Back to the past. Un ritorno al passato per il regime dei c.d. impatriati

Di Alessandra Magliaro e Sandro Censi -

Abstract

L’ulteriore modifica del regime degli impatriati abroga l’art. 16 D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147. Il nuovo impianto legislativo si caratterizza per un netto ritorno al passato prevedendo requisiti soggettivi più stringenti diminuendo, altresì, l’ammontare dell’agevolazione. Resta salvo, con qualche perplessità, il regime passato per chi ha usufruito delle agevolazioni anteriormente al 1° gennaio 2024.

Back to the past. A return to the past for the so-called “impatriate regime – The further modification of the regime for inpatriates repeals the art. 16 Legislative Decree 14 September 2015, n. 147. The new legislative system is characterized by a clear return to the past by providing for more stringent subjective requirements while also decreasing the amount of the benefit. The previous regime for those who benefited from the benefits before 1 January 2024 remains unaffected, with some doubts.

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Le modifiche soggettive. – 3. Le tipologie reddituali oggetto dell’agevolazione, i requisiti temporali e i limiti quantitativi. – 4. I criteri di individuazione della residenza all’estero. – 5. Conclusioni.

1. L’annosa questione relativa alle agevolazioni per coloro che trasferiscono la residenza (fiscale) in Italia ha preso l’avvio con la norma denominata “rientro dei cervelli” (L. n. 78/2010) con la quale si stabiliva un regime di favore per il rientro di docenti o ricercatori dall’estero. Nello stesso anno norme di favore sono state previste con la L. n. 238/2010 (“Controesodati”). Successivamente, con il “regime speciale per lavoratori impatriati” (art. 16 D.L. n. 147/2015 convertito in L. n. 208/2015) si è ampliata la platea dei destinatari dell’agevolazione a coloro che fossero in possesso di alte qualificazioni scientifiche e professionali. Ancora, con il “decreto crescita” (D.L. n. 34/2019 convertito in L. n. 58/2019) il Legislatore ha modificato la normativa in esame ampliando, ulteriormente, la portata soggettiva delle norme ivi previste. Mentre, infatti, l’originaria formulazione della norma limitava l’agevolazione ai lavoratori che rivestivano «ruoli direttivi ovvero» erano «in possesso di requisiti di elevata qualificazione o specializzazione come definiti con il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze», con la citata modifica soggetti destinatari dell’agevolazione diventavano tutti coloro che percepivano redditi di lavoro dipendente, anche assimilati, redditi di lavoro autonomo e di impresa se di nuova costituzione. Inoltre, la medesima modifica riduceva il necessario periodo di permanenza all’estero, da 5 a 2 anni e ampliava, altresì la percentuale di reddito esente dal 30 al 70% e, in particolari ipotesi, fino al 90% (sul punto sia consentito rinviare ai nostri contributi su questa Rivista, Ancora un ampliamento delle norme tributarie di favore per i soggetti che trasferiscono la residenza fiscale in Italia, 2019, 2, VIII, 417 ss.; La recente pandemia e le modifiche normative rendono incerta e problematica l’applicazione della normativa sugli impatriati nel mondo dello sport, 2022, 2, VIII, 759 ss.; Ancora sul regime fiscale dei lavoratori sportivi impatriati: i dubbi ancora aperti nonostante i recenti chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate, 23 settembre 2023).

La nuova disciplina, introdotta dall’art. 5 D.Lgs. n. 209/2023, inverte la tendenza all’ampliamento caratterizzante i precedenti interventi normativi. Ed invero, con tale norma, innanzitutto, da un punto di vista soggettivo si richiedono requisiti più stringenti per poter godere dell’agevolazione; vengono ampliati i requisiti temporali richiesti di permanenza all’estero prima del rientro e di permanenza in Italia una volta rientrati; infine viene ridotto al 50% (salvo particolari eccezioni) l’ammontare di reddito esente stabilendo un tetto massimo annuale di reddito che può fruire dell’agevolazione.

