La “prova di resistenza” resiste?

Di Roberto Succio -

Abstract

La Sezione tributaria della Corte di Cassazione propone alla Prima Presidente la remissione alle Sezioni Unite della questione riguardante il concreto contenuto della c.d. “prova di resistenza”, che ritiene non analiticamente sin qui descritto nelle giurisprudenza di legittimità – in materia di tributi armonizzati – atta a giustificare l’annullamento dell’avviso di accertamento notificato al contribuente senza previo contraddittorio in ordine alle riprese oggetto di contestazione da parte dell’Ufficio.

Is the “resistance test” holding up?  – The tax Section of the Court of Cassation recommends to the First President the referral to the United Sections of the question concerning the concrete content of the Italian institution, the so-called “prova di resistenza” here freely and literally translated into “Resistance Test”.  The Ordinance holds that the jurisprudence of the Court of Cassation has not yet described the content of this institution analytically in the field of harmonised taxes. Passing this “Resistance Test” justifies the nullification of the notice of assessment served on the taxpayer without prior discussion of the allegations by the Italian Revenue Agency.

Sommario: 1. Il diritto di difesa nel merito e il diritto di mera doglianza nel contraddittorio tra contribuente e Ufficio. – 2. Sintesi telegrafica delle indicazioni interpretative del giudice unionale sul tema. – 3. L’auspicato ritorno – da parte dell’ordinanza di remissione – alla situazione ante 2015. – 4. Il contenuto della prova di resistenza. – 5. Considerazioni conclusive.

 

1. La Sezione tributaria della Corte di Cassazione rimette alla Prima Presidente della Corte stessa la decisione in ordine all’intervento delle Sezioni Unite con riguardo alla corretta applicazione delle regole che governano la c.d. prova di resistenza nel contraddittorio procedimentale tra contribuente e Amministrazione finanziaria.

Il tema dell’oggetto, prima, e della rilevanza processuale, poi del contraddittorio nella fase procedimentale che vede attori il contribuente e l’Ufficio finanziario è stato ampiamente esaminato dalla dottrina in ogni suo profilo (senza pretesa di completezza: Marcheselli A., Il “giusto procedimento” tributario, principi e discipline, in Uckmar A. – Uckmar V., coordinato da, Il diritto tributario commentato, Genova, 2012; Marcheselli A. – Dominici R., Giustizia tributaria e diritti fondamentali. Giusto tributo, giusto procedimento, giusto processo, Torino, 2016; La Rosa S., Il giusto procedimento tributario, in Giur. imp., 2004, 3, 763 ss.;Gallo F., Verso un “giusto processo tributario”, in Rass. trib., 2003, 1, 11 ss.; Id., Quale modello processuale per il giudizio tributario, in Rass. trib., 2011, 1, 11 ss.; Bodrito A. – F. Fiorentin F. – A. Marcheselli A. – Vignera G., Giusto processo e riti speciali, Milano, 2008; Tesauro F., Giusto processo e processo tributario, in Rass. trib., 2006, 1, 11 ss.; Id., Giustizia tributaria e giusto processo, in Rass. trib., 2013, 2, 309 ss.).

Rileva qui il Collegio che secondo l’Agenzia ricorrente la CTR non avrebbe osservato tali regole non avendo proceduto alla «concreta» valutazione delle ragioni addotte dal contribuente.

Secondo la pronuncia in commento, la CTR non ha qui affrontato ex professo il profilo del contenuto della c.d. prova di resistenza e ha motivato in termini assai sintetici, limitandosi ad osservare che non si doveva «valutare la fondatezza» delle doglianze sollevate, le quali «avrebbero dovuto essere esaminate in sede di contraddittorio preventivo» perché quelle difese non erano «pretestuose», conclusione questa che non viene in alcun modo argomentata, come se fosse evidente la loro “non pretestuosità”, accolta, quindi, come criterio dirimente.

Da un lato quindi l’ordinanza in nota prende atto della ormai consolidata giurisprudenza secondo la quale in materia di IVA al contribuente spetta l’accesso a una fase di confronto con l’Ufficio, anteriormente alla notifica dell’avviso di accertamento, in difetto risultandone leso il diritto di difesa nel procedimento e derivandone quindi l’illegittimità dell’atto successivamente emesso; dall’altro essa sostiene la necessità di riempire di significato il contenuto di tale prova, risultando inidonea a chiarirne il contenuto la sua – ormai tralatizia – definizione giurisprudenziale di “non pretestuosità”.

Nel ricostruire il contesto sistematico, l’ordinanza nota come al di fuori delle fattispecie normative in cui ciò è espressamente previsto «è mancato un generale obbligo, in capo all’amministrazione finanziaria, di attivare il contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente, almeno sino al d. Lgs. n. 219 del 2023 che ha introdotto nello Statuto del contribuente (Legge n. 212/2000) l’art. 6 bis rubricato “principio del contraddittorio”».

L’affermazione, fondata sull’esame del diritto legislativamente enunciato, va peraltro coordinata con il parallelo insegnamento della stessa Corte di Cassazione per il quale il contraddittorio deve ritenersi un elemento essenziale e imprescindibile (anche in assenza di una espressa previsione normativa) del giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa (Così Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2009, n. 26635, n. 26636, n. 26637 e n. 26638).

Essa è regola di civiltà giuridica che lo stesso Collegio ribadisce là dove scrive che «l’attivazione del contraddittorio endoprocedimentale costituisce un principio fondamentale immanente nell’ordinamento ed è operante anche in difetto di una specifica ed espressa previsione normativa, a pena di nullità, dell’atto finale dal procedimento, per violazione del diritto di partecipazione dell’interessato al provvedimento stesso (così Cass., sez. un. 18 settembre 2014, n. 19667)».

