La presunzione di onestà in materia tributaria

Di Paolo Piantavigna -

Abstract (*)

Il presente contributo mira ad analizzare la presunzione di onestà in materia tributaria, individuandone i limiti, al fine di prospettare una valutazione in ordine alle possibili conseguenze della sua eventuale implementazione nel sistema fiscale italiano.

Presumption of honesty in tax matters – The present paper aims to analyse the presumption of honesty in tax matters, identifying its limits, in order to evaluate the possible consequences of its potential implementation in the Italian tax system.

Sommario: 1. Premessa. – 2. Analisi della presunzione di onestà. – 3. I limiti della formulazione della presunzione di onestà. – 4. Gli effetti della presunzione di onestà nel nostro sistema fiscale.

1. Fra gli “Orientamenti per un modello di Codice europeo del contribuente” pubblicati dalla Commissione europea il 24 novembre 2016 è stata introdotta nell’ambito dei principi generali una presunzione di onestà (al par. 3.1.3), del seguente tenore:

«I contribuenti possono attendersi:

  • di essere considerati onesti,

  • a meno che sussistano validi motivi per ritenere diversamente;

  • anche se le amministrazioni fiscali possono controllare le questioni fiscali dei contribuenti, effettuare accertamenti o procedere a verifiche.

Le amministrazioni fiscali si attendono:

  • che i contribuenti adempiano onestamente le proprie responsabilità fiscali;

  • che i contribuenti siano onesti e sinceri nei rapporti con le amministrazioni stesse;

  • che i contribuenti forniscano informazioni veritiere, complete e affidabili quando esse vengono loro richieste in base alla legge;

  • che i contribuenti comunichino loro spontaneamente e senza indugio eventuali variazioni di circostanze rilevanti che possono avere effetti sugli obblighi fiscali;

  • che i contribuenti paghino quanto dovuto e rivendichino soltanto ciò cui hanno diritto».

Di seguito, dopo una breve analisi della presunzione (sub 2.), verranno individuati i limiti della sua formulazione (sub 3.), per prospettare, infine, una valutazione in ordine alle possibili conseguenze della sua eventuale implementazione nel nostro sistema fiscale (sub 4.).

2. La codificazione della presunzione di onestà solleva (almeno) due questioni: la prima attiene al significato da attribuire al termine “onestà”; la seconda riguarda l’espressione “possono attendersi di”.

Essendo la presunzione di onestà nelle democrazie liberali il presupposto logico e, in un certo senso, la sintesi di tutte le garanzie poste a tutela dell’individuo nei confronti della Pubblica Autorità, la sua codificazione può considerarsi ultronea. Tuttavia, riconoscimenti espliciti dell’onestà (presunta) del contribuente/cittadino si rinvengono nell’esperienza giuridica del Regno Unito (ove la presunzione acquista la dimensione del diritto del contribuente ad essere considerato onesto) e di Paesi come Australia, Canada, Corea e Stati Uniti (ove al contribuente è attribuito il diritto di agire in giudizio se viene trattato come se fosse presuntivamente disonesto).

Con riguardo al termine “onestà”, a parere di chi scrive, il riferimento in un testo giuridico ad una qualità morale suscita perplessità: l’onestà è un attributo dell’essenza dell’individuo (e, in quanto tale, riferibile solo alle persone fisiche), di colui che è convinto di agire correttamente, secondo le regole.

Tuttavia, dalla lettura integrale degli Orientamenti per un modello di Codice europeo emerge come l’“onestà” debba essere riferita non tanto all’essenza, quanto alla condotta del soggetto, perché in modo esplicito si afferma che le «[l]e amministrazioni fiscali si attendono che i contribuenti adempiano onestamente le proprie responsabilità fiscali» [enfasi aggiunta] e che «i contribuenti siano onesti e sinceri nei rapporti con le amministrazioni stesse», che reso in modo più perspicuo dovrebbe essere: “che i contribuenti si comportino nei confronti delle amministrazioni in modo onesto e sincero”.