2. La prima e più dirompente modifica introdotta dal citato art. 5 D.Lgs. n. 209/2023, è quella relativa ai requisiti soggettivi necessari per poter godere del regime di favore invertendo il trend delle precedenti modifiche che tendevano, invece, ad aumentare il novero dei soggetti destinatari dell’agevolazione.

Innanzitutto viene stabilito che i soggetti che intendono godere dell’agevolazione devono essere in possesso «dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione come definiti dal decreto legislativo 28 giugno 2012, n. 108 e dal decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206». Tra tali soggetti viene effettuata una distinzione a seconda che gli stessi svolgano, o meno, un’attività in una professione regolamentata. In tale ultimo caso si fa rinvio al D.Lgs. n. 206/2007 che disciplina il riconoscimento delle qualifiche professionali. In via residuale, invece, il primo decreto citato, cioè il D.Lgs. n. 108/2012, recependo la Direttiva europea 2009/50/CE, prevede che il requisito di elevata qualificazione o specializzazione ricorre nelle ipotesi di: «Conseguimento di un titolo di istruzione superiore rilasciato da autorità competenti nel Paese dove è stato conseguito che attesti il completamento di un percorso di istruzione superiore di durata almeno triennale e della relativa qualifica professionale superiore, rientrante nei livelli 1 (legislatori, imprenditori e alta dirigenza), 2 (professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione) e 3 (professioni tecniche) della classificazione ISTAT delle professioni CP 2011, attestata dal Paese di provenienza e riconosciuta in Italia».

L’ipotesi dell’esercizio di una professione regolamentata non solleva particolari problemi interpretativi. Al contrario potrebbe essere problematica l’individuazione dei citati requisiti di elevata qualificazione o specializzazione come definiti dal decreto di rinvio. Un ausilio interpretativo potrebbe essere dato, a nostro parere, dall’esame del nono considerando della Direttiva europea 2009/50/CE secondo cui «Ai fini della presente direttiva, per valutare se il cittadino di un paese terzo interessato possiede titoli di istruzione superiore si può far riferimento ai livelli ISCED (“classificazione internazionale tipo dell’istruzione”) 1997 5a e 6». Il livello 5 (non necessariamente universitario) è quello che permette ai partecipanti di ottenere conoscenze, abilità e competenze professionali; il livello 6 è invece quello che permette ai partecipanti di conseguire una laurea di primo livello o di una qualifica equivalente.

Inoltre, i soggetti in possesso delle qualificazioni appena indicate, come detto, devono rientrare «nei livelli 1 (legislatori, imprenditori e alta dirigenza), 2 (professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione) e 3 (professioni tecniche) della classificazione ISTAT delle professioni CP 2011».

La norma nulla dice sull’eventuale necessario collegamento tra la qualificazione e l’attività effettivamente esercitata. A parere di chi scrive non dovrebbe necessariamente sussistere tale collegamento. D’altra parte, ragionando per iperbole, sarebbe interessante individuare quale titolo di istruzione superiore dovrebbe possedere, ad esempio, un illusionista o un ipnotizzatore (entrambi rientranti nella classificazione Istat 2.5.5.5.2). Una conferma della correttezza di tale approdo interpretativo può essere rinvenuta nella circ. 23 maggio 2017, n. 17/E emanata a commento della “prima” disposizione normativa sugli impatriati e cioè la versione originari dell’art. 16 D.Lgs. n. 147/2015. Tale norma prevedeva, per godere dell’agevolazione, la sussistenza dei medesimi requisiti di elevata qualificazione o specializzazione e i medesimi livelli professionali. La citata circolare, esaminando le citate qualifiche soggettive, concludeva sostenendo che «i lavoratori con elevata qualificazione o specializzazione […] non necessariamente devono ricoprire ruoli direttivi o svolgere mansioni attinenti alla alta specializzazione o qualificazione di cui sono in possesso» (dello stesso parere sono Scarioni P. – Martino A.F. – Milani E., Riforma del regime speciale per lavoratori impatriati e nuove criticità, in Corr. trib., 2023, 12, 1009).

