Prime osservazioni sullo schema di decreto legislativo recante revisione del sistema sanzionatorio tributario

Di Andrea Giovanardi -

Abstract (*)

Lo schema di decreto legislativo avente ad oggetto la revisione del sistema sanzionatorio tributario, approvato dal Consiglio dei Ministri il 21 febbraio 2024, è stato trasmesso alle Camere per i pareri richiesti dall’art. 1, comma 2, L. 9 agosto 2023, n. 111. Il testo della relazione predisposto dall’Autore per l’audizione avanti le Commissioni riunite 2a Giustizia e 6a Finanze e tesoro del Senato della Repubblica prende in esame i principali profili del complesso provvedimento legislativo. In particolare, dopo aver evidenziato che il primario obiettivo della riforma è quello di “migliorare la proporzionalità delle sanzioni rispetto alla gravità dell’illecito commesso, la relazione si sofferma sulla riduzione delle misure edittali, sulla discutibile deroga al favor rei e sui delicati rapporti tra procedimento penale e procedimento tributario come rivisti a seguito della revisione del principio del ne bis in idem e della disciplina dei sequestri preventivi in presenza di regolare rateazione del debito tributario. Infine, ci si sofferma su una questione particolare, quella della differenza tra crediti non spettanti e crediti inesistenti, su cui il legislatore ha deciso di intervenire.

Initial remarks on the draft legislative decree revising the tax penalty system – The draft legislative decree concerning the revision of the tax penalty system, approved by the Council of Ministers on February 21, 2024, has been transmitted to the Parliament for the opinions required by Article 1, paragraph 2, of Law No. 111 of August 9, 2023. The text of the report prepared by the Author for the hearing before the Joint Committees 2nd Justice and 6th Finance and Treasury of the Senate of the Republic examines the main aspects of the complex legislative measure. In particular, after highlighting that the primary aim of the reform is enhance the proportionality of penalties with respect to the seriousness of the offense committed, the report focuses on the reduction of edictal measures, the questionable derogation to favor rei, and the intricate nexus between criminal proceedings and tax proceedings as revised subsequent to the review of ne bis in idem principle and the regime of precautionary seizures in the context of regular tax debt installment. Lastly, focus is directed towards a particular issue, namely the distinction between non-accruable credits and non-existent credits, which the legislator has opted to address.

Sommario: 1. Il “miglioramento” della proporzionalità delle sanzioni rispetto alla gravità dell’illecito quale primario obiettivo dell’art. 20 L. 9 agosto 2023, n. 111. – 2. La riduzione delle misure edittali delle sanzioni tributarie nello schema di decreto legislativo (artt. 2 e 4). – 3. La (vistosa e inaccettabile) deroga al principio del favor rei (art. 5). – 4. Su alcune delle modifiche al decreto sui principi generali in materia di sanzioni amministrative tributarie (art. 3). – 4.1. Sanzioni tributarie, persone giuridiche, società di capitali, società di persone e società ed enti interposti. – 4.2. Una nuova causa di non punibilità. – 4.3. La nuova disciplina della recidiva. – 4.4. Sulla possibilità di intervenire sulla misura della sanzione, non solo in diminuzione, ma anche in aumento: il nuovo art. 7, comma 4. – 5. Sui rapporti tra procedimento tributario e procedimento penale (art. 1). – 5.1. Le nuove, insoddisfacenti, regole in materia di ne bis in idem. – 5.2. Sequestro e confisca. – 5.3. Le cause di non punibilità introdotte con lo schema di decreto legislativo. – 6. Una questione particolare: la nuova disciplina dei crediti non spettanti e inesistenti, tra diritto tributario e diritto penale.

1. Dalle disposizioni contenute nell’art. 20 della legge di delega per la riforma tributaria, rubricato “Principi e criteri direttivi per la revisione del sistema sanzionatorio tributario, amministrativo e penale”, a cui è data attuazione con lo schema di decreto legislativo sui cui contenuti oggi sono audito, emerge agevolmente che il prioritario obiettivo che il legislatore delegante si è posto è quello di dare migliore attuazione al principio di proporzionalità delle sanzioni rispetto alla gravità dell’illecito.

Tanto risulta non solo dalla disposizione in cui si indica quale criterio direttivo quello, per l’appunto, di «migliorare la proporzionalità delle sanzioni tributarie, attenuandone il carico e riconducendolo a livelli esistenti in altri Stati europei» (art. 20, comma 1, lett. c), n. 1), ma anche dalle sollecitazioni a:

  1. estendere l’ambito applicativo del principio a norme che, pur non essendo propriamente sanzionatorie, sono comunque destinate a fungere da “valvola di decompressione” del sistema, quali quelle volte a: i) premiare, con la riduzione e/o l’eliminazione delle sanzioni coloro che, in regime di adempimento collaborativo (art. 17, comma 1, n. 1.9.1) o anche al di fuori di esso, adottino sistemi di misurazione e controllo dei possibili rischi fiscali da comunicare preventivamente al Fisco (art. 20, comma 1, lett. b), n. 4); ii) escludere l’applicazione delle penalità per coloro che presentino una dichiarazione integrativa e paghino l’imposta per adeguarsi alle indicazioni che risultino da documenti di prassi pubblicati dall’Amministrazione a valle della procedura di interpello (art. 20, comma 1, lett. c), n. 5);

  2. coordinare la disciplina degli istituti deflativi del contenzioso con il principio di proporzionalità, laddove si richiede di rivedere, evidentemente potenziandola, la disciplina del ravvedimento operoso (art. 20, comma 1, lett. c), n. 2) e di estendere il concorso formale e materiale e la continuazione agli istituti deflativi (art. 20, comma 1, lett. c), n. 4), in modo da evitare che chi voglia definire la propria posizione risulti destinatario di sanzioni più gravose a causa dell’impossibilità di beneficiare dei meccanismi di ricalcolo previsti dall’art. 12, commi 3 e 5, D.Lgs. n. 472/1997;

  3. superare l’ambigua distinzione tra crediti non spettanti e crediti inesistenti (art. 20, comma 1, lett. a), n. 5), sulla scorta della quale finiscono oggi per essere equiparate, si pensi ai crediti di imposta di ricerca e sviluppo, le posizioni di chi abbia ritenuto di poter accedere all’agevolazione in forza di una determinata interpretazione della norma agevolativa e coloro i quali, fraudolentemente, abbiano invece simulato la sussistenza di investimenti mai realizzati.

Ma il tentativo emerge anche, con riferimento ai principi comuni alle sanzioni amministrative e penali, dalla consapevolezza in merito alla necessità di valutare l’adeguatezza della reazione dell’ordinamento agli illeciti tributari avendo a riferimento il sistema nel suo complesso. Così si spiegano:

  1. l’indicazione tesa alla compiuta realizzazione del principio del ne bis in idem (art. 20, comma 1, lett. a), n. 1), obiettivo, questo, che va perseguito con urgenza in un contesto in cui: i) è consentito procedere al sequestro preventivo del profitto del reato da parte dell’Autorità giudiziaria in vista della possibile futura confisca; ii) si è assistito all’inserimento dei reati tributari nell’elenco contemplato dalla disciplina della responsabilità amministrativa degli enti per la condotta delle figure apicali (art. 25-quinquiesdecies D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231);

  2. la prescrizione volta a «rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario prevedendo, in coerenza con i principi generali dell’ordinamento, che, nei casi di sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, i fatti materiali accertati in sede dibattimentale facciano stato nel processo tributario quanto all’accertamento dei fatti medesimi e adeguando i profili processuali e sostanziali connessi alle ipotesi di non punibilità e di applicazione di circostanze attenuanti all’effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari, anche nella fase antecedente all’esercizio dell’azione penale».

È alla luce dell’individuato obiettivo prioritario che mi accingo a esaminare lo schema di decreto legislativo A.G. 144.