Il contribuente, quindi, è degno di fiducia, in quanto si presume che si comporti in conformità ad un canone morale ritenuto universalmente valido e agisca in modo schietto e diretto nell’affermare ciò che pensa e osserva. Con questo significato, si può intendere il riferimento all’“onestà contenuto nelle disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti fra Fisco e contribuente, che ha introdotto fra i doveri dei contribuenti che aderiscono al regime di cooperative compliance l’impegno di promuovere «una cultura aziendale improntata a principi di onestà, correttezza e rispetto della normativa tributaria» (art. 5, comma 2, lett. d), D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128).

La presunzione di fonte unionale non esprime il giudizio conclusivo di una ricognizione della realtà: non afferma che tutti i contribuenti “sono onesti, fino a prova contraria”, ma formalizza una prescrizione, secondo cui i contribuenti “possono attendersi” di essere considerati “onesti”. La presunzione, più che un diritto, un interesse o un potere, delinea un canone di comportamento per i soggetti pubblici che hanno a che fare coi contribuenti.

La portata di tale canone emerge dal diverso tenore delle due diverse espressioni utilizzate negli Orientamenti per un modello di Codice: da un lato, «[i] contribuenti possono attendersi [“can expect”] di essere considerati onesti» [enfasi aggiunta], dall’altro lato, «[l]e amministrazioni fiscali si attendono [“will expect”]: che i contribuenti adempiano onestamente le proprie responsabilità fiscali; che i contribuenti siano onesti e sinceri nei rapporti con le amministrazioni stesse» [enfasi aggiunta]. La presunzione, pertanto, introduce una regola di gestione dei dati trasmessi: l’Amministrazione finanziaria deve trattare come attendibile e presumere (fino a prova contraria) come corretto ciò che viene comunicato dal contribuente.

3. La regola di gestione dei dati trasmessi sarebbe stata più precettiva se gli Orientamenti per un modello di Codice, anziché una presunzione in positivo, avessero introdotto un divieto di presunzione contraria, del tipo “i contribuenti non possono essere considerati disonesti o evasori”, analogamente a quanto prevede la presunzione di non colpevolezza (che non è presunzione di innocenza) codificata nella nostra Costituzione, all’art. 27, a mente del quale «[l]’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» [enfasi aggiunta]. Tale presunzione contraria riflette una concezione prettamente normativa: la presunzione va considerata alla stregua di un divieto che il potere pubblico pone a se stesso di trattare come meritevole di pena un soggetto imputato, pur gravato da prove evidenti.

La presunzione di onestà di fonte unionale non è stata formulata come divieto di presunzione contraria perché – a ben vedere – non si è inteso codificare un principio universale (diversamente da quanto avvenuto nella Costituzione). Infatti, la stesura degli Orientamenti per un modello di Codice non nasce dalla stessa esigenza che ha portato all’introduzione del nostro Statuto dei diritti del contribuente: se la L. 27 luglio 2000, n. 212, è una legge generale che, nel ribadire i principi di logica e certezza giuridica del sistema tributario, è stata emanata con l’obiettivo di guidare la produzione legislativa in materia fiscale e di ridurre le aree di discrezionalità dell’Amministrazione finanziaria nel procedimento amministrativo di imposizione, l’idea del Codice europeo nasce nell’ambito del Piano d’azione europeo del 2012 (COM(2012) 722 final del 6 dicembre 2012), «per rafforzare la lotta alla frode fiscale e all’evasione fiscale» (par. 2.2), con l’espresso fine di raccogliere le buone pratiche amministrative degli Stati membri per «migliorare l’adempimento degli obblighi fiscali» (par. 3). È in questa prospettiva funzionale che va letta la presunzione di onestà.

Infatti, negli Orientamenti per un modello di Codice vengono sempre contrapposte le posizioni dei contribuenti, da un lato, e delle Amministrazioni finanziarie, dall’altro (i.e. «[i] contribuenti possono attendersi», mente «[l]e amministrazioni fiscali si attendono»). Questa visione contrapposta assume, invece, nello Statuto la connotazione – più moderna – di un “rapporto”: secondo l’art. 10 dello Statuto, «[i] rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede» [enfasi aggiunta].