Probabilmente il maggior impatto di queste modifiche soggettive si avrà nei confronti di una categoria che, fino ad oggi, ha molto utilizzato le norme in commento e cioè quella degli sportivi. Va innanzitutto ricordato che tali soggetti, a seguito della Riforma dello sport, se ricevono un compenso per la loro attività, sono qualificati come lavoratori sportivi e la tipologia reddituale sarà, per la maggior parte, quella del lavoro dipendente o del lavoro autonomo. Come si dirà meglio infra tali categorie reddituali restano tra quelle che possono godere delle agevolazioni. Per tali soggetti, però, già in precedenza, con una modifica introdotta nel 2019, l’agevolazione era stata limitata al 50% dei redditi conseguiti e, nell’ipotesi di opzione per il regime agevolato da parte di tali soggetti, era previsto il versamento di un contributo pari allo 0,5% della base imponibile. Successivamente, nel 2022, vi era stata una ulteriore contrazione limitando la possibilità di usufruire dell’agevolazione ai soli sportivi professionisti (cioè coloro che prestano la loro attività all’interno di Federazioni sportive che abbiano conseguito la qualificazione professionistica) e solo al raggiungimento di determinati limiti reddituali (per un approfondimento sul tema ci sia consentito rinviare al nostro La recente pandemia e le modifiche normative rendono incerta e problematica l’applicazione della normativa sugli impatriati nel mondo dello sport, cit.). Ora è stato eliminato ogni riferimento specifico agli sportivi nella norma in commento e gli stessi, pertanto, non avranno una disciplina ad hoc. Al contrario, posto che gli atleti rientrano nel livello 3 della classificazione ISTAT sopra citata, solo se possiedono anche i livelli di istruzione/specializzazione sopra descritti potranno usufruire della norma agevolativa.

3. Una ulteriore restrizione operata dalla modifica normativa riguarda le tipologie reddituali coinvolte. In primo luogo fra i redditi agevolabili non rientrano più i redditi d’impresa. Questi sono stati ricompresi all’interno dell’art. 6 del medesimo D.Lgs. n. 209/2023 che espressamente stabilisce che: «Al fine di promuovere lo svolgimento nel territorio dello Stato italiano di attività economiche, i redditi derivanti da attività di impresa e dall’esercizio di arti e professioni esercitate in forma associata, svolte in un Paese estero non appartenente all’Unione europea o allo Spazio economico europeo, trasferite nel territorio dello Stato, non concorrono a formare il reddito imponibile ai fini delle imposte sui redditi e il valore della produzione netta ai fini dell’ imposta regionale sulle attività produttive per il 50 per cento del relativo ammontare nel periodo di imposta in corso al momento in cui avviene il trasferimento e nei cinque periodi di imposta successivi» (peraltro l’efficacia di tale disposizione è subordinata all’autorizzazione della Commissione europea ai sensi della normativa relativa al divieto di aiuti di Stato).

Restano invece compresi nell’agevolazione i redditi di lavoro dipendente e assimilati, mentre per i redditi di lavoro autonomo il riferimento normativo è solo a quelli derivanti dall’esercizio di arti e professioni con esclusione quindi dei redditi assimilati di cui all’art. 53, comma 2 (in tal senso anche Ferranti G., Nuovo regime fiscale per i lavoratori impatriati, in il fisco, 2024, 4, 313).

Dal punto di vista temporale il periodo trascorso all’estero è stato aumentato a tre periodi di imposta precedenti il trasferimento e non più ai due previsti dalla normativa precedente.

Regole temporali più stringenti, poi, sono state previste relativamente ai redditi di lavoro dipendente se l’attività lavorativa viene prestata in favore dello stesso soggetto presso il quale l’impatriato era impiegato all’estero. Aumentano infatti a sei gli anni di permanenza all’estero se il lavoratore non era stato in precedenza impiegato in Italia in favore dello stesso soggetto oppure di un soggetto appartenente al suo stesso gruppo.

