatto”, con conseguenze redditualmente rilevanti, si realizza in un determinato periodo d’imposta è a questo periodo d’imposta che ci si deve rifare, rectius” risalire”, volendone contestare l’an ed il quantum; che, poi, se la norma consente, od obbliga, di spalmarne gli effetti in più periodi d’imposta, questa costituisce un’operazione, meramente, aritmetica,“ vincolata” nell’ammontare; è dunque con riferimento a questo periodo d’imposta che vanno conteggiati i termini decadenziali».

Alla luce di ciò, la CGT primo grado di Reggio Emilia ha affermato che «il termine ordinario decadenziale di quattro anni va correttamente conteggiato, nella fattispecie, dall’anno di presentazione del modello Unico 2015 che scadeva il 31/12/2019 mentre l’atto impugnato risulta notificato il 13/10/2022», accogliendo, così, il ricorso della società contribuente ed annullando, per intervenuta decadenza del potere impositivo, l’atto emesso dall’Agenzia delle Entrate.

5. La sentenza in rassegna presenta indubbi profili di interesse ed offre l’occasione per svolgere alcune considerazioni.

In particolare, per quanto concerne l’individuazione del termine decadenziale entro cui svolgere l’azione finalizzata al disconoscimento della compensazione attuata dal contribuente, è stato rilevato il recente intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali, con le sentenze dell’11 dicembre 2023, nn. 34419 e 34452, hanno precisato che il termine lungo, di otto anni, previsto dall’art. 27, comma 16, D.L. n. 185/2008, per la notifica dell’atto di recupero, si applica nelle sole ipotesi in cui il credito contestato sia “inesistente” (secondo la definizione fornita dal legislatore nell’art. 13, comma 5, D.Lgs. n. 471/1997) e utilizzato in compensazione dal contribuente nel modello di versamento F24. Solo in questi casi, infatti, la condotta posta in essere risulta tanto grave e insidiosa da giustificare l’estensione del termine decadenziale per l’esercizio dell’azione di recupero fino a otto anni. Negli altri casi, occorre applicare il termine di decadenza ordinario previsto dall’art. 43 D.P.R. n. 600/1973, per la notifica del comune avviso di accertamento, sul presupposto che la condotta del contribuente si connoterebbe per scarsa insidiosità.

Il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite nelle predette pronunce è stato applicato dalla Corte di Giustizia tributaria di primo grado di Reggio Emilia nella sentenza in commento per giungere alla conclusione secondo cui, nella fattispecie concreta dedotta in giudizio, l’intervenuta decadenza dell’Ufficio dal potere di accertamento andrebbe valutata in applicazione del termine decadenziale ordinario di cui all’art. 43 D.P.R. n. 600/1973, posto che il credito contestato alla contribuente dev’essere qualificato come “non spettante”, e non già come “inesistente”.

Al fine di individuare il dies a quo del termine decadenziale ordinario, tuttavia, i giudici hanno richiamato un precedente giurisprudenziale che, invero, non risulta conferente.

Nella sentenza n. 8500/2021, le Sezioni Unite si erano, infatti, pronunciate in merito alla possibilità per l’Ufficio di contestare un costo pluriennale o una quota di ammortamento oltre il termine per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo di imposta di concreto sostenimento della spesa. E, sconfessando la tesi restrittiva sostenuta dai giudici della Suprema Corte nelle sentenze n. 9993/2018 e n. 2899/2019, avevano affermato la piena rettificabilità delle dichiarazioni di periodo, per ragioni attinenti sia al calcolo matematico di ripartizione dell’onere, sia all’esistenza ab origine dei presupposti di deducibilità (per un commento a tale pronuncia, cfr. Ingrao G., Prime osservazioni su oneri pluriennali e accertamento dei ratei annuali: le Sezioni Unite superano gli equivoci causati dalle sentenze del 2018 e del 2019, ma ne creano di nuovi, in Riv. dir. trib., 2021, 3, 130 ss.; Contrino A., Sulla lenta “agonia” della decadenza nei tributi diretti e il “colpo di grazia” della sentenza delle SS.UU. n. 8500/2021, in Riv. dir. trib., 2022, 6, 653 ss.; Castaldi L., Cass. S.U., 25 marzo 2021, n. 8500 e fattispecie reddituali a efficacia pluriennale. Sulla rilevanza del valore della stabilità dei rapporti e del consolidamento delle fattispecie impositive in materia tributaria, in Giustizia insieme.it, 31 maggio 2021).

Nel caso di specie, invece, si tratta di stabilire quale sia il dies a quo del termine decadenziale per la contestazione di crediti di imposta che, in base alle previsioni legislative, possono essere utilizzati in compensazione dal contribuente in quote annuali.