La buona fede codificata nello Statuto dei diritti del contribuente ha una valenza biunivoca, poiché deve ispirare sia la condotta del contribuente che dell’Amministrazione finanziaria, proprio perché informa il loro rapporto, mentre la presunzione di onestà riguarda passivamente l’aspettativa pretensiva del contribuente di “essere considerato” onesto dall’Amministrazione finanziaria.

Tale aspettativa, a parere di chi scrive, è propria di una concezione paternalistica, assimilabile all’aspettativa del contribuente “affidabile” di accedere al premio che il nostro sistema riserva ai contribuenti che si mostrano come più onesti di altri in ragione degli indici sintetici di affidabilità fiscale. La buona fede è, invece, una regola di fair play, di correttezza, che implica un atteggiamento attivo anche da parte del contribuente, che è nel patto di fiducia reciproca con la Pubblica Amministrazione della propria Comunità di appartenenza.

Per tali ragioni, la presunzione di onestà di matrice unionale non è assimilabile alla clausola di buona fede introdotta nel nostro ordinamento con 16 anni di anticipo rispetto al tentativo di codificazione europeo.

L’idea stessa della “presunzione di onestà” risulta sviante: se si deve presumere l’onestà del contribuente, chiede il buon senso, perché dovrebbe essere oggetto di accertamento la sua posizione fiscale? Se il contribuente è considerato onesto, la Pubblica Autorità dovrebbe disinteressarsi della sua situazione, esattamente come si disinteressa dei soggetti che non hanno commesso alcun reato e a carico dei quali non esiste alcun elemento che giustifichi la formulazione di ipotesi accusatorie.

Qualora, pertanto, l’“onestà” venisse intesa nel suo contenuto pieno, la presunzione precluderebbe forme di controllo previste, invece, sempre come obbligatorie (anche) nel nostro ordinamento (e.g., il controllo ex art. 36-bis D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600).

Questo tema è avvertito anche nel Codice europeo, laddove si precisa che «[i] contribuenti possono attendersi di essere considerati onesti […] anche se le amministrazioni fiscali possono controllare le questioni fiscali dei contribuenti, effettuare accertamenti o procedere a verifiche” [enfasi aggiunta]. Evidentemente, la presunzione non interferisce col diritto dell’Ente impositore di tassare, né col potere dell’Amministrazione finanziaria di effettuare controlli sulla posizione fiscale dei contribuenti.

Occorre, allora, verificare l’applicazione della categoria dell’onestà nell’ambito del procedimento di accertamento.

Innanzitutto, l’onestà non si rivela applicabile durante la fase del controllo: nel corso del procedimento di accertamento non è nota la condizione del contribuente (se onesto o disonesto), poiché l’infedeltà (o inesattezza) dei dati trasmessi con la dichiarazione emerge solo al termine dell’attività di controllo.

Inoltre, va osservato che molte (se non tutte) le operazioni che il contribuente è chiamato a compiere per qualificare e quantificare il reddito prodotto, ai fini dell’autoliquidazione del tributo, sono l’effetto di una valutazione. Certamente, ci possono essere approcci valutativi (e interpretativi) più spinti di altri, ma se il contribuente non si conforma all’approccio prospettato come corretto dall’Amministrazione finanziaria (o dalla giurisprudenza), difficilmente si può ritenere che egli abbia agito in modo disonesto.

Inoltre, la logica onestà/disonestà non si rivela applicabile con riferimento ai tanti istituti deflattivi sulla base dei quali l’applicazione del tributo non riposa sull’accertamento della responsabilità fiscale, ma sulla volontà conforme espressa dalle parti, ossia non su di un sapere dell’Amministrazione finanziaria, bensì su di un potere esercitato (anche) dal contribuente al quale, pur avendo agito in modo disonesto, è riconosciuta dall’ordinamento la possibilità di co-determinare la pretesa tributaria.