Diventano infine sette gli anni all’estero prima del ritorno se il lavoratore, prima del suo trasferimento all’estero, era stato impiegato in Italia in favore dello stesso soggetto oppure di un soggetto appartenente al suo stesso gruppo.

Anche dal punto di vista quantitativo la nuova disciplina restringe l’ammontare delle agevolazioni.

Il nuovo regime prevede un abbattimento della base imponibile IRPEF pari al 50% (precedentemente era pari al 70%) su un ammontare di reddito non superiore a 600.000 euro su base annua, eliminando la maggiore detassazione al 90% prevista per i casi di trasferimento di residenza nelle regioni del Sud d’Italia.

Tale nuovo regime resta inoltre soggetto alle limitazioni in tema di aiuti di Stato de minimis che fa sì che per i soli lavoratori autonomi il beneficio in termini di minori imposte pagate non possa comunque superare 300.000 euro su base triennale. L’abbattimento dell’imponibile fiscale può arrivare al 60% qualora il lavoratore si trasferisca in Italia con un figlio minore o in caso di nascita di un figlio, ovvero di adozione di un minore di età durante il periodo di fruizione del regime.

4. Interessante la disciplina prevista per la verifica della sussistenza della residenza all’estero nei tre anni precedenti il rientro per poter godere dell’agevolazione.

Occorre premettere che la normativa del TUIR relativa alla determinazione della residenza fiscale in vigore fino al 31 dicembre 2023 individuava l’iscrizione all’Anagrafe Italiana dei Residenti all’Estero come un requisito formale ma imprescindibile per poter considerare il contribuente non più fiscalmente residente in Italia. Tale necessaria iscrizione, per concorde opinione dell’Amministrazione finanziaria e della giurisprudenza di legittimità, assurgeva al rango di presunzione assoluta. Le prime disposizioni relative alle agevolazioni per gli impatriati contrastavano tale posizione poiché la normativa prevedeva che «I cittadini italiani non iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE) rientrati in Italia a decorrere dal periodo d’ imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2019 possono accedere ai benefici fiscali di cui al presente articolo purché abbiano avuto la residenza in un altro Stato ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi». In sostanza, dunque, anche se limitatamente alle disposizioni relative agli impatriati il Legislatore espressamente escludeva che l’omessa iscrizione all’AIRE comportasse una presunzione assoluta di residenza fiscale in Italia.

Tale diverso valore presuntivo attribuito alla iscrizione anagrafica è stato confermato dal Legislatore della riforma. Ed invero l’art. 2 TUIR, nella nuova versione in vigore dal 1° gennaio 2024, riconosce l’iscrizione anagrafica, con valore di presunzione relativa, come uno dei requisiti, ma non il solo, per individuare la residenza fiscale di un contribuente (sia consentito sul tema rinviare al nostro Le nuove regole per la residenza fiscale non fanno buon uso della migliore prassi internazionale e convenzionale, in il fisco, 2023, 44, 4177).

La nuova normativa sugli impatriati, pur se contenuta all’interno dello stesso corpo normativo che modifica l’art. 2 TUIR, appare però disallineata con tale ultima disposizione. Infatti il comma 6 dell’articolo 5 della norma sugli impatriati prevede che: «i cittadini italiani si considerano residenti all’estero se sono stati iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE) ovvero hanno avuto la residenza in un altro Stato ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi». Tale previsione, come detto, pare asimmetrica rispetto alla norma di riferimento per verificare la residenza fiscale in Italia o all’estero nel nostro ordinamento.

Si potrebbe, ad esempio, ipotizzare la spettanza dell’agevolazione nel caso di un contribuente che, seppure iscritto all’AIRE, venga in seguito riqualificato dall’Amministrazione finanziaria italiana come residente nel nostro Paese perché ivi abbia mantenuto il domicilio o la residenza.

Sempre con riferimento alla determinazione della residenza estera la normativa in commento, in alternativa alla iscrizione all’AIRE, continua a fare riferimento al concetto di “residenza convenzionale”. Viene infatti stabilito che si considera residente all’estero chi ivi abbia avuto la residenza «ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi».