Certo risultano ampiamente significative dell’attenzione che il sistema attribuisce al contraddittorio in parola quelle «disposizioni specifiche che prescrivono l’interlocuzione preventiva con il contribuente con modalità ed effetti differentemente declinati: si veda l’art. 38, comma 7, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione alla determinazione sintetica del reddito delle persone fisiche; l’art. 10, comma 3-bis, della legge 8 maggio 1998, n. 146 in tema di studi di settore; l’art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e l’art. 36-ter del medesimo decreto, letti alla luce dell’art. 6, comma 5, Statuto del contribuente; l’art. 10-bis, commi 6, 7 e 8, dello Statuto», come ancora sottolinea in modo analitico l’ordinanza in nota.

Il Collegio remittente prende atto poi di come nel diritto dell’Unione «l’obbligo generale di attivazione del contraddittorio in capo all’Amministrazione rappresenta un principio pienamente acquisito: dal diritto a una buona amministrazione sancito dall’art. 41, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, inteso come “il diritto a che le questioni […] siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione”, deriva, al paragrafo 2, “il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio” (da ultimo, Corte giust., 24 febbraio 2022, in causa C-582/20, SC Cridar Cons srl). Questo diritto “garantisce a chiunque la possibilità di manifestare, utilmente ed efficacemente, la propria opinione durante il procedimento amministrativo prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi” (ex multis, Corte giust., 4 giugno 2020, in causa C-430/19, SC C.F. srl; Corte giust., 16 ottobre 2019, in causa C-189/18, Glencore Agriculture Hungary Kft.; Corte giust., 3 luglio 2014, in cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Worldwide Logistics BV».

Ne deriva che l’obbligo del contraddittorio preventivo impone all’Amministrazione, osserva ancora la Corte, «ove adotti provvedimenti destinati ad incidere sulle posizioni soggettive dei destinatari, di mettere costoro in condizione di esporre utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi posti a fondamento dell’atto medesimo (Corte giust., 18 dicembre 2008, in C-349/07, Sopropé, punto 37; ex multis 22 ottobre 2013, in C276/12, Sabou, punto 38; Corte giust., 17 dicembre 2015, in C-419/14, WebMindlicenses, punto 84)».

Nel caso in cui l’Amministrazione non sia stata rispettosa dell’obbligo di contraddittorio, «la violazione – in assenza di una norma specifica che ne definisca in termini puntuali le conseguenze (come pure precisato, per il nostro ordinamento, da Cass. n. 701 del 2019) – comporta l’invalidità dell’atto, purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e se, in mancanza del suddetto vizio, il procedimento si sarebbe potuto concludere in maniera diversa (Corte giust., 10 ottobre 2009, Foshan Shunde Yongjian Housewares & Hardware, in C-141/08, punto 94; Corte giust., 10 settembre 2013, M.G. e N.R., in C-383/13, punto 38; Corte giust., 26 settembre 2013, Texdata Software, in C-418/11, punto 84; Corte giust., 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, in C-129/13 e C-130/13, punti 79 e 82)».

Così delineato il quadro generale, la Corte ricorda come la stessa con la sentenza n. 24823 del 9 dicembre 2015, abbia precisato che il requisito in questione va inteso «nel senso che l’effetto della nullità dell’accertamento si verifichi allorché, in sede giudiziale, risulti che il contraddittorio procedimentale, se vi fosse stato, non si sarebbe risolto in puro simulacro, ma avrebbe rivestito una sua ragion d’essere, consentendo al contribuente di addurre elementi difensivi non del tutto vacui e, dunque, non puramente fittizi o strumentali», aggiungendo che «non è sufficiente che, in giudizio, chi se ne dolga si limiti alla relativa formalistica eccezione, ma è, altresì, necessario che esso assolva l’onere di prospettare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato […], e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali l’ordinamento lo ha predisposto».

Secondo l’ordinanza in nota, le Sezioni Unite hanno quindi dimensionato la “prova di resistenza” facendo perno sulla “non pretestuosità” delle ragioni difensive, che «sembra attestarsi su un criterio minimale, quasi in termini di mera possibilità, superato il quale la prova può ritenersi comunque raggiunta; sotto altro verso, la formula adottata sposta l’attenzione più sulle ragioni difensive in sé considerate che sulla concreta vicenda processuale, alla luce della quale gli elementi addotti dal contribuente dovrebbero essere considerati».

E allora, venendo al cuore della perplessità espressa dal Collegio che lo induce a sollecitare un nuovo intervento della massima espressione nomofilattica della Corte, «questa soluzione non pare pienamente aderente alla “prova di resistenza” come intesa dalla giurisprudenza unionale che, invece, richiede un giudizio di prognosi postuma da condursi “caso per caso” (Cass. n. 22644 del 2019), attraverso la “concreta valutazione” delle ragioni addotte dal contribuente (Cass. n. 701 del 2019; Cass. n. 31997 del 2023), e richiama un criterio di valutazione essenzialmente probabilistico: infatti, dovendosi garantire la “piena efficacia” del diritto dell’Unione, la violazione del contraddittorio endoprocedimentale può comportare “l’annullamento della decisione adottata al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso” (Corte giust., 3 luglio 2014, Kamino, cit., punto 82, enfasi aggiunta)».