2. La riduzione delle misure edittali per quel che concerne le imposte sui redditi, l’IRAP e l’IVA, quale risulta dallo schema di decreto legislativo (art. 2), è qui di seguito compendiata (le norme citate in tabella sono quelle di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, su cui lo schema interviene):

Illecito

Prima

Dopo

Omessa dichiarazione, art. 1, co. 1

Dal 120 al 240%o

120%

Dichiarazione infedele, art. 1, co. 2

Dal 90 al 180%

70%

Dichiarazione infedele con violazione realizzata con documentazione falsa o operazioni inesistenti, art. 1, co. 3

Sanzione dal 90 al 180%, aumentata della metà

70% aumentata dalla metà al doppio

Violazioni previste ai commi 1 e 2 che riguardano redditi prodotti all’estero, art. 1, co. 8

Aumento di 1/3 delle sanzioni ivi previste

Abrogato e quindi nessun aumento

Omessa dichiarazione del sostituto di imposta, art. 2, co. 1

Dal 120 al 240%

120%

Dichiarazione infedele del sostituto di imposta, art. 2, co. 2

Dal 90 al 180%

70%

Omessa dichiarazione IVA, art. 5, co. 1

Dal 120 al 240%, con riduzione per i soggetti che applicano regimi speciali per dichiarazione presentata entro 3 anni dal 60 al 120% e entro l’anno successivo dal 30 al 60%

120%, con riduzione per i soggetti che applicano regimi speciali per dichiarazione presentata entro tre anni al 45% e entro l’anno successivo al 25%

Dichiarazione infedele IVA, art. 5, co. 4

Dal 90 al 180%

70%

Dichiarazione infedele con violazione realizzata con documentazione falsa o operazioni inesistenti, art. 5, co. 4-bis

Sanzione dal 90 al 180%, aumentata della metà

70% aumentata dalla metà al doppio

Richiesta a rimborso eccedenza detraibile da dichiarazione in assenza dei presupposti, art. 5, co. 5

30%

25%

Violazione obblighi relativi alla documentazione, registrazione e individuazione operazioni soggette a IVA, art. 6, co. 1

Dal 90 al 180%

70%

Violazione art. 6, co. 2

Dal 5 al 10%

5%

Violazione art. 6, co. 2-bis

90%

70%

Violazione art. 6, co. 3

90%

70%

Illegittima detrazione IVA, art. 6, co. 6

90%

70%

Violazione del cessionario, art. 6, co. 8

100% imposta

70%

Violazione ex art. 6, co. 9-bis

Da 500 euro a 20.000 euro

Da 500 euro a 10.000 euro

Violazione ex art. 6, co. 9-bis.3, secondo periodo

Dal 5 al 10%

5%

Violazione ex art. 6, co. 9-ter

Dal 10 al 20%

10%

Violazioni relative alle esportazioni, art. 7, co. 1

Dal 50 al 100%

50%

Violazioni relative alle esportazioni, art. 7, co. 3

Dal 100 al 200%

70%

Violazioni relative alle esportazioni, art. 7, co. 5

Dal 100 al 200%

70%

Violazione di cui all’art. 8, co. 3-bis

Da 500 a 50.000 euro

Da 500 euro a 30.000 euro

Violazione di cui all’art. 8, co. 3-ter e 3-quater

Da 1000 a 50.000 euro

Da 1.000 a 30.000 euro

Violazione di cui all’art. 8, co. 3-quinquies

Da 2.000 euro a 21.000 euro

Da 1.500 a 15.000 euro

Violazione di cui all’art. 10, co. 1

Da 2.000 euro a 21.000 euro

Da 1.500 a 15.000 euro

Violazione di cui all’art. 11, co. 2-quinquies

100 euro per ciascuna trasmissione

Introdotto limite di 1.000 euro per ciascun trimestre

Violazione di cui all’art. 11, co. 4-bis

Da 500 a 50.000 euro

Da 500 euro a 30.000 euro

Ritardati ed omessi versamento, di cui all’art. 13, co. 1

30%

25%

Compensazione crediti non spettanti di cui all’art. 13, co. 4

30%

25%, in alcuni casi riducibili qualora ricorrano le condizioni a 250 euro

Compensazione crediti inesistenti di cui all’art. 13, co. 4

Dal 100 al 200%, senza possibilità di definizione agevolata

70%, con possibilità di definizione agevolata e con aumento dalla metà al doppio in caso di frode (art. 13, co. 5-bis)

Queste invece quelle previste per le sanzioni in materia di tributi sugli affari, sulla produzione e sui consumi, nonché sugli altri tributi indiretti (art. 4).

Illecito

Prima

Dopo

Omessa richiesta registrazione e della presentazione della denuncia, art. 69 TUR (D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131)

Dal 120 al 240%, con riduzione dal 60 al 120% se richiesta tardiva non oltre 30 gg.

120%, con riduzione al 45% se richiesta tardiva non oltre 30 gg.

Insufficiente dichiarazione di valore, art. 71 TUR

Dal 100 al 200%

70%

Occultazione di corrispettivo, art. 72 TUR

Dal 120 al 240%

120%

Omessa dichiarazione, art. 50 D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346

Dal 120 al 240%, con riduzione dal 60 al 120% se presentazione tardiva non oltre 30 gg.

120%, con riduzione al 45% se richiesta tardiva non oltre 30 gg.

Infedele dichiarazione, art. 51 D.Lgs. n. 346/1990

Dal 100 al 200%

80%

Violazione ex art. 53, co. 1, D.Lgs. n. 346/1990

Dal 100 al 200%

80%

Violazione ex art. 53, co. 2, D.Lgs. n. 346/1990

Dal 100 al 200%

80%

Omessa richiesta trascrizione o annotazione obbligatoria, art. 9 D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347

Dal 100 al 200%, con riduzione dal 50 al 100% nel caso di ritardo non superiore a 30 gg.

80%, con riduzione al 45% nel caso di ritardo non superiore a 30 gg.

Omesso o insufficiente pagamento dell’imposta, art. 25, co. 1, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642

Dal 100 al 500%

80%

Omessa o infedele dichiarazione di conguaglio, art. 25, co. 3, D.P.R. n. 642/1972

Dal 100 al 200%, con riduzione dal 50 al 100% nel caso di ritardo non superiore a 30 gg.

80%, con riduzione al 45% nel caso di ritardo non superiore a 30 gg.

Violazioni in materia di imposta sugli spettacoli, art. 32, co. 1, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 640

Dal 100 al 200%, con un minimo di 500 euro

60%, con un minimo di 300 euro

Violazioni in materia di imposta sugli spettacoli, art. 32, co. 2, D.P.R. n. 640/1972

Dal 100 al 200%, con un minimo di 250 euro, con riduzione dal 50 al 100% se adempimento effettuato entro 30 gg.

90%, con un minimo di 250 euro, con riduzione al 45% se adempimento effettuato entro 30 gg.

Violazioni in materia di imposta sugli spettacoli, art. 32, co. 3, D.P.R. n. 640/1972

100%o imposta, con un minimo di 500 euro

60%, con un minimo di 300 euro

Violazioni in materia di tasse e concessioni governative, art. 9, co. 1, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641

Dal 100 al 200%

90%

Violazioni in materia di assicurazioni private e contratti vitalizi (art. 24, co. 1, lett. b), L. 29 ottobre 1961, n. 1216)

Dal 100 al 200%

100%

Violazioni in materia di assicurazioni private e contratti vitalizi (art. 24, co. 1, lett. c), L. n. 1216/1961)

Dal 200 al 400%

70%

Violazioni in materia di assicurazioni private e contratti vitalizi (art. 24, co. 1, lett. e), L. n. 1216/1961)

Dal 200 al 400%

70%

Violazioni in materia di assicurazioni private e contratti vitalizi (art. 24, co. 1, lett. h), L. n. 1216/1961)

Dal 100 al 200%

100%

Violazioni in materia di assicurazioni private e contratti vitalizi (art. 24, co. 1, lett. i), L. n. 1216/1961)

Dal 200 al 400%

70%

Le osservazioni che possono farsi sugli anzidetti interventi sono le seguenti.

La prima. Si è deciso, in modo pressoché generalizzato, di eliminare la forchetta tra sanzione minima e sanzione massima a cui siamo da sempre abituati. Mi sembra una scelta convincente e opportuna: la misura massima della pena è inutilmente posta in un contesto, come quello attuale, in cui l’Amministrazione finisce sempre, in ragione della difficoltà di individuare nitidamente l’elemento soggettivo dell’illecito, con l’applicare la misura minima. Discutibile, in questa prospettiva, la decisione di introdurre la forchetta nell’art. 1, comma 3, in materia di imposte sui redditi e IRAP, nell’art. 2, comma 2-bis, in materia di violazioni del sostituto di imposta, nell’art. 5, comma 4-bis, in materia di IVA, per quel che riguarda l’aumento della sanzione nel caso in cui «la violazione è realizzata mediante l’utilizzo di documentazione falsa o per operazioni inesistenti, mediante artifici e raggiri, condotte simulatorie e fraudolente», e ciò per le seguenti ragioni: i) nell’attuale disciplina la sanzione va da un minimo a un massimo, ma l’aumento è fisso, 50%, sicché si assiste al totale capovolgimento dello schema (la sanzione è fissa, l’aumento può essere calibrato da un minimo a un massimo); ii) l’aumento è collegato alla fraudolenza della condotta, che è un’aggravante, il che rende difficile scorgere i motivi sulla base dei quali l’Amministrazione potrebbe ritenere di applicare un aumento superiore al minimo (condotte più fraudolente di altre? Sulla base di quali criteri?); iii) la scelta sembra collegarsi al timore di vedere eccessivamente ridotta la sanzione nei casi gravi previsti dalla norma, timore che non mi sembra giustificato, considerato che, rimanendo sui minimi, generalmente applicati dall’Amministrazione, si scende dal 135% al comunque consistente 105% (se si applica il massimo si sale al 140%, che è superiore alla misura della sanzione che viene generalmente applicata); iv) si è persa l’occasione per chiarire che la sanzione maggiorata andrebbe applicata esclusivamente alla parte di imposta recuperata collegata alla violazione che abbia i caratteri della fraudolenza, e non anche alla parte di imposta derivante da illeciti meno gravi (in vigenza dell’attuale disciplina, la maggiorazione si “porta dietro” tutta l’imposta anche quando la contestazione per operazioni inesistenti riguarda solo una parte, talvolta minima, dell’imponibile recuperato a tassazione).