Sebbene il giudice di merito, nel richiamare la sentenza delle Sezioni Unite n. 8500/2021, abbia, comunque, ritenuto di non applicare nella fattispecie concreta il principio di diritto ivi affermato in quanto considerato non condivisibile, lo stesso giudice è poi giunto alla conclusione per cui il termine di decadenza ordinario per la contestazione del credito non spettante vantato dalla contribuente dovrebbe decorrere dalla data di presentazione del modello dichiarativo ove risulta esposto il credito contestato, e non già dal momento in cui lo stesso credito è stato utilizzato in compensazione.

Al riguardo, occorre osservare che una simile interpretazione giurisprudenziale potrebbe in concreto condurre a conseguenze inaccettabili, atteso che il contribuente avrebbe la possibilità di sottrarsi ad eventuali contestazioni da parte dell’Ufficio semplicemente esponendo nel Quadro “RU” del modello dichiarativo un credito di imposta oggettivamente inesistente (il quale, non confluendo nel Quadro “RN”, non potrebbe essere riscontrato nell’ambito delle ordinarie procedure di controllo formale della dichiarazione) per poi utilizzarlo in compensazione nel modello di versamento F24 soltanto dopo che siano decorsi i termini decadenziali per l’esercizio dell’azione di recupero.

Per questa ragione, è da ritenere che il termine di decadenza entro cui è possibile contestare l’inesistenza ovvero la non spettanza del credito utilizzato in compensazione dal contribuente inizi sempre a decorrere dal momento del relativo utilizzo, in linea, peraltro, con quanto espressamente previsto dal legislatore con riferimento al termine decadenziale lungo di cui all’art. 27, comma 16, D.L. n. 185/2008, nonché, a seguito delle modifiche normative intervenute in attuazione della riforma fiscale, nell’ambito del nuovo art. 38-bis D.P.R. n. 600/1973.

In questo senso, rilevano anche alcune pronunce della Suprema Corte di Cassazione, secondo cui, in caso di contestazione di crediti non spettanti, l’avviso di recupero deve essere notificato dall’Ufficio entro il termine ordinario previsto per il comune avviso di accertamento, con la precisazione, tuttavia, che, nell’applicazione di tale termine decadenziale, bisogna riferirsi non all’anno di presentazione della dichiarazione, bensì a quello di effettivo utilizzo del credito di imposta (Cass., 21 febbraio 2018, n. 4153; Cass., 22 luglio 2016, n. 15186).

Occorre, comunque, osservare che tali considerazioni si basano sull’assunto per cui i crediti contestati alla contribuente siano qualificabili “non spettanti”.

Invero, da un esame più attento della sentenza in commento, emergono alcuni aspetti critici in relazione ai quali si ritiene opportuno svolgere delle specifiche e ulteriori riflessioni.

Innanzitutto, non è chiaro perché i giudici siano giunti a considerare “non spettante” il credito utilizzato in compensazione dalla società contribuente, atteso che, nella motivazione della sentenza, gli stessi giudici hanno osservato che «l’Agenzia non ha dimostrato, come era suo onere, né l’esistenza di una artificiosa rappresentazione, né la carenza dei presupposti di legge, né l’estinzione del credito» e «per quanto concerne il momento di sostenimento degli oneri accessori, che, per loro natura, incontestabilmente fanno parte del “costo” agevolabile, essendo indispensabili alla messa in opera dell’impianto» hanno affermato che «non ha alcuna importanza se il momento del loro sostenimento sia dopo o prima del collaudo essendo unicamente necessaria la presenza, anche per loro, dei requisisti di certezza, competenza, oggettiva determinabilità, qualità non contestate dall’Agenzia».

Da tali affermazioni sembra, dunque, che i giudici riconoscano (non solo l’esistenza ma addirittura) la piena spettanza del credito vantato dalla società contribuente. In effetti, occorre rilevare che, dalla lettura della sentenza in commento, non appaiono riscontrabili ulteriori irregolarità nell’utilizzo in compensazione del credito rispetto a quanto contestato dall’Agenzia delle Entrate: il credito è, infatti, regolarmente maturato per un investimento di importo superiore a 10.000 euro effettuato nel 2014, è stato esposto in dichiarazione dalla società contribuente nel 2015 e utilizzato in compensazione in quote annuali di pari importo nel modello di versamento F24 a partire dal secondo periodo di imposta successivo a quello di effettuazione dell’investimento (e, precisamente, negli anni 2016, 2017 e 2018), come espressamente richiesto dalla legge istitutiva del credito.

In ogni caso, pare potersi escludere la possibile qualificazione del credito utilizzato in compensazione dalla contribuente come “credito inesistente” per il solo fatto che una parte degli oneri accessori connessi all’investimento siano stati sostenuti dopo il collaudo, non essendo questo un adempimento normativamente prescritto a titolo costitutivo del credito. Ai sensi dell’art. 18 D.L. n. 91/2014, infatti, ciò che rileva sul piano temporale è che gli investimenti siano stati effettuati dal 25 giugno 2014 (data di entrata in vigore della norma) al 30 giungo 2015, non risultando determinante l’individuazione del momento di sostenimento degli oneri accessori connessi all’investimento rispetto alla data del collaudo.