Pertanto, si ritiene che «la discrasia tra principio unionale e giurisprudenza nazionale su contenuto e limiti della “prova di resistenza” nonché la mancanza di precise indicazioni su quanto a fondo ci si debba spingere nella valutazione delle difese addotte dal contribuente rendono assai incerta l’individuazione del corretto metro di giudizio, tanto da giustificare l’intervento delle Sezioni Unite».

Sintetizzando, pare a chi scrive che la Corte abbia inteso richiedere alle Sezioni Unite una tipizzazione della “prova di resistenza” che dovrebbe secondo l’ordinanza che si commenta essere descritta nel suo concreto contenuto per potere risultare conforme ai dettati del giudice dell’Unione.

In altri termini, il risultato auspicato della remissione consisterebbe nella indicazione di quali elementi vanno volta per volta sottoposti al concreto vaglio del giudice e del criterio da adottarsi nel loro apprezzamento, attuando così i risultati interpretativi cui è giunta la Corte di Giustizia.

2. Secondo la giurisprudenza della Corte dell’Unione, il rispetto dei diritti della difesa dev’essere garantito a favore del contribuente non solamente nella dimensione processuale, alla stregua dell’art. 47 della Carta, che garantisce il diritto ad un processo equo, ma anche nella fase logicamente e cronologicamente precedente; si tratta della fase nella quale il contribuente viene sottoposto a controllo dall’Ufficio prima e a prescindere dall’intervento giudiziale (Lorusso F., Il principio del contraddittorio endoprocedimentale, tra principi costituzionali e garanzie sovranazionali, in Innovazione e diritto, 2018, 4, 46 ss.).

Centrale rilievo ha in materia – come dimostra anche il ripetuto riferirsi ad essa dell’ordinanza in nota – la sentenza Kamino International (CGUE, sent. 3 luglio 2014, nelle cause riunite C-129/13 e 130/13, Kamino International Logistics, pubblicata in Corr. trib., 2014, 33, 2542 ss., con nota di Marcheselli A., Il contraddittorio va sempre applicato ma la sua omissione non può eccepirsi in modo pretestuoso e in GT – Riv. giur. trib., 2014, 11, 833 ss., con nota di Iaia R., I confini di illegittimità del provvedimento lesivo del diritto europeo al contraddittorio preliminare, nella quale si afferma che il diritto al contraddittorio non è un elemento accessorio ma un profilo fondamentale).

Il diritto al contraddittorio va quindi considerato parte integrante del rispetto dei diritti della difesa e, dunque, si tratta di un principio generale del diritto dell’Unione.

L’Ufficio tributario allora, prima di adottare un provvedimento individuale lesivo degli interessi del contribuente che ne è destinatario, deve mettere in condizione questo soggetto di manifestare utilmente il suo punto di vista, con riferimento agli elementi sui quali l’Autorità ritiene di fondare la sua decisione, purché questa rientri nella sfera di applicazione del diritto dell’Unione (CGUE, sentenza 22 ottobre 2013, nella causa C-276/12, Sabou, punto 38), come nel presente caso si verifica per le pretese dell’Ufficio quanto all’IVA, tributo armonizzato.

Si tratta, secondo questa pronuncia citata, di un diritto appartenente alla sfera del rispetto dei diritti della difesa, segnatamente al “diritto di essere sentiti” (CGUE, sentenza 9 novembre 2017, nella causa C-298/16, Ispas, punto 26, sulla quale v. il commento di Dellabartola G., Diritto di accesso agli atti del procedimento tributario (quasi) senza limiti, in Corr. trib., 2018, 6, 457 ss.) e mira ad «assicurare una tutela effettiva della persona o dell’impresa coinvolta» e questo diritto dev’essere garantito anche in assenza di un’espressa disposizione che lo preveda (CGUE, sentenza 22 ottobre 2013, causa C-276/12, Sabou, punto 38).

Il principio in esame consente all’Amministrazione finanziaria di prendere in esame ogni elemento che, in concreto, emerga dal confronto con il contribuente; permette all’Ufficio di correggere eventuali errori commessi e al contribuente di fornire elementi relativi alla sua situazione che siano ritenuti suscettibili di incidere in modo diretto o indiretto sul contenuto finale dell’atto come declinato dall’Amministrazione finanziaria.

Va ricordato che nella sentenza Kamino International si precisa con chiarezza come ove l’Amministrazione finanziaria violi il diritto di essere sentiti, questo vizio determina benvero l’annullamento del provvedimento adottato dalla stessa Autorità ma solo «se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso», vale a dire, l’esito e il risultato finale (cioè il provvedimento o l’atto) avrebbero potuto essere differenti (Colli Vignarelli A., Contraddittorio endoprocedimentale, sua violazione e rilevanza della c.d. “prova di resistenza“, in Riv. tel. dir. trib., 2020, 1, IV, 143 ss.) in tutto o in parte.

Più in generale, la violazione dei diritti della difesa non dev’esser formulata in astratto, bensì implica una valutazione «in funzione delle circostanze di ciascun caso di specie» e, in modo particolare, «della natura dell’atto in oggetto, del contesto in cui è stato adottato e delle norme giuridiche che disciplinano la materia in esame» (così letteralmente CGUE, 5 novembre 2014, in causa C-166/13, Sophie Mukarubega contro Préfet de police, Préfet de la Seine-Saint-Denis, punto 54).