La seconda. La riduzione delle sanzioni, a voler concentrare l’attenzione sulla revisione delle sanzioni più importanti (quelle di cui al D.Lgs. n. 471/1997), riguarda le fattispecie di infedele dichiarazione sia in ambito imposizione diretta e IRAP e sostituto di imposta che in ambito IVA (dal 90/180 al 70%), quelle connesse agli adempimenti IVA (dal 90/180 al 70%), quella per l’illegittima detrazione dell’IVA (dal 90 al 70%), quella per omessi versamenti e per compensazioni con crediti non spettanti (dal 30 al 25%) e quella per compensazioni con crediti inesistenti (dal 100 al 200 al 70%, con aggiunta della possibilità della definizione agevolata, ad oggi preclusa). Rimane invece sostanzialmente inalterata (conferma nel minimo, che è quanto gli Uffici generalmente applicano) la misura della sanzione per i casi di omessa dichiarazione. Evidentemente si è ritenuto, peraltro nel silenzio della delega, che tale tipo di violazione non abbisogni di essere ridotta in attuazione del principio di proporzionalità, senza con ciò considerare che il criterio direttivo citato e attinente al “miglioramento” della proporzionalità si riferisce indistintamente a tutte le sanzioni, senza esclusione alcuna. Potrebbe peraltro dirsi che sul punto si giunge a quello che abbiamo individuato come obiettivo prioritario della riforma per altra via, in forza di quanto previsto nei nuovi artt. 1, comma 1-bis, 2, comma 1-bis, 5, comma 1-bis, D.Lgs. n. 471/1997, laddove si legge che «se la dichiarazione omessa è presentata con ritardo superiore a novanta giorni» (sulla formulazione della norma ci sarebbe da discutere, atteso che se viene presentata con ritardo inferiore a novanta giorni la dichiarazione non è omessa, ma tardiva), ma non oltre i termini decadenziali di accertamento «e comunque prima che il contribuente abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni e verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo», si applica sull’ammontare delle imposte dovute una sanzione pari al triplo di quella prevista per gli omessi versamenti (75% quindi). Si tratta di disposizione molto opportuna perché non vi è ragione di sanzionare allo stesso modo chi emerge prima di essere intercettato dal sistema dei controlli e chi invece resta nell’ombra, in un contesto in cui la violazione di omessa dichiarazione non può essere oggetto di ravvedimento operoso. Si poteva forse evitare, invece, l’ulteriore riduzione della sanzione risultante dai nuovi artt. 1, comma 2-bis, 2, comma 2.1, 5, comma 4.1, per la dichiarazione infedele rettificata con integrativa entro i termini di decadenza dell’accertamento e prima che siano iniziate attività di controllo di cui il contribuente abbia avuto formale conoscenza (sanzione prevista pari al doppio di quella per gli omessi versamenti, 50% quindi): alla ricordata riduzione, infatti, dovrebbe accompagnarsi l’ulteriore abbattimento derivante dal ravvedimento operoso che, consentendo di ridurre notevolmente la penalità (un sesto del minimo edittale, ma anche meno), finisce quasi per azzerarla.

La terza. Quanto detto permette di affrontare questione di carattere più generale, che è quella, su cui ho già avuto modo di scrivere (Giovanardi, Proporzionalità e deterrenza delle sanzioni: un difficile equilibrio, in Quotidiano più, 16 ottobre 2023), del rapporto tra misura delle sanzioni previste nella legge e istituti deflativi del contenzioso. Se è vero che, dal punto di vista della dosimetria sanzionatoria, l’Italia si pone ad un livello superiore a quello di altri Paesi europei, è anche vero che, se si esamina l’attuale sistema nel suo concreto dispiegarsi, occorre prendere atto che le penalità sono suscettibili di essere pesantemente ridotte per effetto di una nutrita schiera di istituti, dal ravvedimento operoso, all’accertamento con adesione, alla definizione in acquiescenza, alla mediazione, alla conciliazione giudiziale, estesa dalla riforma anche al giudizio di Cassazione. Ne deriva che il congiunto operare della riduzione delle sanzioni e dell’ulteriore potenziamento delle opzioni exit potrebbe attenuare oltremodo l’effetto dissuasivo delle penalità, generando addirittura situazioni in cui, fatta salva l’esigenza di non “sconfinare” nella rilevanza penale dell’illecito, i contribuenti potrebbero considerare un “buon affare” la scelta evasiva, e ciò in ragione della regolarizzazione “a buon mercato” consentita dalla possibilità di pagare sanzioni già ridotte ex lege usufruendo di ulteriori consistenti abbattimenti (dal sesto del minimo edittale con il ravvedimento, ma si potrebbe anche scendere, al terzo per la definizione agevolata e l’accertamento con adesione al 50% al massimo per la conciliazione in secondo grado).

In definitiva, scrivevo solo qualche mese fa, si dovrebbe evitare che la sacrosanta ricerca della migliore realizzazione del principio di proporzionalità generi rovinosi effetti sull’efficacia deterrente delle sanzioni, prezzo questo che non ci possiamo permettere in una situazione in cui il livello dell’evasione fiscale è ancora molto alto.

La quarta. Occorre infine evidenziare che per le sanzioni accessorie previste e disciplinate dall’art. 21, comma 1, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 («a) l’interdizione dalle cariche di amministratore, sindaco o revisore di società di capitali e di enti con personalità giuridica, pubblici e privati; b) l’interdizione dalla partecipazione a gare per l’affidamento di pubblici appalti e forniture; c) l’interdizione dal conseguimento di licenze, concessioni o autorizzazioni amministrative per l’esercizio di imprese o di attività di lavoro autonomo e la loro sospensione, per la durata massima di sei mesi; d) la sospensione dall’esercizio di attività di lavoro autonomo o di impresa diverse da quelle indicate nella lettera c)») si va in direzione opposta a quella dell’attenuazione del carico delle penalità, prevedendosi nel nuovo art. 12, comma 1, D.Lgs. n. 471/1997 che «quando è irrogata una sanzione amministrativa superiore ad euro 50.000, si applica, secondo i casi, una delle sanzioni accessorie previste nel decreto legislativo recante i principi generali per le sanzioni amministrative in materia tributaria, per un periodo da tre a sei mesi» (nell’attuale norma, si prevede da «uno a tre mesi»). La disposizione suscita rilevantissime perplessità perché nulla si dice nella delega sulle sanzioni accessorie, peraltro particolarmente pesanti, con la conseguenza che l’intervento volto ad inasprirle pare sprovvisto di quel supporto che farebbe venir meno ogni dubbio in merito a un possibile eccesso di delega.

Viene poi da chiedersi: non è che si riducono da parte del delegato le sanzioni pecuniarie per poi puntare sulle, per certi versi, potenzialmente più gravose sanzioni accessorie? È così che si persegue il “miglioramento” della proporzionalità delle sanzioni rispetto alla gravità dell’illecito?

Frutto di un autentico svarione, in questo contesto, è l’art. 12, comma 1-bis, il quale prevede che «quando è irrogata una sanzione amministrativa per violazioni riferibili ai periodi di imposta e ai tributi oggetto della proposta di concordato biennale di cui all’art. 9 del decreto legislativo 21 febbraio 2024, n. 13, non accolta dal contribuente, le soglie per l’applicazione delle sanzioni accessorie di cui al comma 1 sono ridotte alla metà». Ed invero, l’inasprimento del trattamento sanzionatorio, che, evidentemente, consegue alla riduzione dei parametri di punibilità non si giustifica, atteso che il non accoglimento della proposta concordataria proveniente dall’Amministrazione costituisce scelta pienamente lecita del contribuente. Perché l’irrogazione di una sanzione nei confronti di chi non abbia accettato la proposta dovrebbe dare origine all’ampliamento della possibilità di comminare sanzioni accessorie rispetto a chi abbia commesso la stessa violazione senza aver ricevuto la proposta dal Fisco? Perché, se le sanzioni pecuniarie per le violazioni commesse rimangono identiche (e ci mancherebbe altro!), si dovrebbe far ricorso a una disciplina più penalizzante per le accessorie? La proposta di concordato preventivo è, per l’appunto, una proposta o una sorta di avvertimento di chiara matrice ricattatoria?

È sbagliato anche il periodo successivo della disposizione qui in commento, laddove si legge che «la medesima riduzione si applica anche quando è irrogata una sanzione amministrativa, in relazione a violazioni riferibili ai periodi di imposta e ai tributi oggetto della proposta, nei confronti di un contribuente decaduto dall’accordo di concordato preventivo biennale per inosservanza degli obblighi previsti dalle norme che lo disciplinano» (si prevede lo stesso nel successivo comma 1-ter per i soggetti nei confronti dei quali si applica la recidiva ex art. 7, comma 3, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, e per coloro che decadono dal regime di adempimento collaborativo di cui al D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128). Ed invero, ribadite le perplessità in merito al rispetto dell’art. 76 Cost., risulta veramente difficile comprendere la ragione per cui la riduzione delle soglie per l’applicabilità delle sanzioni accessorie possa riguardare senza distinzione alcuna coloro che non abbiano accettato la proposta di concordato preventivo biennale e coloro che, avendo accettato, abbiano contravvenuto agli obblighi previsti dalle norme che lo disciplinano (lo stesso vale per l’adempimento collaborativo) o siano incorsi nella recidiva disciplinata dall’art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 472/1997.