Sul punto, si potrebbe anche tener conto di alcune precisazioni contenute nella circ. n. 44/E/2009, cui espressamente rinvia, per quanto concerne le modalità di effettuazione dell’investimento, la circ. n. 5/E/2015, relativa al credito di imposta per investimenti in beni strumentali nuovi, secondo cui «Il valore degli investimenti […] deve essere determinato secondo i criteri ordinari per l’individuazione del costo dei beni rilevante ai fini fiscali previsti dall’articolo 110, comma 1, lettere a) e b) del TUIR, indipendentemente dalle modalità (ordinarie, forfetarie, sostitutive) di determinazione del reddito da parte del contribuente. […] Ai sensi del citato articolo 110, comma 1, lett. b) del TUIR il valore degli investimenti comprende “anche gli oneri accessori di diretta imputazione” che l’impresa deve sostenere affinché il bene possa essere utilizzato (ad es. spese di trasporto, installazione, ecc.). […] Gli oneri relativi alle prestazioni di servizi direttamente connesse alla realizzazione dell’investimento, non compresi nel costo di acquisto del bene, rilevano ai fini della determinazione dell’investimento stesso e si considerano sostenuti alla data in cui esse sono ultimate».

Sulla base di tale interpretazione, si potrebbero, dunque, ritenere esistenti i crediti connessi ad oneri accessori sostenuti in un momento successivo rispetto alla data del collaudo (addirittura, nel periodo di imposta successivo rispetto a quello rientrante nell’agevolazione) purché si tratti di oneri relativi a prestazioni ultimate nel periodo di imposta agevolabile.

Al di là della possibile qualificazione del credito come inesistente, non spettante ovvero pienamente spettante, la decisione assunta dai giudici di merito in relazione al caso in esame non appare, comunque, condivisibile nella misura in cui gli stessi giudici hanno precisato che «il termine decadenziale di quattro anni» di cui all’art. 43 D.P.R. n. 600/1973, «va correttamente conteggiato, nella fattispecie, dall’anno di presentazione del modello Unico 2015 che scadeva il 31/12/2019 mentre l’atto impugnato risulta notificato il 13/10/2022».

Come già osservato, infatti, è da ritenere che il termine di decadenza di cui al citato art. 43, nelle ipotesi in cui si riferisca alla notifica di un avviso di recupero di un credito di imposta, inizi a decorrere dal momento del relativo utilizzo (in coerenza, peraltro, con la normativa oggi in vigore) e non già dal momento in cui lo stesso credito risulta esposto in dichiarazione.

Si segnala, ancora, che i giudici hanno erroneamente ritenuto che il suddetto termine decadenziale di cui all’art. 43 D.P.R. n. 600/1973, da applicare nella fattispecie, sia quadriennale, non tenendo conto delle modifiche apportate a tale disposizione ad opera dell’art. 1, comma 131, L. n. 208/2015, in virtù delle quali gli avvisi relativi al periodo d’imposta in corso alla data del 31 dicembre 2016 e ai periodi successivi «devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione».

Alla luce di ciò – ribadendo, ancora una volta che, nel caso in cui la notifica riguardi un avviso di recupero di un credito di imposta, tale termine decadenziale ordinario non decorre dalla data di presentazione della dichiarazione, bensì dalla data di utilizzo del credito – è evidente che i giudici, avendo qualificato “non spettante” il credito contestato alla società, avrebbero dovuto riconoscere la legittimità della pretesa avanzata dall’Amministrazione finanziaria: dalla lettura della sentenza risulta, infatti, che il credito contestato è stato utilizzato in compensazione dalla contribuente negli anni 2016, 2017 e 2018, e l’atto emesso dall’Agenzia per l’anno 2017 è stato notificato il 31 ottobre 2022. Il termine quinquennale di decadenza sarebbe, così, decorso il 31 dicembre 2022 per la contestazione del credito utilizzato nel 2017 e, di conseguenza, la pretesa vantata dall’Ufficio nei confronti della società contribuente risulterebbe, per questo aspetto, legittima.

6. In conclusione si rileva che i giudici avrebbero potuto compiere uno sforzo ulteriore nel valutare il merito della questione sottoposta al loro esame, verificando se gli oneri accessori contestati dall’Agenzia delle Entrate rientrassero effettivamente tra le spese eleggibili al credito investimenti, nonostante fossero stati sostenuti dopo il collaudo.

Non è da escludere, infatti, alla luce delle considerazioni sopra esposte, che la contribuente avesse pieno diritto al credito e che, quindi, la compensazione posta in essere fosse del tutto legittima. L’accoglimento del ricorso della società contribuente avrebbe dovuto, pertanto, essere motivato dai giudici in relazione a questo aspetto piuttosto che alla questione dei termini decadenziali applicabili nella fattispecie. Sul punto, è stato infatti rilevato che la decisione dei giudici, per come argomentata, presta il fianco a critiche evidenti.

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