Per vero, la centralità del contraddittorio nel procedimento amministrativo di accertamento tributario viene riconosciuta, quale principio generale, ormai da tempo dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2009, n. 26638; in senso conforme, Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2009, nn. 26636, 26637) le cui ragioni paiono sostanzialmente in linea con i principi euro unitari appena illustrati. Si è affermato, da parte della Corte di Cassazione, che il contraddittorio deve ritenersi un elemento essenziale ed imprescindibile, anche in assenza di una espressa previsione normativa, del giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa introducendo nell’ordinamento tributario italiano, un principio generale di diretta applicazione, che trova fondamento nel principio di buon andamento e di imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. nonché nel principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. (Montanari F., Un importante contributo delle Sezioni Unite verso la lenta affermazione del “contraddittorio difensivo” nel procedimento di accertamento tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2010, 2, 40 ss.; Tundo F., Procedimento tributario e difesa del contribuente, Padova, 2013, 33).

Con particolare riguardo ai tributi armonizzati, la Corte di Giustizia (CGUE, sentenza 22 ottobre 2013, causa C-276/12, Sopropè; 3 luglio 2014, C-129/13 e C-7130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Wordwide Logistics BV) ha più volte anche chiarito che in mancanza di una disciplina specifica del diritto unionale in materia di garanzie procedimentali spetta all’ordinamento giuridico dello Stato membro stabilire le modalità per assicurare siffatte garanzie, primo tra tutti il diritto di difesa, nel rispetto del principio di equivalenza per il quale le modalità previste per l’applicazione del tributo armonizzato non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi procedimenti amministrativi per tributi di natura esclusivamente interna, ed il principio di effettività per il quale la disciplina nazionale non deve rendere in concreto impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione e, tra questi, l’esercizio del contraddittorio (CGUE, sentenza 9 novembre 2017, causa C-298/16, Ispas).

3. Ciò chiarito e ricordato, mi pare che per l’irrinunciabile principio di uguaglianza e rispetto del principio di capacità contributiva ogni contribuente dovrebbe essere beneficiario di identica garanzia del contraddittorio endoprocedimentale quale primaria espressione proprio dei principi di uguaglianza, collaborazione e buona fede, immanenti nell’ordinamento giuridico integrato, interno ed europeo, per il più efficace e giusto esercizio della potestà di imposizione tributaria.

Esprimono con chiarezza questo principio due pronunce della Suprema Corte che assumono centralità nel dibattito; l’una traendo il rispetto di tale contraddittorio dalla normativa dello Statuto dei diritti del contribuente – norma generale di sistema, attuativa degli artt. 3, 23, 53, 87 Cost. – l’altra applicando i principi altrettanto sovrani, anzi sovranazionali, della Carta Europea.

La prima pronuncia (Cass., Sez. Un., sent. 29 luglio 2013, n. 18184) risalente al 2013 ha statuito che in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’art. 12, comma 7, L. n. 212/2000 deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di 60 giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni – determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus“, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra Amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’Ufficio.

La seconda (Cass., Sez. Un., sent. 18 settembre 2014, n. 19667) risalente al 2014, ha puntualizzato come l’Amministrazione finanziaria prima di iscrivere l’ipoteca su beni immobili ai sensi dell’art. 77 D.P.R. n. 600/1973 (nella formulazione vigente “ratione temporis“), deve comunicare al contribuente che procederà alla suddetta iscrizione, concedendo al medesimo un termine – che può essere determinato, in coerenza con analoghe previsioni normative (da ultimo, quello previsto dall’art. 77, comma 2-bis, del medesimo D.P.R., come introdotto dal D.L. n. 70/2011 conv. con modif. dalla L. n. 106/2011), in 30 giorni – per presentare osservazioni od effettuare il pagamento, dovendosi ritenere che l’omessa attivazione di tale contraddittorio endoprocedimentale comporti la nullità dell’iscrizione ipotecaria per violazione del diritto alla partecipazione al procedimento, garantito anche dagli artt. 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, fermo restando che, attesa la natura reale dell’ipoteca l’iscrizione mantiene la sua efficacia fino alla sua declaratoria giudiziale d’illegittimità.

Entrambe queste decisioni pongono alla base del decidere la considerazione di fondo secondo la quale la mancata attivazione del contraddittorio prima dell’emanazione dell’atto finale che veicola la pretesa di maggiori tributi dovrebbe rendere, infatti, illegittimi gli atti impositivi originatisi “a valle”, non soltanto nei casi in cui la nullità è prevista espressamente dalla legge quale nullità testuale o espressa ma in tutti i casi in cui risulti accertato che è stato impedito all’interessato di fornire ulteriori dati ed elementi rispetto a quelli in possesso dell’Ufficio finanziario; elementi che, se fossero stati valutati, avrebbero portato ad una rideterminazione o all’annullamento della pretesa manifestata nel provvedimento impugnato, quale conseguenza della violazione dell’obbligo, a carico di ogni Amministrazione procedente, di acquisire ogni ulteriore elemento di valutazione rispetto a quelli nella sua disponibilità prima di incidere negativamente sugli interessi del contribuente destinatario dell’atto in argomento.

Così solamente sarebbe infatti per davvero rispettato il dovere di “ben provvedere” cui ogni Amministrazione è tenuta in conformità dei principi di derivazione costituzionale (artt. 53 e 97 della Cost.) e di quelli di rango comunitario (artt. 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione), come più volte chiarito dalla Corte di Giustizia.

È di immediata evidenza come abbia luogo, a questo punto, una vera e propria biforcazione del percorso logico-giuridico seguito dalla giurisprudenza di Legittimità nel corso dell’evoluzione successiva.