3. L’art. 5 dello schema di decreto legislativo stabilisce che «le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, comma 1, lettere a), b), c), d), e), h), i), l), m), n), e o) e 4, si applicano alle violazioni commesse successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto».

Le modifiche di cui si è dato finora conto (e anche quelle su cui ci si soffermerà nel paragrafo successivo) non avranno quindi effetti sugli atti emessi, ma non ancora definitivi, in deroga al principio del favor rei di cui all’art. 3, comma 3, D.Lgs. n. 472/1997, a mente del quale «se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo».

Si tratta quindi di scelta che si fonda sull’idea, esposta anche nella Relazione illustrativa allo schema di decreto, secondo la quale il principio di retroattività della legge più favorevole avrebbe copertura costituzionale solo per il diritto penale (e, infatti, la deroga al favor rei non opera per l’art. 1, che interviene sul D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74), il tutto per il tramite degli artt. 3 e 117, comma 1, Cost., attraverso i quali acquisiscono valenza costituzionale l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e l’art. 49, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in tal senso, anche Corte cost. nella sentenza n. 193/2016, peraltro citata nella Relazione illustrativa allo schema di decreto).

Non è ovviamente questa la sede per approfondire funditus la questione della estendibilità o meno del principio della necessaria applicazione della lex mitior alle sanzioni tributarie, le quali, peraltro, come è noto, non possono, nell’ambito della CEDU, essere qualificate come non penali in ragione della classificazione operata dal singolo legislatore nazionale: l’indagine circa il carattere di una sanzione deve essere compiuta secondo i tre criteri c.d. Engel, tenendo conto del suo carattere afflittivo, delle finalità di deterrenza e dell’applicabilità alla generalità dei cittadini (con la conseguenza che, se essi ricorrono, la sanzione dovrà essere considerata penale secondo la CEDU).

Resta comunque, anche a prescindere dalla costituzionalità, per il vero dubbia, della strada prescelta, che la descritta deroga si palesa come discriminatoria e inopportuna. Non convincono per nulla, in questa prospettiva, le osservazioni contenute nella Relazione illustrativa, in cui si legge che «estrapolare dal contesto tali norme, per assegnare a esse efficacia retroattiva in virtù del principio della lex mitior, e trapiantarle così nel contesto attuale, equivarrebbe a consentire una indiscriminata mitigazione sanzionatoria non compensata dal potenziamento degli istituti di compliance e dal rafforzamento dell’intrinseca coerenza del sistema sanzionatorio, nel rispetto del nuovo punto di equilibrio su cui riposa l’ordinamento di settore. Per converso, un equilibrato bilanciamento dei valori in gioco richiede che anche le norme sanzionatorie più favorevoli operino soltanto in un contesto che trova i propri presupposti negli interessi e valori che caratterizzano per il futuro il sistema tributario per effetto della complessiva e restante parte della riforma generale dell’ordinamento tributario». Sarebbe quindi, si legge ancora nella relazione, «irragionevole applicare anche al sistema previgente norme concepite esclusivamente in vista di un nuovo corso». Pare a chi scrive, infatti, che le conclusioni che si traggono dal faticoso argomentare dell’estensore della relazione dovrebbero essere esattamente opposte a quelle a cui si è ritenuto di giungere: se l’ordinamento abbisogna di riforme che lo rendano più giusto, coerente e ragionevole, non c’è alcun motivo per continuare a sottoporre a più pesanti sanzioni quei contribuenti che, in un contesto non paragonabile, in tesi, a quello che emergerà dalla riforma, abbiano commesso quegli illeciti che oggi il legislatore ha ritenuto di punire con sanzioni più lievi. Per paradosso, sarebbe più logico sostenere opposta tesi, e cioè che sia proprio chi non ha potuto contare su un ordinamento più giusto e su adeguati strumenti di compliance, a dover poter contare su sanzioni più miti o, quanto meno, sulle stesse sanzioni a cui sarà sottoposto chi ha la fortuna di operare in un contesto ordinamentale migliore.

La tesi suesposta non regge poi al vaglio dell’obiettivo fondante dell’intervento riformatore, che, come si è visto a più riprese, è il “miglioramento” della proporzionalità tra penalità e gravità dell’illecito: se si è ritenuto di diminuire la misura edittale delle misure sanzionatorie perché le stesse non erano in linea con quelle di altri Paesi europei allo scopo di dare adeguata attuazione all’anzidetto principio, perché mai tale finalità dovrebbe essere limitata alle condotte future, lasciando quindi consapevolmente in una situazione che non è in linea con il fondamentale principio coloro che l’illecito l’hanno già commesso?

In questa prospettiva, peraltro, si pone un ulteriore problema, che è quello connesso al fatto che nella legge di delega non sussiste alcun appiglio che consenta al delegato di adottare opzione di così grande momento: come può attribuirsi a quest’ultimo, nel silenzio della delega, la facoltà di porre nel nulla uno dei principi che fondano l’ordinamento di settore, quello, come si è ricordato, cristallizzato nel già citato art. 3, comma 3, D.Lgs. n. 472/1997?

Oltretutto, non può non apparire evidente che il ripristino del principio di ultrattività delle norme sanzionatorie tributarie confligge, mettendone a rischio il conseguimento, con lo scopo ultimo dell’intera riforma fiscale, che è quello di riguadagnare la fiducia del contribuente, il quale, persuaso della recuperata ragionevolezza delle leggi tributarie e del diverso atteggiamento dell’Amministrazione finanziaria nei suoi confronti, sarà più compliant, adempiendo spontaneamente in misura maggiore agli obblighi tributari rispetto a quanto oggi accade.

4. Ci si concentra qui di seguito su alcune delle modifiche, quelle che si sono ritenute più importanti dal punto di vista sistematico, apportate dall’art. 3 dello schema di decreto al D.Lgs. n. 472/1997.

4.1. Per quel che riguarda il nuovo art. 2, comma 2-bis, si può dire in questa sede che esso assume valenza meramente ricognitiva di principi già agevolmente desumibili dall’ordinamento: i) riproducendo il contenuto dell’art. 7 D.L. 30 settembre 2003, n. 269, il quale stabilisce che «le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica»; ii) stabilendo che anche le sanzioni relative al rapporto tributario proprio delle società di persone restano a carico delle società, fatta salva nella fase della riscossione la disciplina civilistica sulla responsabilità solidale e sussidiaria prevista dal codice civile per i soggetti privi di personalità giuridica; iii) prevedendo che, se è accertato che la persona giuridica, la società o l’ente privo di personalità giuridica sono fittiziamente costituiti o interposti, la sanzione è irrogata nei confronti del soggetto che ha agito per loro conto. Non si capisce quindi la ragione per cui una disposizione siffatta dovrebbe trovare applicazione per le violazioni commesse dalla data di entrata in vigore del decreto, in forza del già criticato art. 5.

Lo stesso si può dire per il nuovo art. 3, comma 3-bis, il quale stabilisce che «la disciplina delle violazioni e sanzioni tributarie è improntata ai principi di proporzionalità e offensività» e per il nuovo art. 7, comma 1, primo periodo, peraltro ultroneo, il quale statuisce che «la determinazione della sanzione è effettuata in ragione del principio di proporzionalità di cui all’articolo 3, comma 3-bis».

4.2. Il nuovo art. 6, comma 5-ter, dispone che «non è punibile il contribuente che si adegua alle indicazioni rese dall’Amministrazione finanziaria con i documenti di prassi di cui all’articolo 10-sexies, comma 1, lettere a) e b), della legge 27 luglio 2000, n. 212, provvedendo, entro i successivi sessanta giorni dalla pubblicazione delle stesse, alla presentazione della dichiarazione integrativa o al versamento dell’imposta dovuta, sempreché la violazione sia dipesa da condizioni di obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria». Si tratta di opportuna integrazione delle cause di non punibilità già previste nell’art. 10, commi 2 e 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, laddove si stabilisce che non possono essere irrogate sanzioni al contribuente che si sia conformato a indicazioni contenute negli atti dell’Amministrazione finanziaria, anche se successivamente modificate (comma 2) e nei casi di obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria (comma 3). Il caso che rimaneva fuori era quello di chi ha assunto una determinata condotta in assenza di indicazioni di segno contrario da parte dell’Amministrazione in una situazione di incertezza: in una situazione siffatta è corretto prevedere una causa di non punibilità in capo a chi si adegui alle nuove indicazioni entro un termine predeterminato dalla legge stessa mediante presentazione di dichiarazione integrativa. Ovviamente, tale possibilità non sussiste a fronte di affermazioni non nuove rese in circolari o in sede di consulenza giuridica (si assisterebbe, se così fosse, a una sorta di rimessione in termini) e a fronte delle pronunce che non risolvono nodi interpretativi che abbiano generato incertezza tra gli operatori. Anche qui, non è dato capire per quale ragione una siffatta disposizione dovrebbe entrare in vigore solo per le violazioni commesse successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo di riforma.