In realtà sia il Modello di Convenzione OCSE sia le Convenzioni sottoscritte in applicazione di tale Modello non contengono affatto una definizione autonoma di residenza che possa essere adottata in luogo delle nozioni che possono essere recate dalle normative domestiche. Infatti le Convenzioni, al primo comma dell’art. 4, si limitano a rinviare alle singole normative nazionali per la definizione di soggetto residente in uno Stato contraente.

Si ritiene che il Legislatore non abbia voluto rinviare alla normativa nazionale contenuta nell’art. 2 TUIR (anche perché in questo caso sarebbe davvero pleonastico il rinvio ad una norma convenzionale che a sua volta rinvia alla normativa nazionale), ma, più probabilmente, abbia voluto fare riferimento al secondo comma dell’art. 4 del Modello OCSE, ovvero alle c.d. tie break rules. Tale norma convenzionale indica più criteri per giungere all’individuazione della residenza fiscale, quando, in base alle disposizioni nazionali una persona fisica deve considerarsi residente in entrambi gli Stati contraenti, specificando un preciso ordine gerarchico. Tali criteri possono essere così riassunti: i) abitazione permanente; ii) centro degli interessi vitali ed economici; iii) soggiorno abituale; iv) nazionalità. Il riferimento del Legislatore nazionale alla c.d. residenza convenzionale, a parere di chi scrive, dovrebbe pertanto essere interpretato come effettuato alle ipotesi per la determinazione della residenza come previste dal comma 2 dell’art. 4 del Modello di Convenzione.

5. Qui giunti crediamo di aver opportunamente motivato e dimostrato le nostre osservazioni in premessa secondo cui l’ultima versione della norma sugli impatriati segna, se non proprio un ritorno al passato, perlomeno un ampio intervento restrittivo soprattutto in ambito soggettivo. Essa infatti, nata per attrarre in Italia talenti, che la norma definiva “lavoratori con ruoli direttivi” o “in possesso di requisiti di elevata qualificazione o specializzazione” era andata via via estendendosi ampliando sempre più il novero dei soggetti che di essa potevano usufruire. Inoltre, spesso, si era registrato un abuso della stessa soprattutto relativamente agli ulteriori benefici concessi a favore di chi trasferiva la residenza nel sud Italia o nelle isole. Lo stesso Ministro dell’Economia, in varie interviste, aveva anticipato l’intenzione, poi concretamente realizzata nelle modifiche sopra descritte, di voler porre un freno all’abuso della normativa. Non resta che attendere il decorso del tempo per verificare il raggiungimento di tale obiettivo.

Da ultimo si segnala che il nuovo regime si applica ai soggetti che trasferiscono la residenza fiscale in Italia a decorrere dal periodo di imposta 2024. Al contrario i soggetti che hanno trasferito la propria residenza anagrafica in Italia entro il 31 dicembre 2023 ed i titolari di rapporti di lavoro sportivo che hanno stipulato il relativo contratto entro la stessa data potranno usufruire dell’agevolazione alle condizioni, più favorevoli, della disciplina abrogata.

Una ulteriore norma di favore è riservata a quei soggetti che trasferiranno in Italia la propria residenza anagrafica nell’anno 2024 purché abbiano acquistato un immobile in Italia adibito ad abitazione principale entro il 31 dicembre 2023 e, comunque, nei 12 mesi precedenti al trasferimento e purché trasferiscano la propria residenza anagrafica in Italia nell’anno 2024. Tali soggetti potranno beneficiare dell’agevolazione per ulteriori 3 periodi di imposta alle condizioni previste dal nuovo regime.

Il dettato normativo, infine, fa salva l’agevolazione attualmente esistente per il rientro in Italia di ricercatori e docenti e cioè quella prevista dall’art. 44 D.L. n. 78/2010. Tale norma permette a ricercatori e docenti che hanno svolto attività di ricerca o docenza all’estero per almeno due anni di rientrare con una detassazione del 90% del reddito.

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