Seguendo un primo sentiero argomentativo, il sistema ammetterebbe solo casi di nullità testuale in violazione dell’obbligo del contraddittorio nei casi di accertamenti dei tributi (armonizzati e non armonizzati) eseguiti dopo accessi, ispezioni e verifiche “in loco” laddove l’accertamento dovesse essere emanato prima dello scadere del termine di 60 giorni dalla consegna del processo verbale di constatazione in quanto in tale fattispecie la norma interna – vale a dire l’art. 12, comma 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, L. n. 212/2000 prevede espressamente la sanzione della nullità (così Cass. civ., sez. V, 15 gennaio 2019, n. 701 e n. 702).

Tale pronuncia si pone in sostanziale continuità con la sentenza del 2013 (Cass., Sez. Un., 29 luglio 2013, n. 18184) poiché fonda la conclusione in ordine alla illegittimità dell’atto impositivo per mancato rispetto del termine dilatorio quale conseguenza della necessaria valutazione “ex ante” del rispetto del contraddittorio che assorbe, pertanto, la “prova di resistenza” sia per i tributi armonizzati che per quelli non armonizzati.

Seguendo un secondo sentiero argomentativo, che traccia la sorte dei casi in cui l’accertamento ha luogo in assenza di accessi, ispezioni e verifiche, il mancato contraddittorio – salvo quelli in cui sia la stessa legge, o una esplicita interpretazione nomofilattica a stabilirne la nullità (come avviene per gli accertamenti elusivi, o fondati sugli studi di settore, ad esempio) – sarà necessario distinguere il metodo, il luogo e la natura dei tributi oggetto del controllo e soprattutto le ragioni che il contribuente avrebbe potuto far valere se fosse stato chiamato dagli Uffici, purché non pretestuose, prima di stabilire se ricorra o meno la “sanzione” della nullità dell’atto impugnato.

In questa seconda fattispecie, che pertanto è differente da quella precedentemente esaminata con riguardo agli accertamenti ante tempus, la Suprema Corte, dapprima ha introdotto una dicotomia tra tributi armonizzati e non armonizzati; quindi, ha richiesto, solo per quelli armonizzati, sulla scia della giurisprudenza unionale, la prova di resistenza anche nelle verifiche “in loco”.

In seguito, quest’ultima prospettazione risulta ridimensionata dalla giurisprudenza seguente (Cass. civ., sez. VI, 17 gennaio 2017, n. 1007; Cass. civ., sez. VI, 5 dicembre 2017, n. 29143) quanto ai tributi armonizzati nelle verifiche in loco, ex art. 12, comma 7, L. n. 212/2000), giungendo a ridimensionare la prova di resistenza nel triplice caso dell’accesso, ispezione e verifica in loco, ferma restando l’illegittimità dell’atto di accertamento nei casi in cui, come si diceva, vi è previsione espressa di nullità e, quindi, unicamente ai casi in cui l’accertamento venga emanato prima dello scadere dei sessanta giorni dalla consegna del processo verbale di constatazione.

Non vi sarebbe, pertanto, nullità nei casi della verifica “in loco” a seguito di accessi, ispezioni e verifiche, allorché l’avviso di accertamento risulti emanato in violazione, per non essersi la parte (e non l’Ufficio) “attivata” presentando memorie difensive (ex art. 12, comma 7), ed ove l’accertamento risulti emanato nel rispetto (e, quindi, dopo) il termine di 60 giorni dalla consegna del processo verbale di constatazione, salva l’eventuale valutazione ex post da parte del Giudice della prova di resistenza con onere di allegazione della stessa da parte del contribuente se non pretestuosa.

Come chiaramente affermato nelle sentenze “gemelle” del 2019, «l’operatività della c.d. prova di resistenza affermata dalle Sezioni Unite 9 dicembre 2015 n. 24283 non può che essere circoscritta al caso di assenza di una specifica previsione del legislatore nazionale di nullità per violazione del contraddittorio. La predetta sentenza, pertanto, correttamente interpretata in rapporto di continuità e di complementarietà con la 18184/13 cit., non introduce (e non si basa su) un discrimine – una summa divisio – tra tributi non armonizzati e tributi armonizzati, in tema di disciplina del contraddittorio endoprocedimentale, bensì distingue tra esistenza, o meno, di una normativa specifica sul punto; se questa esiste (v. art. 12 cit.), la stessa si applica a tutti i tributi, proprio nel pieno rispetto del principio di equivalenza, laddove, in mancanza e quindi in via residuale, subentra il principio generale unionale, ovviamente in tutta la sua portata e, dunque, anche con il limite della prova di resistenza».

Ne deriva che «anche per i tributi armonizzati, scatta la prova di resistenza ai fini del contraddittorio endoprocedimentale nel solo caso in cui la normativa interna non commini espressamente la sanzione della nullità. Specularmente, ove il legislatore la preveda, non dev’essere applicata anche la prova di resistenza. Infatti, solo in assenza di una specifica previsione di nullità introdotta dal legislatore per sanzionare la violazione del contraddittorio vi può essere spazio per il giudice affinché possa operare una valutazione ex post, caso per caso, sull’intervenuto rispetto o meno del contraddittorio medesimo. In conclusione, ai fini delle imposte armonizzate, la prova di resistenza non si deve applicare nelle tre ipotesi in cui nei confronti del contribuente sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, dovendosi applicare solo nel caso di verifiche a tavolino».

4. Le ultime evoluzioni della giurisprudenza di legittimità rendono evidente l’assenza di uniformi conclusioni in ordine al diritto al contraddittorio endoprocedimentale.