4.3. Di rilievo è anche la modifica della disciplina della recidiva. L’attuale art. 7, comma 3, prevede che «la sanzione è aumentata fino alla metà nei confronti di chi, nei tre anni precedenti, sia incorso in altra violazione della stessa indole non definita ai sensi degli articoli 13, 16 e 17 o in dipendenza di adesione all’accertamento, di mediazione o di conciliazione […]». La nuova disciplina dell’istituto si differenzia dall’attuale sotto i seguenti profili: i) la sanzione per il recidivo può essere aumentata fino al doppio (che non è poco, anche se si parte da una base fissa e non da una forchetta tra sanzione minima e massima); ii) si ha recidiva se nei tre anni successivi al passaggio in giudicato della sentenza che accerta la violazione o alla inoppugnabilità dell’atto il contribuente sia incorso in altra violazione della stessa indole; iii) l’applicazione della recidiva è impedita dalla definizione della sanzione in ravvedimento o in adesione al processo verbale di constatazione ai sensi del nuovo art. 5-quater D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218.

Il giudizio sulla nuova disposizione è complessivamente positivo. È pur vero che la dimensione del possibile incremento è più importante rispetto a quella attuale (in un contesto di sanzioni ridotte, tuttavia), ma è altrettanto indiscutibile che è un grande passo in avanti che si sia arrivati a stabilire che la recidiva possa trovare applicazione solo in presenza di una precedente sanzione definitiva perché risultante da una sentenza passata in giudicato o risultante da un atto non impugnabile. Qualche criticità mi sembra sia ravvisabile nell’individuazione delle condizioni che disinnescano l’applicazione dell’istituto: perché mai esso dovrebbe applicarsi solo in presenza di ravvedimento e di definizione del verbale in acquiescenza e non anche se si definiscono le sanzioni in accertamento con adesione, in sede di impugnazione degli atti e in conciliazione giudiziale?

4.4. L’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 472/1997, nella versione attualmente vigente, è una sorta di “valvola di decompressione”, stabilendo la norma che «qualora concorrano circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo». Nella versione proposta nello schema, si prevede invece che: i) se sussiste sproporzione, la sanzione è ridotta fino a un quarto della misura prevista (non più minima, perché, lo si è visto, è stata quasi generalmente eliminata la forchetta tra minima e massima); ii) la variazione può essere effettuata anche in aumento, fino alla metà, «se concorrono circostanze di particolare gravità della violazione o ricorrono altre circostanze valutate ai sensi del comma 1 […]».

Il riconoscimento di quest’ultima facoltà genera qualche perplessità perché:

  1. essa è condizionata a circostanza non nitida da un punto di vista definitorio (e quindi vaga), la sussistenza di circostanze di particolare gravità;

  2. una disposizione di tal fatta, se massicciamente utilizzata, potrebbe influire negativamente sull’obiettivo della riforma, che è quello di ridurre le generalmente eccessive sanzioni e di influire positivamente sulla certezza dei rapporti giuridici.

A ciò si aggiunga che non sembra potersi ravvisare nell’art. 20 della legge delega di riforma fiscale un principio o criterio che faccia da supporto all’introduzione della surricordata facoltà di aumentare la sanzione rispetto alla misura prevista dalla legge.

5. L’art. 20, comma 1, lett. a), n. 1, della legge delega richiede di «razionalizzare il sistema sanzionatorio amministrativo e penale, anche attraverso una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione, ai fini del completo adeguamento al principio del ne bis in idem».

Ebbene, va fin da subito evidenziato che le disposizioni proposte nello schema di decreto legislativo muovono qualche passo verso l’“armonizzazione” del sistema sanzionatorio complessivamente inteso, ma appaiono ancora molto distanti dall’obiettivo che, seppur facendo ricorso a formule vaghe, il delegante si è posto.

5.1. Ed invero, se l’intento era quello di «recepire» l’attuale orientamento della giurisprudenza CEDU e unionale, non può che prendersi a riferimento, allo scopo di esprimersi sullo schema di decreto, la celeberrima sentenza della Corte EDU del 15 novembre 2016 A. e B. c. Norvegia (costantemente richiamata dalla successiva giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea), secondo la quale, per potersi ritenere rispettato il menzionato principio nei sistemi a “doppio binario”, dovrebbe potersi rilevare una “sufficently close connection in substance and time” tra procedimenti sanzionatori amministrativi e penali.

Nell’appena menzionata sentenza, al punto 132, si legge che «gli elementi pertinenti per affermare l’esistenza di un nesso sufficientemente stretto dal punto di vista materiale sono i seguenti:

  • sapere se le distinte procedure perseguono obiettivi complementari e riguardanti, non solo in abstracto ma anche in concreto, aspetti diversi dall’atto pregiudizievole alla società in causa;

  • sapere se il dualismo dei procedimenti risulti essere una conseguenza prevedibile, sia dal punto di vista del diritto che nella pratica, degli stessi comportamenti repressi (idem);

  • sapere se i procedimenti in questione si sono svolti in una maniera che evita, per quanto possibile, qualsiasi ripetizione nella raccolta e valutazione degli elementi di prova, principalmente attraverso un’interazione adeguata tra le diverse autorità competenti, facendo sembrare che la statuizione dei fatti effettuata in uno dei procedimenti è stata ripresa nell’altro;

  • e, soprattutto, sapere se la sanzione imposta al termine del processo è stata prima presa in considerazione nell’ultimo processo, in modo da non gravare in modo eccessivo sull’interessato, essendo quest’ultimo rischio meno suscettibile di presentarsi esistendo un meccanismo di compensazione che possa assicurare che l’insieme globale di tutte le sanzioni irrogate sia proporzionale».

Al punto 134 si legge, inoltre, che «come già detto in maniera implicita, quando il nesso sostanziale è sufficientemente forte, la richiesta di un nesso temporale persiste e deve essere soddisfatta. Ciò non vuol dire, comunque, che le due tipologie di procedimenti devono essere portati avanti simultaneamente dall’inizio alla fine. Lo Stato deve avere la facoltà di optare per uno svolgimento progressivo delle procedure, se esso si giustifica con la necessità di efficacia e di buona amministrazione della giustizia, perseguendo finalità sociali diverse e non causando un pregiudizio sproporzionato all’interessato. Nonostante ciò, come già precisato, deve sempre sussistere un nesso temporale. Tale nesso deve essere sufficientemente stretto per proteggere l’individuo dalle incertezze e dalle lungaggini e dai procedimenti protratti per un tempo eccessivo […] anche quando il sistema nazionale preveda un meccanismo “integrato” che comporta una separazione delle componenti amministrative e penali. Più il nesso temporale è sottile, più ci sarà bisogno che lo Stato spieghi e giustifichi i ritardi di cui potrà essere responsabile».

Ciò premesso, mi pare che, nello schema di decreto, il tentativo di adeguamento al principio del ne bis in idem vada individuato nell’art. 1, comma 1, lett. i), l), e m), laddove si prevede, intervenendo sul Titolo IV del D.Lgs. n. 74/2000, che:

  • «le sentenze rese nel processo tributario, divenute irrevocabili, e gli atti di definitivo accertamento delle imposte in sede amministrativa, anche a seguito di adesione, aventi a oggetto violazioni derivanti dai medesimi fatti per cui è stata esercitata l’azione penale, possono essere acquisiti nel processo penale ai fini della prova del fatto in essi accertato» (nuovo art. 20, comma 1-bis);

  • le sanzioni amministrative, anche quelle dipendenti da reato ex art. 25-quinquiesdecies D.Lgs. n. 231/2001, debbono essere, comunque, comminate, salva la necessità di sospenderle in attesa dell’esito del procedimento penale, il quale, se favorevole all’indagato/imputato, con conseguente venir meno della sanzione penale, determina la revoca della sospensione dell’esecuzione delle sanzioni amministrative (art. 21);

  • «la sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito al dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi» (nuovo art. 21-bis, comma 1, con la precisazione che nel comma 2 si stabilisce che l’efficacia di giudicato può essere fatta valere anche nel giudizio di Cassazione e nel comma 3 si prevede che la rilevanza dei fatti definitivamente accertati nel procedimento penale sussiste anche nel processo tributario che riguarda il soggetto rappresentato dall’imputato);

  • l’obbligo per i Giudici o per l’Autorità amministrativa di tenere conto delle sanzioni già irrogate con provvedimenti o sentenze definitivi, siano esse penali, amministrative o amministrative dipendenti da reato (nuovo art. 21-ter).