Si potrebbe considerare la definitività dell’accertamento la condizione al cui verificarsi si sostituisce alla presunzione di onestà quella di disonestà, poiché è solo in tale momento che si forma la certezza giuridica in merito al comportamento non onesto tenuto dal destinatario dell’atto impositivo. In tale scenario, se in una prospettiva ontologica la qualifica del contribuente può essere duplice (i.e. il contribuente onesto e il contribuente disonesto), in una prospettiva epistemologica si determina la seguente triplice situazione:

(i) il presunto onesto, ossia il contribuente a carico della quale nulla è stato acquisito dall’Amministrazione accertatrice (onesto o disonesto che egli sia);

(ii) il presunto disonesto, ossia il contribuente destinatario di un accertamento divenuto definitivo (onesto o disonesto che egli sia) e

(iii) la persona la cui disonestà è ignota, il presunto non disonesto, ossia il soggetto passivo a carico del quale qualcosa è stato acquisito, ma la cui responsabilità fiscale non è stata ancora accertata con un avviso di accertamento divenuto definitivo.

A prescindere da queste classificazioni che si possono concepire sulla base della categoria morale accolta negli Orientamenti per un modello di Codice, a parere di chi scrive la presunzione di onestà, così formulata, resta una formula di principio poco significativa, poiché non centra quello che dovrebbe essere il noyau dur dell’esigenza di fondo dei rapporti fra Amministrazione finanziaria (garante della tutela dell’interesse fiscale) e contribuenti (titolari di diritti proprietari), di cui si dovrebbe occupare un Codice, ossia la delimitazione garantista dei poteri e dei mezzi di accertamento.

Parafrasando Kelsen, la formulazione corretta della regola di diritto non è “se un soggetto ha evaso, l’Autorità deve applicare una sanzione”, ma dovrebbe essere: “se l’Autorità competente ha accertato nelle dovute forme che un soggetto ha evaso, l’Autorità deve applicare una sanzione nei confronti di tale soggetto”. Solamente in quest’ultima proposizione è enucleata una tutela per i contribuenti. Una tutela per la quale non appare necessaria la presunzione di onestà, poiché è sufficiente la regola di riparto dell’onere della prova, che in giudizio vede sempre l’Amministrazione finanziaria nella veste di attore in senso sostanziale.

L’Amministrazione finanziaria può (anzi, deve) controllare tutti i contribuenti (presunti onesti o meno) e, se ha indizi di evasione, canalizzare le sue risorse per corroborare l’indizio raccolto o smentirlo, dovendo sempre giustificare l’esercizio del suo potere e provare “in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”, come ribadisce la regola introdotta dall’art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Valorizzando la regola di riparto dell’onere della prova, si potrebbe inoltre ipotizzare un’ulteriore tutela, in base alla quale, fino a quando l’accertamento è non divenuto definitivo, in assenza di specifiche esigenze cautelari (di salvaguardia del credito tributario), è esclusa la riscossione frazionata (perlomeno delle sanzioni). Infatti, l’anticipazione delle conseguenze della riscossione degli atti impositivi non definitivi non deriva da una mancata valorizzazione della presunzione di onestà, quanto dalla presunzione di legittimità degli atti emessi dall’Amministrazione finanziaria che, nonostante gli interventi della Corte di Cassazione a partire dal 1979, non risulta ancora pienamente superata nel nostro sistema.

4. Poiché, come sosteneva Dewey, il criterio di valutazione del diritto si trova nelle conseguenze e nella funzione che esso esplica nella società, è necessario interrogarsi sull’impatto che la presunzione di onestà dovrebbe spiegare nel nostro sistema, a prescindere dalla natura non giuridicamente vincolante degli Orientamenti per un modello di Codice europeo.

Evidentemente, la presunzione di onestà dovrebbe confliggere con le presunzioni di segno contrario disseminate nel nostro sistema.

La verifica, tuttavia, deve essere più approfondita.

La presunzione di matrice unionale non è idonea ad incidere sulle presunzioni legali, che – come eccezione – invertono l’ordinaria regola di riparto dell’onere probatorio, addossandolo sul contribuente e che – in quanto tali – indirettamente confermano il principio secondo cui l’onere di prova grava di regola sull’Amministrazione finanziaria.

Le presunzioni legali, sulla base delle quali il contribuente è fisiologicamente considerato come evasore o disonesto dal sistema, pur essendo (tendenzialmente) relative, implicano spesso un contenuto di prova contraria particolarmente difficile da soddisfare per il soggetto passivo. Ad esempio, nel caso della presunzione di residenza fiscale ai fini delle imposte sui redditi, di cui all’art. 2, comma 2-bis, del Testo Unico 22 dicembre 1986, n. 917, i cittadini che hanno trasferito la residenza fiscale in Paesi a fiscalità privilegiata sono tenuti a dimostrare – in negativo e in modo quasi diabolico – di non aver più alcun collegamento rilevante con il territorio dello Stato italiano (finanche provando l’assenza di affari economici e interessi morali in Italia).