E significativamente, il legislatore ha pensato di intervenire con l’art. 5-ter, del D.Lgs. n. 218/1997 di cui dall’art. 4-octies, comma 1, lett. b), D.L. n. 34/2019 il quale, rubricato “Invito obbligatorio”, introdotto nel corso della conversione in legge del già menzionato D.L. n. 34/2019, traspone in realtà una disposizione che costituiva il risultato di un iter parlamentare, relativo a un disegno di legge in materia di semplificazioni fiscali (in argomento Tundo F., Semplificazioni fiscali: diritto al contraddittorio, con limiti, nell’accertamento con adesione, in il fisco, 2019, 22, 2107 ss.; anche il testo inizialmente proposto nel D.D.L. era stato criticato in dottrina, v. Beghin M., Aspetti critici della recente proposta di legge riguardante l’invito al contraddittorio endoprocedimentale, in il fisco, 2018, 42, 4007 ss.; Tundo F., L’invito al contraddittorio in un recente progetto di legge: quali conseguenze per il contribuente?, in Corr. trib., 2018, 39, 2963 ss.).

Si prevede l’obbligo per gli Uffici di notificare, prima di emettere un avviso di accertamento, l’invito per l’avvio del procedimento di accertamento con adesione, di cui all’art. 5 del medesimo D.Lgs. n. 218/1997, al di fuori dei casi in cui sia stata rilasciata copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo.

Allo stesso modo, come precisa il comma 2 dell’art. 5-ter, sono esclusi dall’ambito di applicazione dell’invito obbligatorio gli accertamenti parziali di cui all’art. 41-bis D.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54 D.P.R. n. 633/1972. Il contenuto dell’invito in argomento appare alquanto essenziale: esso deve contenere soltanto gli elementi di cui all’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 218/1997 e dunque «i motivi che hanno dato luogo alla determinazione delle maggiori imposte».

Significativa è la considerazione svolta dal giudice delle leggi (Corte cost., sent. 21 marzo 2023, n. 47), secondo il quale «in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, il comma 5 del citato art. 5-ter tipizza la cosiddetta prova di resistenza, prevedendo che “il mancato avvio del contraddittorio […] comporta l’invalidità dell’avviso di accertamento, qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato”».

L’Ufficio non è dunque tenuto a rammostrare al contribuente le prove della pretesa, venendosi a determinare un’evidente disparità di posizioni all’interno del procedimento di accertamento con adesione così instaurato, nel quale cioè il contribuente potrebbe trovarsi a contraddire “al buio” con l’Amministrazione.

Né sembra che a tale squilibrio possa sopperire quanto si legge nella circ. n. 17/E/2020, secondo la quale la collocazione dell’obbligo di contraddittorio nell’accertamento con adesione rafforzerebbe l’intero impianto del procedimento accertativo, atteso che esso consente «al contribuente di partecipare […] alla fase di analisi dei dati e delle informazioni raccolti dall’Ufficio nella fase istruttoria. Durante il confronto il materiale istruttorio raccolto dall’Ufficio si arricchisce, giacché il contribuente fornisce all’Amministrazione elementi utili alla relativa valutazione».

Il comma 5 della disposizione sopra citata secondo il quale – al di fuori dei casi di motivata urgenza o di fondato pericolo per la riscossione – «il mancato avvio del contraddittorio mediante l’invito di cui al comma 1 comporta l’invalidità dell’avviso di accertamento qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato» pare indice dell’introduzione di una prova di resistenza “generalizzata”, tanto per i tributi armonizzati, che per quelli non armonizzati.

Viene onerato quindi il contribuente si rendere detta prova al fine di far assumere rilievo alla violazione dell’art. 5 citato. Significativo mi pare l’impiego di terminologia quasi sovrapponibile a quella utilizzata dalla pronuncia a Sezioni Unite del 2015.

Alla luce di ciò può quindi notarsi come la prova di resistenza abbia acquisito nella sentenza ridetta un ruolo di contrappeso al diritto al contraddittorio; essa viene qualificata in tale pronuncia come istituto analogo al canone di strumentalità delle forme proprio del diritto pubblico. Ne deriva che affinché la violazione di quest’ultimo possa condurre alla illegittimità dell’atto, il contribuente deve allegare in giudizio tutti gli elementi che, se interpellato adeguatamente, avrebbe potuto addurre in fase istruttoria, non potendosi questi limitare a un’opposizione pretestuosa e strumentale.

In questo senso, la prova di resistenza costituisce espressione del generale divieto di abuso del diritto, declinato nella forma dell’abuso del processo quale utilizzo del tutto strumentale delle facoltà di impugnazione degli atti tributari avente mero interesse dilatorio.

Resta peraltro da dire che se questa è una più precisa definizione della prova di resistenza, nondimeno il contenuto concreto della stessa resta suscettibile di declinazioni incerte.

Tale contenuto sembrerebbe sovrapporsi al merito della controversia, dovendo il contribuente dimostrare che il suo apporto avrebbe portato a un “risultato diverso” del procedimento, inteso come diversa determinazione della maggior pretesa per tributi, in questo ridimensionandosi la violazione del contraddittorio come rilevante in sé. Depone in questo senso quella giurisprudenza secondo la quale il contribuente è tenuto a provare «in modo specifico e concreto che il rispetto del principio avrebbe condotto ad un risultato diverso» (Cass. civ., 6 ottobre 2020, n. 21376; similmente, Cass. civ., 23 maggio 2018, n. 12832).