Ebbene, le disposizioni citate non riescono a garantire quel coordinamento che la giurisprudenza CEDU imporrebbe ai fini della realizzazione del divieto di duplicazione dei procedimenti sanzionatori, in quanto:

  1. le fasi istruttorie del procedimento amministrativo e penale rimangono del tutto autonome e separate, con conseguente duplicazione dell’attività di raccolta delle prove (esse, peraltro, sono rette da principi, regole e garanzie molto differenti tra loro);

  2. discutibile pare essere la limitazione dell’efficacia di giudicato ai fatti materiali accertati esclusivamente nel dibattimento che si conclude con l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso: per quale motivo non debbono essere considerati i fatti materiali emersi nel corso di un giudizio abbreviato? Per quale motivo, poi, non debbono essere considerati i fatti materiali emersi nel corso di un dibattimento conclusosi con sentenza di assoluzione con formula differente? Per quale motivo non debbono essere considerati i fatti materiali emersi nel corso di un dibattimento conclusosi con sentenza di condanna? Per quale motivo non debbono essere considerate come rilevanti nel processo tributario le qualificazioni giuridiche di fatti e circostanze emersi nel corso del procedimento penale?

  3. non convince nemmeno la diversa rilevanza delle sentenze tributarie, «divenute irrevocabili […] aventi a oggetto violazioni derivanti dai medesimi fatti per cui è stata esercitata l’azione penale», nel processo penale, potendo queste ultime essere acquisite «ai fini della prova del fatto in essi accertato»: perché i fatti emersi in sede tributaria non hanno valenza di giudicato nel processo penale, tanto più in un contesto come quello attuale in cui è venuto meno nel rito tributario il divieto di prova testimoniale (art. 7, comma 4, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546)?

  4. desta notevoli perplessità, si tratta di un vero e proprio passaggio a vuoto, la parificazione alle sentenze tributarie definitive degli «atti di definitivo accertamento delle imposte in sede amministrativa, anche a seguito di adesione, […]», potendo anche questi ultimi essere acquisiti al processo penale come prova: come possono ritenersi tali gli elementi che risultino da atti accertativi nemmeno impugnati, magari per errore, o quelli che emergono dagli atti di accertamento con adesione, laddove il contribuente è generalmente indotto a definire per ragioni di mera convenienza economica o per la necessità di evitare rischi non sostenibili per l’attività economica propria o dell’ente rappresentato?

  5. non è minimamente disciplinato nello schema, si tratta di grave lacuna peraltro confliggente con la citata sentenza A. e B. c. Norvegia, il profilo di connessione temporale tra i due processi, rimanendo inalterata la regola del doppio binario contenuta nell’art. 20, comma 1, a mente del quale «il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione»: può quindi succedere, come succede, che sulla legittimità delle sanzioni tributarie il giudice decida indipendentemente dalle risultanze fattuali che emergeranno nel processo penale, con conseguente violazione del principio del ne bis in idem (inutile in questa prospettiva prevedere che i fatti accertati nel procedimento penale abbiano efficacia di giudicato nel procedimento tributario se quest’ultimo non può essere sospeso);

  6. l’art. 21-ter prevede che l’“ultimo giudice” tenga conto delle sanzioni precedentemente irrogate con provvedimento o sentenza definitivi nel momento in cui va a comminare la penalità di sua competenza: la norma, tuttavia, nulla dice sui criteri che andrebbero seguiti, con la conseguenza che la decisione in merito al contemperamento delle diverse sanzioni è lasciata, inaccettabilmente, alla assoluta discrezionalità dell’organo giudicante;

  7. non sono affrontate se non marginalmente (nuovo art. 21-bis, comma 3) le problematiche derivanti dalla duplicazione dei procedimenti allorquando riguardino persone giuridiche/enti (nel procedimento amministrativo) e le persone fisiche che nell’interesse dei primi hanno posto in essere la condotta (nel procedimento penale): si tratta di una delle principali criticità dell’attuale assetto del rapporto tra procedimenti, a cui il legislatore della riforma non ha posto rimedio.

5.2. Il nuovo art. 12-bis, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000 stabilisce che «salvo che sussista il concreto pericolo di dispersione della garanzia patrimoniale, desumibile dalle condizioni reddituali, patrimoniali o finanziarie del reo, tenuto altresì conto della gravità del reato il sequestro dei beni finalizzato alla confisca di cui al comma 1 non è disposto se il debito tributario è in corso di estinzione mediante rateazione, anche a seguito di procedure conciliative o di accertamento con adesione, sempre che, in detti casi, il contribuente risulti in regola con i relativi pagamenti».

Si tratta di norma che tenta di risolvere l’annoso problema del rapporto tra sequestri finalizzati alla confisca (cfr. art. 12-bis, comma 1, a mente del quale «nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto») e pagamento dell’imposta ritenuta evasa, coincidendo il profitto del reato con il mancato pagamento di quest’ultima.

Vi sono tuttavia significative criticità che qui di seguito si espongono.

La norma surriportata inibisce l’effettuazione dei sequestri finalizzati alla confisca in tutti i casi in cui sia in corso una rateizzazione e non vi siano mancati pagamenti di rate, scelta questa più che ragionevole: se si sta pagando l’imposta che è anche profitto del reato e se le condizioni della dilazione sono rispettate dal contribuente, non vi è ragione per procedere con i sequestri mettendo in difficoltà chi sta pagando l’imposta di sua iniziativa. Il punto è, però, che il ricordato divieto viene meno se sussiste «il concreto pericolo di dispersione della garanzia patrimoniale, desumibile dalle condizioni reddituali, patrimoniali o finanziarie del reo, tenuto altresì conto della gravità del reato», con le seguenti conseguenze: i) il regolare pagamento delle rate non è sufficiente perché se l’Autorità giudiziaria ritenga che vi sia un pericolo relativo alla garanzia patrimoniale può comunque disporre il sequestro, così togliendo al soggetto in difficoltà quelle somme che erano destinate al pagamento dell’imposta e quindi alla restituzione del profitto del reato; ii) si fa riferimento alle condizioni economiche del reo, il quale normalmente non coincide con la società rappresentata, sicché potrebbe verificarsi l’assurda situazione che la situazione economica dell’amministratore giustifichi un sequestro sulla società amministrata; iii) la norma impedisce il sequestro qualora ricorrano le condizioni suddette, ma non obbliga l’Autorità giudiziaria alla revoca dei sequestri già disposti in presenza delle medesime condizioni individuate dalla legge; iv) si è persa l’occasione per stabilire che se l’indagato/imputato che abbia già subito il sequestro decida di utilizzare le somme sequestrate per il pagamento del debito tributario così potendo accedere anche al patteggiamento della pena, questa possibilità gli deve essere concessa, risultando del tutto irragionevole la pretesa, purtroppo ritenuta legittima anche dalla Corte di Cassazione (cfr. la sentenza 11 febbraio 2016, n. 5728 e la sentenza 6 luglio 2021, n. 32897), di far pagare tutto il debito tributario prima di restituire le somme sequestrate; v) i sequestri non vengono disposti se il contribuente paga il debito (andava forse anche specificato se la rateazione delle somme iscritte a ruolo a titolo provvisorio in forza delle regole della riscossione frazionata lo inibisca allo stesso modo), ma nulla si dice per il diverso caso in cui il contribuente si sia visto sospendere l’esecuzione dell’atto impugnato dal giudice tributario o annullare l’atto impositivo con sentenza che, anche se non definitiva, ha comunque efficacia esecutiva.

Con riferimento a quest’ultimo punto, è il caso di evidenziare a queste Commissioni riunite che, se si ritiene irrilevante un’ordinanza di sospensione o una sentenza favorevole del giudice tributario ai fini della possibilità di procedere con i sequestri, legando l’inibizione esclusivamente al pagamento, si finisce per influire inaccettabilmente sul diritto alla difesa costituzionalmente garantito e anche, a ben vedere, sul principio di unitarietà dell’ordinamento giuridico: perché mai la sospensione dell’esecuzione o l’annullamento dell’atto riguardante la medesima imposta decisi da un giudice possono essere bellamente ignorati da un altro giudice, quello penale?

5.3. Molto meno problematiche sono le norme che hanno introdotto ulteriori cause di non punibilità.

Si intende riferirsi alle seguenti:

  1. il nuovo art. 13, comma 3-bis, a mente del quale «i reati di cui agli articoli 10-bis e 10-ter non sono punibili se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute, rispettivamente, all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Ai fini di cui al primo periodo, il giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dell’autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di Amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi»;

  2. il nuovo art. 13, comma 3-ter, il quale stabilisce che «ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’articolo 131-bis del codice penale, il giudice valuta, in modo prevalente, uno o più dei seguenti indici: a) l’entità dello scostamento dell’imposta evasa rispetto al valore soglia stabilito ai fini della punibilità; b) salvo quanto previsto al comma 1, l’avvenuto adempimento integrale dell’obbligo di pagamento secondo il piano di rateizzazione concordato con l’Amministrazione finanziaria; c) l’entità del debito tributario residuo, quando sia in fase di estinzione mediante rateizzazione; d) la situazione di crisi ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14».