Poiché la presunzione di onestà di matrice unionale non costituisce un principio di valore o una regola di giudizio, ma riguarda solamente la considerazione che il contribuente riceve dall’Amministrazione finanziaria, nessun effetto può spiegare rispetto alle presunzioni di fonte legale.

Del resto, l’introduzione delle presunzioni legali non può essere fatta discendere da una supposta presunzione di disonestà che il nostro legislatore coltiverebbe nei confronti dei consociati, quanto – piuttosto – dall’esigenza di fronteggiare particolari situazioni di asimmetria informativa (a danno del Fisco) in ordine ai fatti indice di capacità contributiva imputabili al contribuente. Riprendendo l’esempio appena proposto, il nostro ordinamento non considera certamente come disonesto il cittadino che sposta la sua residenza fiscale in un Paese a bassa fiscalità: è solamente (e banalmente) più difficile per l’Amministrazione finanziaria accertarsi che quel trasferimento non sia fittizio.

La presunzione di onestà non può spiegare alcun effetto neppure rispetto alle presunzioni semplici. Le presunzioni semplici sono, infatti, dei meri mezzi di prova, ossia degli strumenti di convincimento rimessi al prudente apprezzamento, caso per caso, del giudice.

Il fatto che tali strumenti siano in Diritto tributario talora espressamente ammessi, consentendo all’Amministrazione finanziaria (e al giudice) di convincersi attraverso ragionamenti induttivi, non impone ovviamente di ritenere sussistenti i fatti presunti. Pertanto, qualora l’Amministrazione finanziaria ponga a fondamento della sua pretesa impositiva una prova presuntiva, sul contribuente non scatta alcun onere di prova contraria. La difesa del destinatario dell’avviso di accertamento può, infatti, validamente appuntarsi sull’inattendibilità, illogicità o implausibilità del ragionamento inferenziale fatto proprio dall’Amministrazione finanziaria, senza la necessità di fornire prove contrarie.

Se, quindi, non si confondono le presunzioni semplici con il meccanismo di inversione dell’onere della prova (tipico delle presunzioni legali), non serve ricorrere alla presunzione di onestà per contestare la pretesa accertativa, poiché basta difendersi dalla presunzione semplice.

Infine, vi è un terzo tipo di presunzioni da considerare, ossia le presunzioni di fonte giurisprudenziale, che riguardano i casi in cui il contribuente è considerato come evasore e disonesto non dal legislatore (mediante presunzioni legali), né dall’Amministrazione finanziaria (attraverso presunzioni semplici), bensì sulla base della prassi di fonte pretoria. Ci si riferisce a quegli orientamenti della Corte di Cassazione che, a causa di massimazioni improprie di sentenze su temi di fatto, hanno finito con l’introdurre nel nostro sistema delle regole sostanziali che non trovano appiglio nel diritto positivo.

Un primo esempio è rappresentato dalla nota fattispecie della distribuzione di utili occulti nelle società a ristretta base azionaria. Invece che appurare, caso per caso, se il socio abbia effettivamente beneficiato di una distribuzione occulta di utili, decisioni relative a specifici temi di prova vengono assunte come astratte formulazioni di principio. La ricorrenza diventa regola, introducendo un regime di trasparenza degli utili delle società di capitali privo di fondamento normativo.

Un secondo esempio è quello che riguarda l’accertamento della buona fede dell’acquirente ai fini dell’esercizio del diritto di detrazione IVA, nei casi di operazioni inesistenti. In tali ipotesi, l’accertamento dell’esistenza di una frode carosello a monte della catena di acquisti e cessioni dei fornitori di un’impresa comporta per quest’ultima l’automatico coinvolgimento nell’illecito. Viene così ribaltato sull’imprenditore incappato in un acquisto incauto la dimostrazione di essere estraneo alla frode.