Altra ricostruzione può proporsi nel ricondurre la prova di resistenza all’abuso del processo, secondo quanto espresso dalle Sezioni Unite nel 2015. Poiché volta ed evitare un abuso del processo, la prova di resistenza andrebbe identificata operando per via di levare, quindi escludendo dalla stessa le eccezioni formalistiche, ovvero «puramente pretestuose», che porterebbero a contestare la violazione del contraddittorio «a fini meramente strumentali», per richiamare il wording della pronuncia citata (così Cass. civ., 6 aprile 2022, n. 11110; nello stesso senso Cass. civ., 15 luglio 2021, n. 20319; valorizza poi il comportamento dell’Ufficio, ai fini di determinare la serietà degli argomenti proposti in sede di deduzione della prova di resistenza, Cass. civ., 20 dicembre 2022, n. 37234).

La “non pretestuosità” di cui trattasi va comunque mantenuta autonoma, anche se collegata, all’esito del giudizio, in quanto non coincide con il merito della controversia per quanto possa essa colorarsi tenendo conto anche degli esiti ex post dello stesso.

5. A riprova della complessità del tema e della centralità che lo stesso assume, devono ricordarsi anche le indicazioni interpretative dell’Amministrazione finanziaria che nella circ. n. 17/E/2020 ha ribadito come la mancata attivazione del contraddittorio comporta l’invalidità dell’atto impositivo «qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri, in concreto, le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato”, salvo i casi di particolare urgenza o di fondato pericolo per la riscossione e quelli di avvenuta partecipazione del contribuente prima dell’emissione di un avviso di accertamento».

È stato anche precisato che in questi casi l’invalidità dell’avviso di accertamento emesso senza aver prima proceduto ad invitare il contribuente al contraddittorio obbligatorio è rimessa «alla valutazione del giudice tributario a cui è demandato stabilire, in sede di impugnazione, se l’osservanza di tale obbligo avesse potuto comportare un risultato diverso». Pertanto, il contribuente deve fornire la prova che l’omissione del contraddittorio gli ha impedito di far emergere elementi o circostanze puntuali e «non del tutto vacui e, dunque, non puramente fittizi o strumentali, che avrebbero potuto indurre l’Ufficio, in concreto, a valutare diversamente gli elementi istruttori a sua disposizione».

Le indicazioni appena citate paiono del tutto allineate con i principi precedentemente esposti.

Alla luce delle considerazioni formulate, mi pare non del tutto appropriata – e comunque ormai ampiamente superata – l’osservazione critica da tempo offerta da altra pronuncia della Corte di legittimità (ordinanza della stessa Corte n. 527/2015) secondo la quale si tratta di «un criterio di individuazione labile e malcerto», dovendo valutarsi la «idoneità delle difese che il contribuente avrebbe spiegato in sede procedimentale a modificare l’esito del procedimento».

La giurisprudenza di legittimità più recente, invero, al fine di valutare la non pretestuosità delle ragioni del contribuente, fa puntuale riferimento in particolare alla condizione che, in giudizio, il ricorrente dimostri che, qualora il contraddittorio fosse stato correttamente attivato, avrebbe potuto addurre elementi difensivi non puramente fittizi o strumentali e, quindi, il procedimento avrebbe potuto comportare un risultato in tutto o in parte diverso nei suoi confronti.

Un primo elemento della serietà – contrario logico della pretestuosità – di tali ragioni potrebbe ritrovarsi nella considerazione che il giudice di primo grado aveva accolto parzialmente il ricorso, proprio in virtù delle medesime ragioni. E ciò non in forza di mere interpretazioni della norma, ma in forza della valutazione di fatti: tali conseguenze sono derivate non dall’avere il contribuente – direbbe il Manzoni dei “promessi sposi” – “narrato il negozio a suo modo”, ma dall’avere il contribuente provato un fatto negato dall’Ufficio.

Un’applicazione della prova di resistenza che contemperi gli interessi del contribuente con quelli dell’Amministrazione potrebbe portare, allora, a ritenere non superata detta prova qualora il ricorso del contribuente si fondi esclusivamente sulla mancata esecuzione del contraddittorio, senza che siano fatti valere anche ulteriori motivi.

In tal caso, infatti, il contribuente dimostrerebbe che non aveva osservazioni da presentare all’Agenzia delle Entrate che avrebbero potuto portarla ad emanare un atto di diverso contenuto o, addirittura, a non emanare l’atto medesimo.

Viceversa, nel caso di ricorso fondato sia sul mancato rispetto del contraddittorio sia su ulteriori motivi di merito, si rivelino essi fondati od infondati all’esito del giudizio, l’atto andrebbe annullato dovendosi il giudice limitare alla constatazione che è stato illegittimamente violato l’obbligo al contraddittorio anticipato.

Una diversa applicazione, che si spinga fino a valutare ex post la fondatezza o meno degli ulteriori motivi di merito, con riguardo all’esclusivo risultato processuale ottenuto in seguito, potrebbe ricondurre ad uno “svuotamento” di significato del principio del contraddittorio anticipato. Evidentemente ove il contribuente, al fine di far valere il vizio di contraddittorio in sede di giudizio, venisse onerato alla prova di avere ragione pure nel merito, in sostanza il contraddittorio non rileverebbe mai o quasi mai, o comunque sarebbe sostanzialmente inutile (in tema Marcheselli A., Il contraddittorio va sempre applicato ma la sua omissione non può eccepirsi in modo pretestuoso, cit.).

In dottrina, a tal proposito, coerentemente nella ricerca di una soluzione che contemperi gli interessi del contribuente con quelli dell’Amministrazione, è stato ritenuto che l’atto impositivo emanato in violazione del principio del contraddittorio procedimentale non sia annullabile per tale motivo, solo qualora il ricorso del contribuente si fondi esclusivamente su tale motivo, senza che siano fatti valere anche motivi di merito (Colli Vignarelli A., Il contraddittorio endoprocedimentale e l’‘idea’ di una sua ‘utilità’ ai fini dell’invalidità dell’atto impositivo, in Riv. dir. trib., 2017, 1, II, 36 ss.)