Si tratta di disposizioni opportune e ben congegnate, rimediando la prima a situazioni in cui il mancato pagamento di IVA e/o ritenute è dovuto alla crisi di impresa o, addirittura, a ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione, consegnando la seconda alle valutazioni del giudice alcuni fatti che giustamente, soprattutto il primo, possono essere considerati indicatori della particolare tenuità del fatto.

6. Di assoluta centralità nell’ambito dello schema di decreto in commento è l’intervento sulle nozioni di “credito non spettante” e di “credito inesistente”, su cui il delegante si propone di operare attraverso l’art. 1, comma 1, lett. a), e l’art. 2, comma 1, lett. l), nn. 2) e 3.3), e che trova il proprio presupposto nell’art. 20, comma 1, lett. a), n. 5), della legge delega, a norma del quale viene imposto al governo quale criterio direttivo quello di «introdurre, in conformità agli orientamenti giurisprudenziali, una più rigorosa distinzione normativa anche sanzionatoria tra le fattispecie di compensazione indebita di crediti di imposta non spettanti e inesistenti».

In proposito, ritengo opportuno premettere che l’intervento riguarda quelle che, dal punto di vista della funzione, sono delle vere e proprie norme di qualificazione: si tratta, infatti, di norme che hanno la finalità di attribuire una certa qualità (la “tipologia” di credito utilizzato in compensazione) a una situazione di fatto (utilizzo di un credito in compensazione) allo scopo di consentire ad altre norme, “a valle”, di associare un determinato regime giuridico (per quanto qui di interesse, un particolare regime sanzionatorio)1 a ciascun tipo di indebita compensazione, graduato in funzione dell’offensività che si associa all’utilizzo di un credito avente particolare caratteristiche. La questione su cui mi soffermo qui di seguito, dunque, va affrontata tenendo ben distinte (i) le norme che definiscono crediti “non spettanti” e crediti “inesistenti” e (ii) le norme che associano una particolare sanzione all’utilizzo in compensazione dell’una o dell’altra tipologia di crediti (su cui, pure, il delegato è intervenuto, vd. supra). Anche se nel prosieguo mi soffermerò sulle norme della prima categoria, mi preme non si dimentichi che, in ragione di quanto detto, la qualificazione che esse operano non è fine a sé stessa, ma è (dovrebbe essere) finalizzata a distinguere condotte aventi diverso grado di offensività.

Allo stato attuale, difetta nel sistema normativo una espressa definizione dei crediti “non spettanti”: risultano infatti positivamente definiti solo i crediti “inesistenti”, sicché le ipotesi che ricadono nella prima categoria vengono individuate in via residuale rispetto a quelle che rientrano nella seconda. In particolare, la qualificazione del credito “inesistente” si ritrova nell’art. 13, comma 5, u.p., D.Lgs. n. 471/1997, il quale dispone che «si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633».

Sull’interpretazione della disposizione da ultimo riportata (e, quindi, sui contorni delimitativi della categoria del credito utilizzato in compensazione da considerarsi “inesistente” rispetto a quello che deve considerarsi “non spettante”) sono di recente intervenute le Sezioni unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 11 dicembre 2023, n. 34119. In tale pronuncia, dopo aver precisato che la nozione di credito “non spettante” ha carattere di residualità rispetto a quella di credito “inesistente”, il giudice di legittimità ha specificato che la qualifica di credito “inesistente” ricorre allorquando siano riscontrabili, congiuntamente, due autonomi requisiti:

  1. il credito, in tutto o in parte, è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge;

  2. il fatto che difettino i presupposti costitutivi previsti dalla legge «non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972».

Di conseguenza, in base alle disposizioni di leggi oggi vigenti, per come interpretate dal giudice di legittimità, nel caso in cui difetti un requisito costitutivo del credito, ma tale difetto sia oggettivamente riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita non riguarda crediti “inesistenti”, ma crediti “non spettanti”.

Alla luce di questo preliminare inquadramento, è possibile meglio apprezzare il contenuto dell’intervento normativo, con il quale il delegato si propone di definire positivamente entrambe le categorie (come si vedrà, si tratta di un superamento solo formale del sistema, ora vigente, basato sulla residualità della nozione di credito “non spettante”). In particolare, nello schema di decreto vengono definiti:

  • come crediti “inesistenti” «quelli per i quali mancano, in tutto o in parte, i presupposti costitutivi»;

  • come crediti “non spettanti” «quelli diversi dai crediti previsti dalla lettera g-quinquies (cioè, i crediti diversi da quelli “inesistenti”, n.d.r.) fondati su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità. Sono, altresì, non spettanti i crediti utilizzati in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quelli fruiti in misura superiore a quella prevista. Si considerano, tuttavia, spettanti i crediti fondati sulla base di fatti reali rientranti nella disciplina attributiva, nonché utilizzati in misura e con le modalità stabilite dalla medesima, ma in difetto dei prescritti adempimenti amministrativi di carattere strumentale, sempre che gli stessi non siano previsti a pena di decadenza».

In proposito, ritengo che l’attenzione vada soffermata sul fatto che, definendo in questo modo le due categorie di crediti, il legislatore delegato, di fatto, realizza un significativo ampliamento del perimetro della fattispecie dei crediti “inesistenti” rispetto a quello risultante dalla sentenza del giudice di legittimità succitata. Il che, a mio avviso, rischia di rappresentare una violazione del criterio direttivo cui il delegante dovrebbe attenersi, il quale esplicitamente richiede che la più netta distinzione avvenga “in conformità agli orientamenti giurisprudenziali”.

Nello schema di decreto legislativo infatti:

  1. sotto un primo profilo, si rimuove, rispetto alla previgente definizione del credito “inesistente”, l’inciso «[…] e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633», inciso che, secondo il giudice di legittimità, serviva a delimitare, in qualità di «ulteriore elemento strutturale esterno alle singole previsioni di imposta» e di «elemento “procedurale” o “percettivo” di carattere obiettivo», le fattispecie integranti, per appunto, crediti “inesistenti”;

  2. sotto un secondo profilo, si conferma la natura meramente sussidiaria della nozione di credito “non spettante” rispetto a quella di credito “inesistente”2. Da ciò consegue che, come espressamente confermato nella Relazione illustrativa allo schema di decreto, un credito potrà essere qualificato come “non spettante” solo dopo che sia stata prioritariamente esclusa la possibilità di qualificarlo come “inesistente” in base alla pertinente disposizione normativa3.

In altre parole, l’estensore dello schema di decreto, da un lato, si propone di ampliare la nozione di crediti “inesistenti” rispetto a quella oggi vigente e, dall’altro, espressamente prevede che la possibilità di qualificare un credito come “inesistente” impedisce, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, di qualificare il credito come “non spettante”.

Quanto sopra rilevato, oltre a suggerire una riflessione circa la compatibilità con il criterio direttivo, fa emergere anche dei possibili problemi di coerenza e di coordinamento dell’intervento normativo in commento.

In primo luogo, laddove il delegato, nel qualificare il credito “non spettante” (si rammenta che, sino a oggi, difettava una espressa definizione), lo definisce come quello «fondato su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità», sembrerebbe voler attrarre a tale categoria i crediti che non sono utilizzabili in compensazione in dipendenza della qualificazione giuridica di fatti storici veramente avvenuti. Tuttavia, in ragione della sussidiarietà della nozione di credito “non spettante” di cui si è detto, tali crediti – a prescindere dal fatto che siano «fondati su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità» – sarebbero comunque “inesistenti” ai fini giuridici laddove gli specifici elementi o le particolari qualità rappresentino dei “presupposti costitutivi del credito”. La circostanza è di primario rilievo, perché la categoria dei presupposti costitutivi è stata interpretata dalla giurisprudenza di legittimità in senso assai estensivo: ne consegue che le situazioni in cui un credito “fondato su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità” potrà essere qualificato come “non spettante” dovrebbero essere considerate, anche in forza del rinvio contenuto nella delega agli orientamenti giurisprudenziali di vertice, più uniche che rare (e, comunque, non facilmente individuabili). A conferma di tale lettura del complicato costrutto normativo, il nuovo art. 13, comma 5-bis, il quale dispone che «nei casi di cui al comma 5, qualora i fatti materiali posti a fondamento del credito siano oggetto di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici, la sanzione è aumentata dalla metà al doppio»: tale norma chiarisce che esistono crediti inesistenti fondati su documenti falsi, e quindi frutto di una condotta fraudolenta, e crediti inesistenti che, invece, non hanno nulla a che fare con una frode, circostanza questa che in modo ancora più evidente consegna la categoria dei crediti “non spettanti” a una tale marginalità da far dubitare della stessa “esistenza” della categoria.