Un terzo esempio è rappresentato dalle contestazioni di antieconomicità: l’Amministrazione finanziaria, considerando illegittime determinate scelte imprenditoriali in quanto non in linea al parametro delle c.d. “normali logiche di mercato” (inopinatamente introdotto nella disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale, dall’art. 10-bis, comma 2, lett. a) dello Statuto dei diritti del contribuente), provvede a rettificare la dichiarazione dei redditi, in base all’assunto secondo cui chiunque svolge un’attività economica è indotto a ridurre i costi o a massimizzare i ricavi, a parità di tutte le altre condizioni.

A parere di chi scrive, anche in tali ipotesi è sufficiente una gestione sorvegliata della regola di riparto dell’onere della prova per superare la pretesa tributaria fondata sulla presunzione (di matrice giurisprudenziale) di disonestà.

Innanzitutto, le presunzioni sono – a rigore – solamente legali (ossia inversioni dell’onere della prova previste dalla legge) o semplici (cioè argomentazioni logiche, attraverso cui si induce da un fatto già provato l’esistenza o il modo di essere di un fatto ignoto). Ne discende che la legittimità stessa delle presunzioni giurisprudenziali va revocata in dubbio: nella prassi il giudice è chiamato ad una valutazione sempre nuova e diversa (come diverso è l’atto autonomamente impugnabile e la fattispecie concreta che riguarda il singolo contribuente).

Qualora l’Amministrazione finanziaria per confezionare il suo accertamento utilizzi una presunzione di fonte giurisprudenziale, irrigidendo il giudizio sul fatto ricorrendo a principi di diritto infondati, più che invocare la presunzione di onestà del contribuente appare opportuno reagire in giudizio sulla base della regola generale di riparto dell’onere probatorio.

In particolare, con riferimento al primo esempio, si dovrebbe contestare l’operato dell’Amministrazione finanziaria per mancanza di prove concrete e certe e di presunzioni aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza in merito all’avvenuta distribuzione degli utili extracontabili. Si potrebbe, inoltre, eccepire la violazione del divieto di doppia presunzione, in quanto l’Amministrazione finanziaria, partendo da un accertamento (di norma induttivo) a carico della società per utili conseguiti e non contabilizzati, perviene alla determinazione della distribuzione di quegli stessi utili a vantaggio del socio.

Con riferimento al secondo esempio, come chiarito in numerose pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il soggetto che invoca la detrazione IVA può vedersi disconosciuto il suo diritto di credito solamente se l’Amministrazione finanziaria riesce a dimostrare la sua partecipazione consapevole alla frode. Spetta a quest’ultima dare dimostrazione dell’esistenza di un accordo simulatorio o – perlomeno – di elementi obiettivi tali da porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto in merito all’esistenza di un illecito. Solo ove si raggiunga tale prova, quest’ultimo, ai fini della spettanza del diritto di detrazione, dovrà dimostrare la propria buona fede, che pertanto va presunta in assenza di elementi contrari forniti dalla Pubblica Autorità.

Infine, il contribuente dovrebbe contestare il ricorso al parametro delle “normali logiche di mercato”: spetta all’Amministrazione finanziaria nella motivazione del provvedimento di accertamento chiarire cosa intende per “normale”, cosa è conforme a “logica” e a quale “mercato” fa riferimento.

In conclusione, ai fini della delimitazione garantista dei poteri e dei mezzi di accertamento, che resta il nucleo centrale delle tutele dei contribuenti di cui un Codice dovrebbe occuparsi, non si ritiene necessaria l’introduzione nel nostro ordinamento di una presunzione di onestà, che costituirebbe, peraltro, un doppione (scadente) del principio di buona fede enunciato nello Statuto dei diritti del contribuente. Appare sufficiente, invece, un’applicazione rigorosa della regola di riparto dell’onere della prova, spesso pretermessa nella prassi giudiziale.

(*) Relazione tenuta al Convegno dell’Associazione Nazionale Tributaristi Italiani (ANTI) “Un Codice Europeo dei diritti del contribuente”, tenutosi a Bruxelles-Milano, 12-14 ottobre 2022, già pubblicata in NEΩTEPA, 2023, 1, 110-114.

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