La prova di resistenza realizza, dunque, una forma di invalidità “anomala”, che potremmo definire condizionata, rilevante solo se casualmente orientata.

Va rammentata l’invalidità condizionata dei provvedimenti amministrativi prevista dal comma 2, dell’art. 21-octies L. n. 241/1990 che, testualmente recita: «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».

Credo non vada dimenticato che l’introduzione dell’istituto ha assunto ormai, in concreto, una funzione di opportuno riequilibrio del sistema in quanto intesa a contenere entro limiti ragionevoli gli effetti dirompenti che la violazione del contraddittorio avrebbe determinato su un numero rilevante di provvedimenti impositivi (in tema Cass., 6 ottobre 2020, n. 21376).

Se infatti tale principio del contraddittorio endoprocedimentale è un principio generale dell’ordinamento, la cui obbligatorietà è desumibile dalle norme dello Statuto (in particolare dagli artt. 5, 6, 7, 10 e 12) e dai principi costituzionali del diritto di difesa (art. 24 Cost) e di buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97 Cost), da ciò deriva che la mancata attuazione dello stesso determina l’invalidità del provvedimento impositivo. La pronuncia a Sezioni Unite del 2015, allora, esaminandone in concreto gli effetti sul sistema tributario, avrebbe la funzione di riequilibrare il contesto, rendendolo meno isostatico e richiedendo quindi la prova di resistenza in funzione di contemperamento degli effetti travolgenti derivanti dalla mancata esecuzione del prescritto contraddittorio.

Si è più volte detto che il ricorrente dovrebbe dimostrare che l’attivazione del contraddittorio preventivo, se si fosse realizzata, avrebbe condotto ad un risultato diverso. In sostanza, allora, il contribuente dovrebbe attivarsi per dar prova di un elemento ipotetico, rappresentato da un giudizio valutativo, che l’Amministrazione finanziaria avrebbe svolto se il contraddittorio si fosse realizzato.

Sotto questo profilo, mi pare che il dover dar prova di un giudizio che un soggetto terzo avrebbe potuto esprimere risulti non facilmente compatibile con l’oggetto della prova nel processo come tradizionalmente concepita, vale a dire la dimostrazione di un fatto ben delineato e allegato dalla parte a fondamento delle proprie domande od eccezioni e oggetto di valutazione da parte del giudice.

La collocazione di tale attività nel procedimento – non nel processo, prima e a prescindere dal processo – rende infatti assai più sdrucciolevole tale affermazione.

Infatti, la prova di resistenza in argomento attribuisce ad un altro soggetto, vale a dire il giudice, la funzione di valutare elementi riguardanti la fase della verifica; ciò operando questi si sostituisce di fatto all’Amministrazione finanziaria, soggetto istituzionalmente competente a svolgere detta incombenza. Come è noto, la natura costitutiva del processo tributario attribuisce al giudice, investito dalla tempestiva impugnazione dell’atto impositivo, il potere di porre nel nulla un atto illegittimo, potere che non potrà però mai comprendere l’esercizio della funzione di imposizione, con sostituzione del giudice all’Amministrazione finanziaria.

In tal senso la giurisprudenza formatasi con riguardo all’impugnabilità del diniego di autotutela: si rileva come il sindacato del giudice possa avere ad oggetto «il corretto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione, nei limiti e nei modi in cui l’esercizio di tale potere può essere suscettibile di controllo giurisdizionale, che non può mai comportare la sostituzione del giudice all’Amministrazione in valutazioni discrezionali» (Cass., SS.UU., 27 marzo 2007, n. 7388).

In questo contesto, allora, è ben possibile che le Sezioni Unite – nella pronuncia che ora si attende – rimandino ai principi già espressi dalla giurisprudenza della Corte di legittimità, magari puntualizzando ulteriormente come il contribuente dovrà, dunque, non limitarsi ad eccepire l’inosservanza dell’obbligo di contraddittorio, ma sarà tenuto a provare l’esistenza di dati fattuali a sé favorevoli, di chiara deduzione e di prova quantomeno plausibile sul piano logico e giuridico e la loro idoneità ad essere in grado di determinare un risultato accertativo differente.

Nella felice sintesi della Corte costituzionale sul tema, può allora enunciarsi l’esistenza di «un generale obbligo dell’amministrazione di instaurare un’interlocuzione preventiva con il contribuente, la cui inosservanza può portare all’invalidità dell’atto impositivo, ma solo se questi assolve alla “prova di resistenza», allegando le ragioni che avrebbe potuto far valere in sede procedimentale e il conseguente pregiudizio sostanziale subito (Cass., sent. n. 24823/2015; in senso conforme, ex multis, Cass., sez. V, ord. 1° aprile 2021, n. 9076; ord. n. 7690/2020; sez. V, ord. 3 ottobre 2019, n. 24699 e ord. n. 17897/2019; così anche Corte cost., sent. 21 marzo 2023, n. 47, punto 5.3, ultimo periodo).

La prova di resistenza determina dunque un evidente “depotenziamento” dei profili di natura formale, in funzione di una contestuale rilevanza di profili attinenti al merito della pretesa.

Vedremo se le Sezioni Unite riesamineranno – e con quale esito – tali profili, di così rilevante interesse scientifico e di altrettanto centrale rilevanza nei rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria.

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