In secondo luogo, ravviso un possibile problema di coordinamento laddove il delegato, con l’art. 1, comma 1, lett. g), dello schema di decreto, introduce una nuova causa di non punibilità per il reato di compensazione indebita (il proposto art. 10-quater, comma 2-bis, D.Lgs. n. 74/2000), con cui si prevede che «la punibilità dell’agente per il reato di cui al comma 1 è esclusa quando, anche per la natura tecnica delle valutazioni, sussistono condizioni di obiettiva incertezza in ordine agli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito». La criticità sta nel fatto che la causa di non punibilità opera solo nel caso in cui la compensazione ha ad oggetto crediti “non spettanti” (fattispecie di reato contemplata dall’art. 10-quater, comma 1), ma non nel caso di crediti “inesistenti” (fattispecie di reato contemplata dall’art. 10-quater, comma 2, non richiamato dal comma 2-bis proposto dal delegante). In ragione di quanto sottolineato al capoverso che precede, così disponendo si finisce per escludere l’operatività dell’esimente in tutte le ipotesi in cui, pur trovandosi in presenza di «condizioni di obbiettiva incertezza in ordine agli elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito, anche per la natura tecnica delle valutazioni», gli elementi o le particolari qualità del credito assurgano a presupposti costitutivi dello stesso (in questo caso, infatti, il credito sarebbe qualificato come “inesistente” e il comma 2-bis inapplicabile a prescindere).

Le due criticità sopra esposte emergono con evidenza se si fa l’esempio pratico, assai diffuso nella prassi operativa, dei crediti di imposta da ricerca e sviluppo fondati su attività complesse materialmente svolte ma che, sulla base di un’interpretazione restrittiva (il famoso «Manuale di Frascati»), non potrebbero essere considerate come ricerca e sviluppo sotto il profilo della qualificazione giuridica. In questo caso, in base all’intervento normativo in commento, il credito utilizzato in compensazione verrebbe quasi sicuramente qualificato come “inesistente” (posto che, mancando il fatto giuridico attività di ricerca e sviluppo, manca un presupposto costitutivo del credito) e, di conseguenza:

  • pur essendo il credito «fondato su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità» (nozione di credito “non spettante”), in ragione del meccanismo di sussidiarietà il credito non potrebbe comunque qualificarsi come “non spettante”, con tutte le relative conseguenze sotto il profilo sanzionatorio;

  • pur trovandosi in presenza di «condizioni di obbiettiva incertezza in ordine agli elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito, anche per la natura tecnica delle valutazioni», non potrebbe operare la nuova condizione di non punibilità di cui al proposto art. 10-quater, comma 2-bis, D.Lgs. n. 74/2000, in ragione del fatto che la compensazione non atterebbe a un credito “non spettante”.

A fronte di quanto sinora rilevato, una possibile soluzione potrebbe essere quella di (i) eliminare l’inciso “diversi da quelli inesistenti” nella definizione dei crediti “non spettanti”, e introdurre l’inciso “diversi da quelli non spettanti” nella definizione dei crediti “inesistenti”. In questo modo, il baricentro verrebbe spostato dai crediti “inesistenti” a quello dei crediti “non spettanti”, perché la riconducibilità di un credito nella seconda categoria (positivamente definita) impedirebbe, a prescindere da altre considerazioni, di ricondurlo nel novero dei crediti “inesistenti”. Questa soluzione, tuttavia, imporrebbe la cautela di considerarne le ripercussioni sull’efficacia deterrente delle norme che sanzionano l’indebita compensazione, in quanto comporterebbe, di riflesso, un significativo ampliamento delle fattispecie represse con la (più tenue) risposta prevista per la condotta di compensazione di crediti “non spettanti”4.

Un’altra possibile soluzione potrebbe essere quella di mantenere l’assetto di residualità proposto nello schema di decreto, avendo però l’accortezza di ripristinare la previgente definizione positiva di credito “inesistente”, il che varrebbe ad assicurerebbe la conformità al criterio direttivo contenuto nella delega. Va tenuto però a mente che questa soluzione, diversamente da quella precedentemente esposta, implicherebbe che la risposta sanzionatoria prevista per i crediti “inesistenti” trovi applicazione (anche) per i crediti la cui inutilizzabilità consegua alla mancanza di un presupposto costitutivo dipendente della qualificazione giuridica di fatti storici effettivamente verificatisi, allorquando tale mancanza non sia intercettabile con controlli automatizzati o formali. Laddove si optasse per questa soluzione, inoltre, si rivelerebbe opportuno espungere dall’art. 10-quater, comma 2-bis, D.Lgs. n. 74/2000 i riferimenti che impediscono a priori che la causa di non punibilità trovi applicazione se la compensazione indebita afferisca a crediti “inesistenti”.

In entrambi i casi, potrebbe altresì risultare opportuno modificare il nuovo art. 13, comma 5-bis, D.Lgs. n. 471/1997, il quale, nella versione sottoposta a parere parlamentare, prevede che «nei casi di cui al comma 5 (cioè, nel caso di compensazione di crediti “inesistenti”), qualora i fatti materiali posti a fondamento del credito siano oggetto di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici, la sanzione è aumentata dalla metà al doppio», estendendone l’ambito di applicazione alla compensazione di qualsiasi credito, in modo tale da evitare che l’ampliamento della categoria di quelli “non spettanti” possa portare, in alcuni casi, a escludere l’applicazione dell’aggravante pur trovandosi dianzi a condotte fraudolente (per esempio, laddove si optasse per la seconda soluzione proposta, la mera possibilità di intercettare l’inutilizzabilità del credito frutto di condotte fraudolente attraverso controlli automatici o formali varrebbe di per sé a escludere che il credito si possa qualificare come “inesistente” e, quindi, l’applicazione dell’aggravante)5.

In conclusione, il tentativo di far chiarezza su una fattispecie estremamente complessa e che molto ha affaticato gli interpreti e gli operatori non è riuscito. I confini della distinzione tra le due tipologie di credito rimangono ancora del tutto incerti e nebulosi. Le norme su cui ci siamo soffermati andrebbero quindi integralmente riscritte. A complicare ulteriormente le cose, ammesso e non concesso che sia possibile, sta anche la scelta di “riprodurre” le definizioni surricordate nell’art. 1, comma 1, lett. g-ter) e g-quater), D.Lgs. n. 74/2000, così facendo venir meno ogni dubbio, in linea con quanto sostenuto dalle citate Sezioni Unite, sul fatto che non vi può essere differenza, sotto il profilo definitorio, tra la nozione di diritto tributario e quella di diritto penale. Il problema, tuttavia, è che tale differenza, esclusa dal legislatore per quanto testé detto, è riuscita a riemergere in forza della già criticata norma sugli effetti temporali dello schema di decreto (art. 5): le nuove definizioni, siamo ai confini della realtà, varranno infatti dall’entrata in vigore del decreto per il diritto penale, per le violazioni successive a quest’ultima data per il diritto tributario.

(*) Testo dell’Audizione sullo schema di decreto legislativo recante revisione del sistema sanzionatorio tributario (A.G. 144) presso il Senato della Repubblica, Commissioni riunite 2a Giustizia e 6a Finanze e Tesoro, Roma, 9 aprile 2024.

1 Ritengo non marginale sottolineare che la qualificazione del credito come “non spettante” o come “inesistente” assume rilievo anche ai fini dell’individuazione del termine di decadenza entro il quale l’Amministrazione deve notificare l’atto di recupero del credito stesso. Infatti, ai sensi dell’art. 38-bis, comma 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, l’atto di recupero del credito d’imposta deve essere notificato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la compensazione è avvenuta, nel caso di credito “non spettante”, mentre nel caso di credito “inesistente” il termine è il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo.

2 Cfr., in proposito, gli incisi «diversi dai crediti previsti dalla lettera g-quinquies» e «diverso da quello di cui al comma 5» che il delegato si propone di utilizzare per definire i crediti “non spettanti”, rispettivamente, nell’ambito dell’art. 1 D.Lgs. n. 74/2000 e nell’ambito dell’art. 13, comma 4, D.Lgs. n. 471/1997.

3 Nella Relazione illustrativa il delegante si esprime, in proposito, nei termini che seguono: «in definitiva, viene reso esplicito il rapporto di sussidiarietà tra le due fattispecie, occorrendo prendere abbrivio da quella dei “crediti inesistenti”, rispetto alla quale assume rilievo dirimente la verifica – per effetto di attività meramente ricognitive – degli elementi che nell’economia della specifica normativa di riferimento assurgono alla dignità giuridica di “presupposti costitutivi”. Solo all’esito, una volta esclusa la sussumibilità nella categoria dei crediti inesistenti per effetto dell’immediato riscontro dei relativi presupposti costitutivi, andrà esplorato il distinto e residuale profilo della “spettanza” connesso ai profili per i quali residuino margini di apprezzamento valutativo».

4 Le stesse considerazioni andrebbero effettuate anche in relazione agli effetti sui termini di decadenza dal potere di emettere l’atto di recupero, ai sensi dell’art. 38-bis D.P.R. n. 600/1973.

5 Una possibile versione alternativa della disposizione potrebbe essere la seguente: «nel caso di utilizzo in compensazione di crediti per il pagamento delle somme dovute, qualora i fatti materiali posti a fondamento del credito siano oggetto di rappresentazioni fraudolente, attuate con documenti materialmente o ideologicamente falsi, simulazioni o artifici, si applica la sanzione di cui al comma 5 aumentata dalla metà al doppio».

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